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                                           PUBBLICAZIONI

Vincenzo Masini, Medicina narrativa, comunicazione empatica e interazione dinamica nella relazione medico-paziente, Franco Angeli, Milano 2005, p.256, 21 Euro

Quanto la relazione medico-paziente può incidere nel processo di guarigione? E, soprattutto, in che direzione orientare un cambiamento? In che senso è necessario favorire la responsabilizzazione e l’autonomia del paziente? Rispondere a queste domande senza cadere nell’equivoco di un sin troppo facile invito all’ascolto del paziente e alla comprensione umana della sofferenza, è l’obiettivo, in gran parte raggiunto, da “Medicina narrativa”.  L’approccio narrativo in medicina propone una vera e propria innovazione epistemologica della EBM che accanto all’obiettiva valutazione delle terapie e dei farmaci più efficaci, lasci spazio alla comprensione del significato che la malattia ha per chi la vive. Questo permette una anamnesi più approfondita, può far emergere vissuti che contribuiscono alla formulazione della diagnosi, ma può anche, spesso, essere terapeutico in sé per il paziente, oltre a favorire l’accettazione della malattia e della terapia. Osservare la soggettività della malattia, e ritenerla a buon diritto un aspetto clinicamente rilevante sia per la diagnosi che per la cura, secondo l’approccio della medicina narrattiva, porta ad un profondo ri-orientamento epistemologico. E’ la via per fondare scientificamente la psicosomatica; per spiegare oggettivamente le connessioni tra costituizione genetica, ambiente e stile di vita; per individuare specifiche predisposizioni ad ammalarsi; per ottimizzare in ragione delle caratteristiche genotipiche, fenotipiche  e personali, l’uso di farmaci e terapie. In breve, un nuovo modo di fare medicina.    

 

Ma la medicina narrativa, indipendentemente dai risultati clinici che indubbiamente favorisce, ha una profonda valenza etica. Suo scopo è tenere conto del paziente come persona, offrirgli uno spazio protetto in cui l’alienazione da sé e la regressione psichica, a cui spesso porta la sofferenza, trovino il modo per essere dette, in cui la propria storia di malattia possa essere narrata per rintracciarvi un possibile significato. La narratività in medicina, osserva l’autore, non è solo un’anamnesi più accurata ma implica un diverso modo di intendere ciò che è rilevante. Un processo, questo, complesso e impegnativo per il medico, che, anche se non è assolutamente sufficiente per affrontate in modo terapeuticamente efficace una patologia, tuttavia, può facilitare la guarigione ed è sicuramente necessario per curare e per rispettare il paziente come persona.    

 

Si tratta però di individuare strumenti relazionali pertinenti, consolidati e non generici. Lo stesso continuo riferimento all’empatia rischia infatti di divenire un appello generico ai buoni sentimenti. Cosa si intende per empatia all’interno della relazione medico-paziente? Di quale approccio comunicativo ha bisogno quel particolare paziente?  Quale equilibrio mantenere tra coinvolgimento e distanza emotiva? Virtù del libro è aver cercato una risposta a queste domande attraverso una ricerca sul campo condotta su un cospicuo numero di medici di famiglia, i cui risultati sono interpretati alla luce di un quadro teorico molto ampio che interseca categorie sociologiche e psicologiche. Gli strumenti e la metodologia proposta per una comunicazione corretta, efficace e rispettosa della personalità del paziente, sono quindi frutto di una rielaborazione di approcci teorici interdisciplinari validati attraverso la ricerca empirica. La questione principale, osserva l’autore, «verte sulla appropriatezza del significato co-costruito nella relazione. I collegamenti tra narrattività ed empatia devono essere rivisitati per stabilire una connessione tra un certo tipo di empatia, cognitiva o emozionale o affettiva, ed un certo tipo di narrazione: quella che allude ad una produzione di significato afferente alla sfera del “capire” e quella che è afferente al “sentire». 

 

E’ infatti la disposizione narrativa del medico a favorire l’apertura empatica del paziente, sia verso l’esterno che verso il suo stesso vissuto di sofferenza. La narrazione è quindi sì un modo di parlare, ma anche un modo di porsi e di proporsi al paziente che facilita l’elaborazione di un significato della malattia appropriato al vissuto del paziente, e non un significato qualsiasi tra i tanti possibili. Lo stesso equilibrio tra coinvolgimento e distacco è in funzione dello specifico contesto relazionale che si crea in modo irripetibile con ogni singolo paziente. L’empatia, infine, assume connotazioni diverse in ragione della disposizione comunicativa del medico, ma anche dell’apertura relazionale personale del paziente, e può spostarsi su un registro più chiaramente emotivo-affettivo o, al contrario, cognitivo-razionale. L’empatia emotivo-affettiva non propone classificazioni per tipologie psicologiche dei pazienti, ma è aperta ad ogni sfumatura del vissuto, vive del contatto nel qui ed ora con quel particolare paziente. L’empatia cognitiva è invece capacità di immaginare lo stato mentale altrui anticipandone i percorsi, i dubbi, i pregiudizi, le scelte rese possibili dal suo orizzonte culturale ed esistenziale.

 

L’empatia non può però aprire porte chiuse, né essere considerata una tecnica psicologica per violare l’intimo vissuto del paziente. E’ un pericolo insito in ogni atto medico, che indaga su un corpo malato e indifeso che siamo costretti ad esporre allo sguardo, alla manipolazione, all’indagine diagnostica. La relazione medico-paziente entra per necessità nel cerchio sacro che protegge la dignità della persona, il suo rispetto di sé, la sua autonomia. Utilizzare l’empatia per far rivelare ciò che non vuol essere rilevato, per conoscere ciò che vuol restare strettamente privato, equivale ad una violenza, giustificata dal presunto coinvolgimento emotivo del medico. Essa, invece, instaura un circolo vizioso in cui la perdita di autonomia e di rispetto di sé del paziente, genera dipendenza e regressione psicologica. Il paziente non è più in grado di gestire la sofferenza ed attua un vero e proprio distacco emotivo dal suo corpo, che non facilitano la cura, e si oppongono ad ogni forma di responsabilizzazione nei confronti della malattia: «L’uso appropriato della conversazione è il principale strumento nella relazione medico-paziente. Appropriato non significa però totalizzante, come in alcune esemplificazioni improprie di medicina narrativa sembra apparire. Il cerchio “sacro” della proprietà privata spirituale si può aprire in molti modi, o chiudere risolutamente, non solo per la vergogna o la timidezza del paziente ma anche per eccesso di delega all’autorità del medico, magari successivamente criticata. La medicina narrativa non può essere confusa con un grimaldello per aprire porte chiuse o per violare, con astuzie di tecnica psicologica, l’intima dimensione privata del paziente».

 

L’approccio narrativo in medicina, non può, infatti, dimenticare la sua intrinseca vocazione etica. Esso anzi propone una modalità innovativa per affrontare, restando aderenti alla situazione specifica, i conflitti etici originati dalla prassi clinica: l’etica narrativa. I principi, per l’etica narrativa non possono mai orientare il comportamento e sono  destinati a restare enunciazioni astratte se non sono ricondotti a valori riconoscibili dal soggetto, valori cioè che siano frutto di un contesto antropologico che si nutra delle emozioni, dei significati e degli orientamenti esistenziali individuali e di gruppo. In questo senso riconoscere i propri valori equivale a prendere coscienza di una parte fondamentale della propria identità, e tale processo è indispensabile nel compiere scelte etiche autonome in contesti problematici. Lo stesso consenso informato, punctum dolens del rapporto medico-paziente, è una chiara esemplificazione dell’insufficienza di un modello di interazione etica che ritiene la comunicazione di informazioni sufficiente alla decisione. Vengono eluse in tal modo le risorse date dalla narrazione di storie di malattia e testimonianze, ma soprattutto non vengono realmente rispettati i principi che fondano lo stesso consenso informato nato per promuovere l’autonomia decisionale del paziente, che non può attuarsi laddove non vi sia reale comprensione della situazione e consapevolezza di sé.

 

Raccontare la propria storia di malattia, significa inserire la propria soggettività in un contesto relazionale e culturale che restituisce il significato a ciò che può essere vissuto come estraniante, privo di ogni valore agli occhi dell’altro. Raccontare la propria storia di malattia permette di orientarsi pur nel dramma che ha prodotto, comprendere come si inserisce all’interno dell’esistenza, poter prendere delle decisioni. Raccontare propria storia di malattia significa inoltre restituire un tempo ed uno spazio a ciò che sembrava aver assunto dei contorni assoluti. Tutto ciò è più facile se chi ci ascolta è almeno virtualmente disposto ad accettare la propria storia, a riconoscersi in essa, e a condividere una comune condizione umana. Solo così i racconti non rimangono nella mente ma entrano nel mondo, e con essi i principi trasformati in testimonianza.    

 

 

Elena Mancini

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