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Relazione di Vincenzo Masini

al Forum degli Assessorati alle Politiche Sociali delle Città della Sicilia.

presso Istituto di Sociologia Don Luigi Sturzo di Caltagirone

14 settembre 1996

 

iL CONVEGNO E' STATO ORGANIZZATO AL TERMINE DEL PERCORSO DI FORMAZIONE PER CONDUTTORI DI GRUPPO DI INCONTRO

Presentazione del volume L'EMPATIA NEL GRUPPO DI INCONTRO

Il processo educativo del Progetto  Prevenire è Possibile  nasce  dall'applicazione della pedagogia dei gruppi e dell’artigianato educativo. L’idea centrale dell’artigianato educativo consiste nel riproporre gli antichi strumenti della pedagogia rivisitati alla luce delle correnti interpretazioni psicologiche del disagio giovanile e, contemporaneamente, resi più maneggevoli dalla estrema plasticità sia del linguaggio che degli interventi.

Il primo obiettivo da raggiungere per rimettere in moto l’educazione era quello di comunicarla attraverso un linguaggio comprensibile e non etichettante; e così, attraverso le esperienze dei gruppi di incontro attuati nelle comunità, nelle scuole, nelle associazioni e nelle case famiglia. hanno preso forma alcuni termini : l’adesivo e cioè quel giovane che ha bisogno di affetto e di riconoscimento e pertanto si mette constantemente in mostra, l’invisibile e cioè il giovane chiuso e prigioniero della vergogna, il ruminante e cioè quello sempre carico di tensione interna e così via con l’apatico, il delirante, l’ansioso, lo sballone.

Il secondo obiettivo era quello di costruire un luogo in cui l’educazione diventasse possibile; pur con stili diversi e metodi di lavoro, solo apparentemente, molto lontani tra di loro, i gruppi di incontro tra persone sono diventati  sedi in cui   impiantare l’artigianato educativo.

Nei gruppi d'incontro molte persone hanno imparato a vivere da uomini adulti ed hanno scoperto quali valori erano in grado di trasmettere e che cosa avevano invece bisogno di ricevere. Nel gruppo ciascuno può infatti trovare il suo opposto e non sentirsi più un'isola. Attraverso il confronto con l'altro è possibile rompere la ripetizione del copione personale di comportamento che  conduce all'insoddisfazione, al disagio, alle tensioni, alle devianze, alle droghe.

Lo studio delle personalità collettive di gruppo ed il successivo orientamento della relazione intragruppale ha prodotto oggi l'innesco di una logica educativa centrata nel non ragionare più sulle "persone"  ma sui "raggruppamenti" a cui le persone danno vita.

Il gruppo di incontro è una struttura sociale artificiale che è costruita con regole e metodi funzionali all’innesco di processi di empatizzazione reciproca tra persone.  Sottolineo l’artificialità del gruppo di incontro sia per la presenza in chi lo conduce di tecniche per la  accensione del gruppo e la motivazione al soggetto a vivere tale esperienza, sia per la constatazione che non esistono rimedi naturali  alla diffusione del disagio e della droga. Nel senso che, dopo aver appurato che la diffusione delle sostanze non sono una esperienza transitoria dell’umanità e che non esiste un bacino di utilizzazione delle sostanza stupefacenti delimitato e dunque saturabile, si deduce che l’esposizione al disagio ed alla devianza non funziona sulla base di associazione differenziale ma è generalizzabile verso chiunque ad eccezione di coloro che hanno maturato una immunità differenziale.

Un ulteriore motivo per sottolineare l’artificialità del gruppo di incontro (pur mantenendo vivi i richiami alle teorie del gruppo primario o dei mondi vitali) è dato dall’apertura di una frontiera sperimentale per la pedagogia dei gruppi che appare, nei contesti pratici di lavoro sociale, ancora più importante: la possibilità di interpretare i funzionamenti della gruppalità sulla base delle personalità collettive che i gruppi assumono. Ciò sembra consentire l’intervento sui climi sociali dei diversi gruppi e la loro messa in dinamica verso equilibri più bilanciati e, quindi, verso la realizzazione di migliori forme di convivenza tra persone. La ricerca sulle personalità collettive di gruppo si è cimentata nella definizione dei processi gruppali interni ed esterni con lo stesso linguaggio dell’artigianato educativo individuando le principali tipologie di relazioni gruppali in disagio nei gruppi eccessivamente fusionali, confliggenti, di controllo, di differenziazione, di opprimente inclusione affiliativa, dissolventi...

I traguardi possibili nell’applicazione della pedagogia dei gruppi al lavoro sociale sono numerosi purché la teoria di riferimento e le sue applicazioni sperimentali siano rispettivamente robuste e verificate. In queste pagine cercherò di obbedire alla necessità di chirificare sia la prima che le seconde.

 

Il coglimento empatico

La teoria di riferimento è quella del coglimento empatico del vissuto altrui nel significato attribuito a questa espressione dalla scuola fenomenologica e, nello specifico, da Edith Stein. Empatia dunque non più concepita come fascinante ma imprecisa metafora dell’evento comunicativo ma come processo che conduce alla percezione del "sentire" altrui, dell'"accertamento" della identità altrui e come esperienza attraverso cui si realizza l'"apprendimento" delle emozione di altri soggetti. Questa accezione del termine è assolutamente divergente dal modo tradizionale di discutere sul tema dell'empatia, tanto che, nel controllare il Dizionario di Scienze dell'Educazione, alla voce Empatia non è nemmeno citato il lavoro di Edith Stein.

Edit Stein [1985] affronta tale tematica nella sua complessità filosofica compiendo su tale argomento una analisi particolareggiata sotto ogni aspetto e differenziandola da altri processi emozionali simili.

Due sono gli aspetti di grande rilievo della dissertazione sull’empatia della Stein. Il primo è che il processo di coglimento empatico (in tre stadi: percezione del vissuto, assimilazione del vissuto, distanziamento ed oggettivazione) porta direttamente a sentire le emozioni che l’altro vive nel momento in cui tali emozioni prendono consistenza dentro di lui. Il secondo è che oltre alle emozioni sperimentate dall’altro, l’atto di empatia conduce ad accertare l’esistenza di una coscienza a noi estranea; che vuol dire non solo l’esperienza delle emozioni altrui ma anche il fatto che è una coscienza altrui che sperimenta tali emozioni.

La strada aperta è dapprima dimostrata per assurdo: se l’empatia fosse imitazione, se fosse associazione ad un vissuto estraneo o se fosse inferenza per analogia non potrebbe darsi la comunicazione emozionale per come nel nostro vissuto quotidiano sperimentiamo. Sintetizzando dalla Stein possiamo dire che se l’empatia fosse imitazione  non potremmo  riconoscere il fatto che un’altra persona abbia una espressione esterna inadeguata rispetto al sentimento che vive o falsa, se fosse associazione avrebbe a che fare con al memoria dell’esperienza di un sentimento simile da noi precedentemente vissuto ma, obietta la Stein, l’empatia è sempre un atto originario tanto è vero che un fatto vissuto come spiacevole può, ricordandolo, apparire anche divertente (l’empatia è sempre nel momento, originaria), se fosse inferenza per analogia con nostri vissuti non ci si accorgerebbe che anche l’altro è in atto vivente altrimenti per inferenza potremmo empatizzare con una statua. Se l’altro non è presenza non è possibile empatia

Il processo di empatizzazione porta a riflettere sulle modalità di percezione di stati d'animo e di coscienza vissuti da altri, per ciò può offrire la via per investigare più a fondo sulla formazione e sulla comunicazione degli stati d'animo e di mente.

Scrive E. Stein : "L'empatia è una partecipazione interiore alle esperienze vissute altrui... quel momento in cui siamo presso il soggetto altro da noi e siamo volti con esso verso il suo oggetto" [STEIN, 1985, p. 80]. Ma l’empatia, come già detto, non può essere confusa con il ricordo, l’empatia si mostra sempre nella sua attualità: "Un ricordo è pienamente riempito e mostrato se tutte le sue tendenze sono giunte alla loro esplicazione e se vi è la continuità dei vissuti fino al presente. Ma, pur con questo, quel che viene ricordato non si traduce in vissuto originario. La presa di posizione, che noi assumiamo nel presente, in riferimento ad una situazione di fatto ricordata, è del tutto autonoma rispetto alla posizione ricordata..." [STEIN, p.82]. La Stein giunge ad affermare che attraverso il processo di empatizzazione arricchiamo l'esperienza vissuta che ci consente o meno di aprirci al coglimento empatico. Ma la Stein si spinge ancora oltre ed analizza la diversità tra "trasmissione di sentimenti" capaci a suo dire solo a contagiare o semplicemente a trasmettere sentimenti e "coglimento empatico" che rende possibile la funzione conoscitiva manifestando rendendo viva ed attuale l'esperienza vissuta altrui [STEIN, p.97]. Le lezioni che s'imparano dalla fenomenologia e dallo studio della Stein sono che:

1) il processo di empatizzazione avviene sia sul piano delle emozioni che sul piano cognitivo;

2) la necessità di non confondere l'empatia con le altre forme di trasmissione di sentimenti (potrebbe essere semplicemente il primo grado dell'empatia) o di condivisione di vissuti che producono lo stesso sentire comune tra i soggetti;

3) la possibilità di distinguere, infine, tra empatia e ricordo tanto da considerare il processo di empatizzazione come un processo di apprendimento dell'esperienza vissuta estranea.

Questo ultimo aspetto porta con se conseguenze straordinarie rispetto alla interpretazione eziologica della tossicodipendenza.

Le emozioni possono essere apprese nell’esperienza della vita e della relazione ed è proprio intorno ai momenti di empatia che producono l’interiorizzazione di talune emozioni che si formano gli atteggiamenti, a volte interconnessi e fissati su  copioni di comportamento. dalla neurologia apprendiamo l’esistenza di mediatori sinaptici che governano l’umore e determinano le modulazioni dell’umano sentire nei processi psichici e relazionali. Non c’è alcun dubbio nè resistenza teorica ad affermare che la relazione tra stati d’animo e di mente e sostanze naturalmente prodotte dall’organismo  o artificialmente assunte sia una relazione biunivoca. Con ciò il rapporto tra droghe e psiche è definitivamente risolto: una sostanza stupefacente viene assunta per produrre uno stato d’animo e di mente desiderabile da parte del soggetto.

L’unica difficoltà della teoria rimane quella di comprendere se gli effetti prodotti nei confronti delle sostanze stupefacenti siano del tutto artificiali rispetto alla naturalità della esperienza psicosomatica dell’uomo oppure siano riferibili alla gamma di emozioni sperimentabili nel corso della vita. In altre parole l’effetto di una somministrazione di eroina, di cocaina, di MDMA, di un allucinogeno è qualcosa di totalmente diverso rispetto a quanto l’uomo può sperimentare nel corso della sua vita o manifesta alcune analogie con stati d’animo e di mente conosciuti e conoscibili?

La teoria dell’empatia ci dice che poco importa poiché nel corso della vita le emozioni possono essere apprese dal vissuto altrui e che, in quanto tali, sono ripetibili autonomamente dall’individuo.

L’analisi delle affinità elettive verso una sostanza o un’altra ci dimostra poi che c’è una relazione tra ricerca di un particolare stato mentale e bisogni emozionali di un certo individuo. Ed ecco documentata l’ipotesi che se un soggetto non è in grado di sperimentare autonomamente quello stato d’animo e di mente di cui ha bisogno (anche per la copertura di disagi psicologici presenti in lui  nè compresi, nè risolti) tenderà a ricorrente ad una sostanza vicariante che riempa quel vuoto di vissuto.

Ora, una volta individuato, il disagio esistenziale, relazionale e sociale che sta sullo sfondo della mancanza di capacità autonoma nell’evocare, produrre e sperimentare stati d’animo e di mente desiderabili ma di impossibile accesso e del ricorso (o del rischio di) all’assunzione di sostanze, non è teoricamente eccepibile che quel soggetto possa essere guidato verso la riapertura al coglimento empatico di quelle emozioni di cui ha necessità. Dunque la prevenzione è possibile purchè sia efficace quell’artificaile processo di ingegneria pedagogica dei gruppi e delle relazioni.

 

Empatia e apprendimento delle emozioni

Il soggetto empatizzante giunge  a rilevare il substrato emozionale presente nel particolare vissuto del soggetto che è di fronte. Ciò obbliga a riconoscere la dimensione di emozione sperimentata, percepirne l'intensità e rispondere al sentimento dall'altro con quello più appropriato: la comprensione, la tranquillizzazione, la diminuzione delle ansie oppure a ribaltare le tensioni trovandone possibili vie di sfogo o i conflitti trasformandoli in potenzialità dinamiche da gestire ed impegnare in nuove mete [GAZDA, 1989].

Nella metodologia di lavoro delle comunità di recupero il processo di empatizzazione è il naturale fondamento della relazione interpersonale [MASINI, 1994]. 

Ho espresso altrove la teoria su cui si fonda tale strategia di recupero [MASINI, 1993] che, in sintesi, può essere così descritta: la comunicazione di comunità (quando riesce a realizzarsi) costituisce la base per far riaprire al coglimento empatico soggetti fissati su un copione di comportamento che li ha portati a coprire il loro disagio con l'utilizzo di sostanze psicotrope.

Le sostanze utilizzate erano infatti elettive e rispondenti a qualche bisogno di sperimentazione di saturazione di vuoti di vissuto su cui è sbilanciata la struttura psicologica di un individuo in disagio.

Le principali strutture emozionali empatizzabili all'interno della comunicazione di comunità sono le "emozioni di base" su cui insiste una importante letteratura psicologica (ira, paura, piacere, affetto, disgusto, vergogna nelle letture più diffuse, a cui vale la pena di aggiungere assenza di emozioni per fronteggiare i problemi posti da Allport circa la differenziazione emozionale nei primi  mesi di vita del bambino).

Personalità centrate su copioni ripetitivi di tali emozioni giungeranno a sperimentare disagio per fissazione (per come viene spiegata da Bingswanger) e successivo bisogno di riequilibrio emozionale attuato, nel caso dei tossicodipendenti, mediante l'uso di sostanze che inducono tratti emozionali analogicamente comparabili a quelli non sperimentabili nei copioni attuati.

L'empatizzazione è un processo che spesso significa  cogliere la "mancanza" di qualcosa ed è per questo che il suo ambito di riferimento è la pedagogia: nel  processo educativo vi è disparità di esperienze e di contenuti interiori tra educatore ed educando. L'educando è in un percorso di crescita e sta apprendendo modalità di percezione di sentimenti e di emozioni di cui deve interpretare correttamente il senso, l'educatore  deve individuare il senso che ha per l'educando l'esperienza vissuta, deve tendere a produrre senso condiviso con l'educando e confrontare tale senso con il senso comune.

Il primo processo dell’artigianato educativo attuato, come conseguenza della teoria dell’empatia, è stato l'ascolto in posizione di "choiceless awaraness" (attenzione non strutturata). La " choiceless awareness", ossia la concentrazione attiva sulla comunicazione dell'altro per capirne meglio il messaggio ed avere una piena comprensione della realtà soggettiva dell'altro è il fondamento dello sviluppo della autentica comunicazione. Ascoltare quindi con tutta l'attenzione possibile, cura e sensibilità, sia che si tratti di uno sfogo superficiale o un sentimento significativo, conduce a "capire un individuo che parla" [C.ROGERS, I gruppi di incontro,1976]. Nella " choicelless awareness ", attenzione non strutturata, l'individuo si pone rispetto all'altro in un atteggiamento di apertura, di contatto non strutturato con l'individualità altrui; questo significa poter prendere liberamente contatto con il mondo dell'altro così come lui lo esprime e lo sperimenta. Per realizzare l'atteggiamento della "choiceless awareness" è necessario che chi ascolta sia consapevole delle esperienze che accadono dentro di sé e riesca ad assumere un atteggiamento di presa di contatto con l'altro secondo i criteri della fenomenologia descrittiva. Tali criteri si concretizzano con la capacità di cogliere il comportamento dell'altro così come si manifesta nella sua esperienza totale. Per fare questo egli deve essere realmente se stesso durante la comunicazione; deve avere una buona consapevolezza di sé, dei propri sentimenti al fine di viverli, sperimentarli e comunicarli [cfr. ibid.].

 

Il disagio

L'ascolto empatico pone immediatamente in contatto con il disagio, comprensibile se visto come "un'esperienza  interiore, uno stato d'animo di cui  una  persona rimane prigioniera". Tali stati d'animo, che possono  essere anche molto intensi, sono vissuti  dalla  persona nelle diverse dimensioni: individuale, interpersonale e sociale.

Nella  dimensione  individuale il disagio si configura  come  una condizione interiore in cui la persona non riesce a star bene con se stessa.

Nella  dimensione  interpersonale il disagio  si  concretizza  in situazioni  d'incontro tra le persone in cui si sperimenta  imbarazzo e inquietudine.

Nella dimensione sociale il disagio si concretizza in  situazioni di svantaggio ed emarginazione.

Sembra che  si  vada sempre più estendendo  dovunque l'area del disagio connesso alle  cosiddette "nuove  povertà", cioè a quelle forme di povertà legate,  più  che all'inappagamento  dei bisogni primari, ai processi di  emarginazione  determinati dalle contraddizioni dello stesso processo  di sviluppo,  all'emergere di nuovi bisogni e, più in  generale,  ai problemi  legati  alla qualità della vita. Quindi  i  giovani  si trovano  a  sperimentare forme di disagio sempre più  legate al mancato soddisfacimento dei bisogni immateriali, quali il bisogno di  identità,  di senso, di espressione personale....

In tale quadro interpretativo diventa possibile superare quella vecchia concezione, su cui si poggiavano bene o male, tutte le impostazioni "differenziali" (in chiave teorica l'associazione "differenziale" di Sutherland o la immunità "differenziale" della scuola di Manchester, eredi della spirito delle teorie dell'etichettamento, o in chiave pratica ed organizzativa le criticate classi "differenziali" o situazioni differenziali intorno alle quali si è paralizzato per decenni il dibattito sull'istituzione scolastica, polarizzato, com'era tra sostenitori della separazione e dei percorsi differenziati o critici dell'impostazione differenziale ghettizzante).

Il termine "disagio" si differenzia sufficientamente dalla forte attribuzione etichettante connessa al termine "devianza". L'uso dell'espressione "disagio" appare più duttile e porta a comprendere sia le caratteristiche predittorie di una condizione critica sia il possibile scivolamento verso un comportamento propriamente "deviante". Consente inoltre di prendere le distanze da due opposti atteggiamenti che, anche a livello teorico, premono sul termine devianza e sull'etichettamento e portano a polarizzazioni in due opposte sponde: da un lato chi crede al  rinforzo esercitato dall'etichettamento sul comportamento deviante, come i teorici della (cosiddetta) seconda scuola di Chicago, dall'altro chi ritiene efficace l'etichettamento per la sua natura di "deterrent" dei processi di devianza, come i teorici del controllo sociale.  Se il disagio è un "vissuto" e la devianza un comportamento esplicito, diventa possibile uscire dalle secche della teoria  e pensare ad intervento educativo vero il disagio. In questo passaggio sta la maturazione della attuale cultura educativa.

Altro esito  attuale è quello di  portare alcuni autori ad affermare che "devianza"  sia un concetto in "dissolvenza",  una categoria che, riempita ormai di attribuzioni  e  di contenuti diversificati, si é andata sempre più dilatando nell'uso  e nel significato, "rendendosi contemporaneamente sempre  più evanescente, sempre meno dotata di un sufficiente valore euristico"  [PISAPIA,  1983, p.149]. A tale  "dissolvenza"  sembra  aver fatto seguito l'uso della categoria del "disagio", per rispondere all'esigenza  di un approccio più morbido,  meno  stigmatizzante, "in grado di rendere conto dei comportamenti e degli atteggiamenti giovanili  non riducibili alla semplice riproduzione di  norme  e valori del sistema sociale degli adulti o non interpretabili come chiara  contrapposizione ad essi" [NERESINI-RANCI,  1992,  p.23]      

Nelle tradizionali teorie sulla devianza e negli studi sulla trasgressione non vi è posto  esplicito per il disagio. Può essere letto in controluce  nella sua  componente sociale e nella forma unica di anomia  oppure descritto psicodinamicamente nei risvolti di patologia  più  o meno consolidata. E' possibile comunque intravedere anche lì il concetto di disagio e seguirlo come filo rosso che coniuga le più importanti e belle pagine della letteratura psicosociologica contemporanea. Le  aperture più efficaci verso quella definizione di disagio che  correntemente è in uso nella nostra attualità, sono quelle presenti nel processo di affinità di Matza o nella descrizione delle patologie inferenti al sistema famigliare o ancora negli interrogativi degli studiosi che, come De Leo,  non lo attribuiscono deterministicamente ad una causa interna al soggetto o ad una causa relazionale o ad un processo sociale il fenomeno del disagio e della devianza, senza peraltro rinunciare a studiare l'interconnessione negativa di tali fattori per mettere a punti nuovi paradigmi. Quelli attuali, infatti, non sembrano ancora sufficienti a saldare efficacemente il concetto di disagio  con quello di devianza. Ciò dipende anche dal fatto che il termine disagio è di utilizzo recente nelle scienze sociali. Nella costruzione del sapere sociale sono stati più spesso usati termini come: disadattamento, devianza, emarginazione, marginalità,... con i quali si intendeva, in modo diverso, uno stato soggettivo e/o oggettivo di mancata integrazione nel tessuto sociale. Disagio per lungo tempo è stato  considerato alla stregua di una generica difficoltà ad adattarsi ad un ambiente o a delle situazioni insolite.

A tutt'oggi non trova una definizione teorica sufficientemente accreditata da parte dei ricercatori. Secondo alcuni autori [NERESINI, RANCI, 1992] l’uso del termine disagio è solo la conseguenza di una progresiva destituzione di altri concetti che volevano essere “cerniera” nella troppo rigida contrapposizione tra devianza e normalità e nella eccessiva deriva sociologistica della relatività delle norme: devianza e normalità definite solo in relazione al particolare contesto sociale e normativo da cui si devia, cancellano la possibilità di discutere razionalimente intorno al valore della giustizia e della morale. Cosicché "in un sistema a elevata complessità, dove la norma tende a divenire più flessibile e meno rigidamente determinata, l'idea di devianza va incontro a una perdita di significato derivante dalla polverizzazione dei confini che la separano da quella di normalità" [NERESINI, RANCI, 1992, p. 21]. Inoltre "la recente apparizione della categoria del disagio sembra la logica conclusione del processo di normalizzazione della devianza, ... con ogni probabilità per rispondere all'esigenza di introdurre un approccio più soft in grado di rendere conto dei comportamenti e degli atteggiamenti giovanili non riducibili alla semplice riproduzione di norme e valori del sistema sociale degli adulti o non interpretabili come chiara contrapposizione ad essi" [NERESINI,  RANCI, 1992, p. 23].

La recente adozione del termine "disagio" nel panorama della bibliografia dedicata ai giovani risulta poi fortemente connessa all'evoluzione delle riflessioni che si sono prodotte intorno a quella dimensione latente di non completa integrazione attribuita ai giovani come caratteristica onnipresente, per quanto non sempre chiaramente esplicitata. Il termine disagio viene così progressivamente utilizzato nella accezione di "disadattamento" che i giovani vivono quale caratteristica strutturale della loro condizione adolescenziale o come difficoltà a rispondere positivamente alle relazioni con gli altri e ad integrarsi nel tessuto sociale. Il significato letterale del termine corrisponde infatti a "mancanza o carenza di adattamento" e, forse, si può sostenere che nelle società industrializzate i giovani, proprio in quanto tali, sono dei "disadattati strutturali". Di conseguenza la condizione giovanile si presenta come la fase in cui le nuove generazioni sono ormai pressoché socializzate a entrare nel mondo adulto, senza tuttavia avere ancora accesso al mondo adulto stesso. "Se il sistema sociale tende ad esasperare il senso di incompletezza e di instabilità proprio della transitorietà che configura la condizione giovanile, il disadattamento strutturale che la definisce rischia di trasformarsi in malessere diffuso e generalizzato. Il fenomeno assume caratteristiche e proporzioni ancora più rilevanti nel momento in cui l'aumento della complessità sociale trasforma il processo di transizione dall'infanzia alla maturità in un cammino contrassegnato da indicazioni confuse, con scarsi punti di riferimento significativi, disseminato di ostacoli ben dissimulati" [NERESINI,  RANCI, 1992, p.30].

L'interpretazione, in cui si pone il lavoro ampiamente citato,  che ha il grande merito di aver portato alla luce uno dei principali equivoci presenti nella letteratura contemporanea sui giovani appare una operazione alquanto rischiosa. Confondere il disagio (che è un vissuto interiore, relazionale e sociale) con la devianza (che è un comportamento) porta ad aumentare l’ideterminatezza nella riflessione e contribuisce al relativizzarsi delle norme e degli atteggiamenti educativi da attuare.

 

 

 

 

 

Nella letteratura psicologica definisce una " qualità esperienziale  che può colpire i sentimenti, gli stati d'animo, il pensiero e la volontà. Può essere provocato da situazioni esterne, ma il più delle volte sorge dall'interno ed è in grado di raggiungere la sfera esperienziale conscia. Molti individui sperimentano tale senso di disagio in essi insorgente, come un segnale di avvertimento che all'occasione interpretano e qualche volta valutano come influente sul loro benessere psichico" [ARNOLD, 1986]. La sua origine, all'interno dell'individuo, ne indica subito il carattere di sintomo della presenza di un non-equilibrio,  di una situazione di tensione a livello di identità personale e di relazione con gli altri, di manifestazione di bisogni non soddisfatti o frustrati, soprattutto quelli attinenti alla propria identità e alla realizzazione del sé.

Il problema della identità o, meglio, della ricerca di identità personale è particolarmente avvertito all'interno dell'attuale società complessa e competitiva [HILGARD, 1971]. Infatti un sistema in continua trasformazione rende particolarmente difficile la definizione di una identità personale. Il contesto socio-culturale rende altresì problematico l'esito della ricerca di una identità sociale, cioè della propria collocazione come "attori sociali". Questo avviene in quanto la perdita d'importanza dei valori e delle norme sociali in una società complessa e competitiva, spingono l'individuo a una ricerca faticosa della propria identità. Nei suoi rapporti con il mondo d'oggi, l'individuo sente la necessità di acquisire la definizione di sé come partner sociale, la conoscenza del proprio ambiente di vita, la partecipazione al patrimonio culturale della società, la capacità di portare il proprio apporto  e contributo alla costruzione di un tessuto di rapporti civili, culturali, politici, ecc. Tali comportamenti personali e tali competenze comunicative costituiscono ovviamente delle condizioni fondamentali per una attiva partecipazione dell'individuo ai processi di interazione sociale. Essi vengono sintetizzati nella categoria dell'identità da parte dei teorici dell'interazionismo sociale [SCHREIBER, 1978; WALLER, 1978; KRAPPMANN, 1978] che focalizzano lo studio della personalità sulle capacità dell'individuo di interpretare criticamente le aspettative di ruolo e di trovare un equilibrio con la società collettiva.

La ricerca di identità personale e sociale risulta quindi essere fonte di tensione, di disagio per la persona che si ritrova inevitabilmente a dover mediare continuamente fra le proprie esigenze, le proprie istanze di maturazione personale e di realizzazione sociale con le attese e le aspettative altrui. Deve fare i conti con le offerte e i limiti che l'ambiente sociale contemporaneamente pone, rispetto ai propri bisogni di sicurezza. Tali bisogni possono venire frustrati dall'ambiguità della situazione, dalla sua novità, dalla variabilità delle persone con cui si viene a contatto, dalle conseguenze sociali dei propri insuccessi. Da qui nascono sentimenti di oppressione, di insicurezza, di paura, di ansia, proprio perché il conflitto fra bisogni personali, compiti della vita sociale e mutabilità culturale dell'ambiente, costituisce di fatto per molte persone un insieme di problemi che si presentano in modo urgente e ineludibile.

Questi problemi attinenti all'identità e le conseguenti situazioni di disagio che essi innescano, risultano ulteriormente accentuati se tali conflitti vengono analizzati a livello di adolescenti e di giovani (la cui condizione può essere assimilata a quella adolescenziale, visto il suo indeterminato prolungarsi a causa del permanere dei giovani in situazioni di dipendenza all'interno delle istituzioni educative e formative). L'adolescenza costituisce il drammatico abbandono di una modalità di essere infantile in un sistema di relazioni familiari, e di valori di dipendenza per arrivare alla modalità di essere adulto con nuove relazioni e un nuovo sistema di valori. Questo processo che ha una durata e un esito variabili, è soggetto alle influenze di fattori individuali, antropologici-culturali, e storico-sociali. La formazione dell'immagine di sé coinvolge l'adolescente nella sua globalità di corpo, intelligenza, affettività; passa attraverso i processi di identificazione con la microsocietà (la famiglia) e la macrosocietà (l'ambiente sociale). Tutto questo determina nell'adolescente situazioni di forte tensione, di profonda crisi, atteggiamenti e comportamenti conflittuali all'interno della famiglia nei confronti delle istituzioni, del sistema di valori, norme e significati che la società esprime [cfr. ERICKSON, 1975]. Situazioni di disagio che, se non opportunamente accolte ed accompagnate in un cammino di crescita personale e sociale, possono avere come sbocco esiti di fuga , di ribellione, di devianza.

La collocazione del disagio nella dimensione psicologica consente di cogliere le connotazioni all'interno dei processi e delle interazioni di carattere individuale e sociale che caratterizzano il cammino di definizione della propria identità. Tale lettura é senza dubbio utile, tuttavia  sembra che l'approccio sociologico goda di una certa priorità rispetto ad altri tagli interpretativi, in quanto fornisce una piattaforma generale su cui gli altri contributi possono inserirsi, come necessari completamenti e approfondimenti. In questa delimitazione di campo incide il sospetto che l'approccio psicologico tenda in molti casi a presentare categorie di lettura aventi la pretesa di universalità transculturale e di conseguenza poco fruibili in determinati contesti specifici. Di qui la propensione a utilizzare, caso mai, l'approccio psicologico solo attraverso il filtro delle categorie socio-politico-culturali che forniscono il contesto entro cui il vissuto individuale e microambientale si svolge. Tale scelta non assume solo una valenza metodologica, in quanto intende esprimere anche il legame fra disagio personale e sociale, fra identità e processi di socializzazione, fra lettura critica del disagio giovanile e categorie di lettura della società e della condizione giovanile.

Abbiamo accennato precedentemente che il concetto di disagio sociale é di recente utilizzo nell'ambito della riflessione e della ricerca sociologica.

Sostanzialmente esso ricorre da circa una decina di anni nella letteratura sociologica, in particolare nel settore della ricerca empirica e della pubblicistica (riviste, articoli, ecc.) per operatori sociali. Risulta pertanto evidente come sia abbastanza arduo, in un arco di tempo così breve, tentare di delineare delle vere e proprie linee evolutive del concetto. Tale limite acquista rilevanza ulteriore nella mancanza pressoché completa di contributi per una definizione teorica. Sintomatica risulta essere l'assenza della voce "disagio" nei dizionari di sociologia consultati. Da questo elemento come da una analisi di riviste scientifiche e di cultura a livello sociologico risulta che il tema del disagio non ha una trattazione specifica. Esso rappresenta un'area tematica che viene generalmente inclusa in quelle dell'emarginazione, della devianza, della marginalità. Di qui deriva una forte carenza di riflessioni inerenti il disagio, preferendo gli autori riferirsi in termini sociologici al disadattamento come effetto di un inserimento sociale non avvenuto che spesso si é rivelato di innesco a processi di emarginazione sociale. Il concetto di disagio, privo come abbiamo visto di una sua precisa "identità" di significato, viene assimilato ad altri concetti e utilizzato come sinonimo di disadattamento personale e sociale, di situazioni di stress e di frustrazione, di esiti di marginalità sociale ecc. Non appena si cerca di definire il disagio si ricorre inevitabilmente, col rischio di sovrapposizioni e di confusioni di significato, all'uso di altre categorie interpretative che nel reciproco intreccio di cause, fenomeni, esiti, rendono poco efficace lo sforzo di dare contorni e contenuti meno indefiniti al disagio.

A motivo di questi limiti e difficoltà definitorie ci é sembrato opportuno tentare di delineare un percorso che consenta di rapportare il disagio, in modo particolare giovanile, alla società complessa in cui viviamo. Sembra significativo rilevare la correlazione stretta fra disagio, cause che lo determinano ed effetti che esso produce, con la progressiva complessificazione della nostra società e con la situazione di anomia che da essa scaturisce. Complessità significa l'enorme differenziazione funzionale interna, il moltiplicarsi dei processi di istituzionalizzazione, la compresenza nel sistema di tendenze ambivalenti e contraddittorie, la modificazione degli spazi di azione e di decisione dei soggetti [RUSCONI, 1979; GALLINO, 1979]. La società complessa si configura come una società a-centrata, senza un centro definito, o policentrica, con infiniti centri. Queste caratteristiche danno l'idea immediata della difficoltà di ricondurre ad unità gli elementi del sistema, mancando un criterio, un fondamento culturale, nonché etico-valoriale, stabile. La loro assenza provoca senso di dispersione e di smarrimento. La molteplicità dei centri crea una situazione di anomia produttrice di ansia e di incertezza. Nei giovani, pur essendo il loro vissuto condizionato dallo status socio-economico, dalla cultura familiare, dalle pressioni dei mass-media e dei modelli di consumo, questo stato è avvertito come disorientamento, incertezza, perdita di riferimenti valoriali, ansia, pressioni dall'esterno su una identità ancora in formazione e quindi debole [GARELLI, 1984].

 

L'esplicito emergere del disagio nei contesti di scolarizzazione e di educazione

Il disagio, definito nel suo aspetto di fenomeno diffuso, trova radici molteplici: esse vanno identificate negli atteggiamenti inadeguati con cui il mondo degli adulti (istituzionale e non) si pone in relazione alle domande e ai problemi dei giovani; nelle condizioni di povertà materiale di molti, di marginalità sociale e culturale, di frammentarietà del vissuto giovanile. Negli anni '80 le principali agenzie di socializzazione e di educazione hanno conosciuto una profonda crisi, che ha posto la famiglia, la scuola, la chiesa, l'associazionismo giovanile di fronte a nuovi interrogativi e nuove sfide [MINISTERO DEGLI INTERNI, 1990].

All'interno e nel contesto dell'attuale società complessa, caratterizzata da una varietà di opzioni e scelte di vita, priva di sicuri e certi punti di riferimento, risulta sempre più problematico e difficile, per un giovane adolescente alla ricerca e in costruzione della propria identità, compiere questo cammino fino al raggiungimento-acquisizione del proprio ruolo e status sociale in modo non traumatico e con esiti positivi. Tutto ciò diviene realtà in quanto le agenzie educative, preposte al compito di educazione e di socializzazione, oltre ad essere inadempienti al loro ruolo e funzione sono spesso -loro stesse- fonte ed origine  dell'insorgere di forme di disagio. A tutto ciò si aggiunge il fenomeno  significativo del prolungarsi oltre i normali tempi di crescita dell'età educativa dell'adolescenza, che comporta come conseguenza il relegare un'ampia fetta del mondo giovanile in una sorta di "moratoria di sospensione" con la conseguente incapacità o mancanza di volontà nel mettere in atto delle importanti e definitive scelte di vita in ordine all'iter formativo, alla professione e all'abbandono della casa paterna per dare origine a una propria famiglia.

All'interno del mondo della scuola, a cui viene delegato in gran parte il compito della formazione delle giovani generazioni, le trasformazioni avvenute e le carenze organizzative e strutturali hanno innescato dei fenomeni che sono divenuti a loro volta fonte di conseguenze negative come l'impoverimento dei contenuti formativo-educativi, il progressivo distacco della cultura scolastica dai problemi della società (vedi l'eterna promessa e mai attuata riforma della scuola secondaria superiore, che dovrebbe a nostro modesto parere, orientare il cambiamento non tanto al semplice aggiornamento delle materie e curricoli di studio ma alla trasformazione della qualità e dell'intensità delle relazioni di vissuti fra gli alunni tra di loro e tra questi e il corpo docente) la svalutazione dei titoli di studio e la loro irrilevanza al fine dell'ottenimento del posto di lavoro.

Nel nostro paese i processi di aumento dei tassi di scolarizzazione e di prolungamento dei percorsi di studio proseguono a ritmi rallentati e sono ancora lontani dall'aver raggiunto i livelli dei paesi europei più avanzati. In Italia, a differenza di altri paesi europei, è stata raggiunta una pressoché completa parificazione dei tassi di scolarizzazione maschili e femminili con evidenti implicazioni sui comportamenti demografici e sull'offerta di lavoro. L'obiettivo politico di assicurare a tutti i giovani almeno dieci anni di scolarizzazione è ancora da raggiungere e fa apparire come patologici (anche se in riduzione) i tassi di abbandono e di dispersione durante la scuola dell'obbligo che restano ancora elevati in alcune regioni e aree del paese, con la conseguenza che alcuni giovani sono destinati ad ingrossare i ranghi del lavoro nero e, spesso, delle attività illecite. La selezione e il rendimento scolastico restano fortemente correlati all'origine sociale e al livello culturale della famiglia; ciò risulta vero per tutto il territorio nazionale, ma lo è molto di più nelle regioni meridionali che non nel resto del paese, a indicare che la scuola, se non può fare molto, può però fare qualcosa per compensare lo "svantaggio culturale" derivante dal fatto di nascere in un ambiente socialmente e culturalmente deprivato [RIBOLZI, 1984; CENSIS, 1992].

In generale anche per coloro che non incontrano particolari difficoltà, l'esperienza scolastica è spesso contrassegnata da segnali negativi: cresce la percentuale dei giovani che segnalano l'incompetenza e l'impreparazione professionale dei docenti, come il numero di coloro che lamentano l'incomprensione delle loro esigenze e dei loro punti di vista da parte degli insegnanti, mentre è in diminuzione, rispetto ad indagini svolte negli anni '80 [RICOLFI, SCIOLLA, 1980; GARELLI 1984; IARD 1988], la quota dei giovani che assegnano allo studio e alla cultura un posto rilevante nella propria scala di valori [IARD 1993]. La scuola fallisce spesso nel veicolare curiosità culturali e nello stimolare motivazioni positive verso l'apprendimento e molti giovani si chiedono a che cosa serva permanere per molti anni nel sistema scolastico se questo, oltre tutto, non garantisce più automaticamente in prospettiva l'accesso privilegiato al mondo del lavoro e delle professioni.

Il sistema scolastico italiano, così come risulta oggi configurato, si trova e si dimostra largamente impreparato a soddisfare le richieste culturali, educative come lavorative di gran parte della generazione giovanile che vive ed esprime pertanto delle giustificate forme di disagio nei confronti di tale istituzione. Da parte dei giovani risulta la richiesta, sempre più lucida, di una scuola che veramente professionalizzi attraverso un apprendimento sempre più e meglio collegato (attraverso forme di orientamento professionale) e coerente con la formazione al futuro lavoro e finalizzato ad un inserimento reale nel mercato del lavoro evitando così le varie forme di disagio [MINISTERO DEGLI INTERNI 1990].

 

Il disagio nel gruppo dei pari

La gran parte dei giovani non è aggregata in associazioni, gruppi o movimenti, ma vive l'esperienza del piccolo gruppo informale, che è fatto di amici, compagni o conoscenti, o sperimentano la noia, la solitudine e l'insignificanza nell'isolamento [EURISKO, 1987; IREF, 1988]. Il tempo libero di questa massa giovanile maggioritaria è generalmente vissuto in modo individuale o nelle pratiche occasionali che il piccolo gruppo è in grado di organizzare, non senza subire l'influsso delle grandi organizzazioni che controllano l'industria del tempo libero. Il vissuto di questi giovani è conosciuto solo in parte. Lo scenario su cui esso si svolge è prevalentemente quello della grande periferia urbana già connotata problematicamente da una serie di indicatori negativi: degrado e disorganizzazione del tessuto sociale, assenza o insufficienza dei servizi sociali, mancanza di stimoli all'aggregazione, spinte continue verso l'emarginazione, presenza inquietante della cultura della devianza [CAVALLI, 1985].

In questo quadro la ricerca del piccolo gruppo informale o la fuga nell'isolamento riveste spesso la funzione di difesa contro un ambiente che è percepito come estraneo se non ostile; il bisogno di comunicazione, con connotazioni diverse nei due casi, diventa bisogno urgente di soddisfazione nei modi disponibili, siano essi la conversazione futile con gli amici del bar, il confronto verbale violento con i ragazzi di un'altra "compagnia" o la gestualità rituale del concerto di musica rock. Si tratta di una comunicazione "interna", nel senso che mira alla sicurezza dei comunicanti entro l'ambito dei rapporti controllabili, e non ha come scopo quello di allargare la trama delle relazioni sociali.

Il gruppo informale si manifesta così come un segno inconfondibile dell'impotenza di molti giovani di fronte alla complessità sociale; non avendo i mezzi per attuare quella "riduzione" della complessità che significa comprensione e gestione, ci si rinchiude in pratiche di basso profilo (la banalità del quotidiano), che però sono controllabili direttamente dai giovani stessi [QUARANTA, 1982; MONTESPERELLI, 1984]. Da quest'area composita nasce la spinta verso comportamenti di massa che hanno la funzione di sostituire un'interazione intensa che non c'è, un'identità collettiva che è fragile, una gratificazione emotiva che è sperimentata raramente; di qui viene il popolo degli stadi, delle discoteche, delle manifestazioni pacifiste [INVERNIZZI, 1980]. Ed è anche in quest'area che si sviluppa prioritariamente il disagio giovanile, somma impalpabile di insoddisfazioni, frustrazioni e sofferenze da cui può svilupparsi in soggetti particolarmente fragili o inquieti il "rischio" in tutte le sue sfaccettate ipotesi, compresa quella della devianza.

Importante è notare che molte ricerche attribuiscono a questa area giovanile la mancanza di un sistema di significato personale (un'identità fatta di valori, attese, progetti) sufficientemente strutturato. In altri termini è tra quest'area di giovani, anche se non esclusivo, che si manifestano  in modo più evidente e allarmante i rischi della iposocializzazione, intesa come incapacità di auto-orientamento e di valutazione critica di fronte ai problemi della vita. A tale tendenza si oppone potenzialmente come proposta educativa alternativa il diffondersi nel mondo giovanile di aree, seppur minoritarie da un punto di vista quantitativo ma non qualitativo, di appartenenza al mondo delle associazioni e del volontariato [ALTIERI, 1983; GARELLI, 1984a; RANCI, 1987].

 

La crisi dell'artigianato educativo

Percorrendo i temi del disagio sorge con evidenza una domanda centrale: e gli adulti?  L'assenza del ruolo di guida e di trasmissione culturale da parte della generazione adulta, nel suo insieme, alla generazione giovanile, nel suo insieme pare come una specifica adbicazione nel  vivere contemporaneo. Non si tratta infatti di pensare solo al processo educativo che quel singolo adulto nel suo specifico ruolo genitoriale o di insegnante è "deputato" ad innescare con quello specifico giovane che gli è affidato  dalla sua generatività o dalla casualità prodotta dai sistemi scolastici,  ma si tratta di allargare gli orizzonti a quanto gli adulti in genere possano esprimere nei molteplici incontri con i giovani e che, per indifferenza, incapacità, inesperienza o mancanza di amore o eccesso di paura, si esimono dal  proporre. Quasi a chiamarsi fuori dai problemi di quel giovane (nipote, vicino di casa, campeggiatore della tenda a fianco, apprendista o commesso nella stessa azienda, studente di un altro istituto incontrato ad un bar, frequentatore dello stesso locale o associazione o parrocchia,...) di cui vedono la destabilizzazione ed intuiscono l'evidente disagio.

Pur se limitativo tale interesse appare oggi indispensabile nella incapacità purtroppo diffusa da parte della famiglia (attraversata da una crisi di senso da cui sembra non uscire da alcuni decenni) di mostrarsi come referente educativo e della istituzione scolastica di trasmettere, oltre alle nozioni ai vari livelli del sapere,  valori e progetti di vita.

Se un giovane non incontra un adulto capace di essere per lui guida all'interno della famiglia, potrà trovarlo nella scuola, ma se nemmeno li lo incontra allora rimangono solo le aggregazioni e le associazioni più o meno spontanee, e in quel contesto "o la va o la spacca": una piccola gang di adolescenti guidati da un deviante più adulto o l'associazione sportiva sorretta da una persona di buona volontà .

Ed è in questa direzione che Prevenire è Possibile ha  insistito sulla ripresa dell'artigianato educativo, intendendo per questo quel sapere educativo di base, genitoriale, famigliare, comunitario, parentale, comunque adulto che si è progressivamente andato estinguendo anche a causa dei messaggi contraddittori presenti negli attuali sistemi educativi ed anche a causa di un sapere pedagogico che non è riuscito a farsi autonomo, efficace e diffuso per l'essersi imprigionato per troppo tempo nella compilazione di costrutti e metodologie, anche imponenti sul piano scientifico e concettuale ma lontani dai bisogni reali dei giovani [cfr. MASINI, 1997]. La funzione educativa dell'approccio al disagio, non è dunque solo un intervento tampone per situazioni già critiche ma assume anche il ruolo di catalizzatrice di altre energie educative presenti nella scuola che, come tutti i beni semplici ma preziosi, vengono rivalutati nell'epoca della crisi. Ciò conduce alla riflessione sul futuro dell'istituzione scolastica pressata come dalla necessità di dare risposte di senso della vita ai giovani. La colpa del disagio dei giovani è sicuramente del mondo degli adulti; se un giovane non incontra una figura guida nell'ambito familiare, rischia una condizione di disorientamento nel contesto della vita ma ha ancora la chance di incontrare nella sua carriera scolastica qualcuno che possa indicargli un percorso educativo per la sua vita. Ma se anche questa seconda occasione viene a mancare, il giovane affonderà sempre più nel suo disagio esistenziale fino a trasformarlo in qualche patologia comportamentale, psichica o sociale. Condizioni delle quali anche i più preparati ed efficienti servizi sociali riescono a smuoverlo solo con un grande dispendio di energie e di risorse.

Non si tratta  di riproporre l'annoso e noioso polarizzarsi delle posizioni pragmatiche o populiste e cioè "scuola efficientista e selettiva" contro "scuola egualitaria e permissiva" ma di qualcosa che aggiunge complessità a tali vedute. Non tutti i docenti infatti hanno una esplicita vocazione educativa, anzi molti docenti preparati nelle discipline che insegnano hanno attitudine e modalità di insegnamento particolarmente efficaci nel trasferire nozioni, ma non sanno essere significativamente espressivi nelle relazioni interpersonali. Altri invece, pur possedendo le cognizioni tecniche e scientifiche relative alla disciplina che insegnano, sentono di più l'esigenza di proporre un metodo di lavoro, di studio e di relazione oltreché testimoniare la loro esperienza umana come guida ai valori della vita.

Non si tratta di preferire una modalità all'altra ma trovare il giusto equilibrio tra le diverse presenze nella scuola, tenendo però conto che i parametri anche docimologici del primo criterio (diciamo così, più "tecnico") fanno parte di un patrimonio di conoscenze e di metodi consolidati negli ultimi decenni, mentre le conoscenze sul versante comunicativo, formativo e relazionale sono molto più empiriche, poco divulgate e presentano i rischi di fughe in avanti per troppo zelo o di rifiuto per troppa ansia.

 

L'intervento educativo del progetto PREVENIRE E' POSSIBILE

Il Progetto Prevenire è Possibile è stato costruito nell'ipotesi di trasferire nella scuola alcuni elementi tratti dall'esperienza delle comunità educative ed ha mosso i suoi primi passi in una fase in cui la parola prevenzione era ancora poco definita e priva di connotazioni. Il centro motore del lavoro è la struttura del gruppo di incontro in ragione del fatto che i momenti di gruppo di incontro sono pericolosamente diminuiti nella vita quotidiana delle persone. Per momenti di gruppo di incontro si intendono le occasioni di rapporto interpersonale dotati di trasmissione e condivisione di sentimenti e di ascolto reciproco  dei vissuti altrui e di accertamento della presenza altrui nella relazione. Quei contesti dunque che favoriscono implicitamente i processi di empatia.

"Se analizziamo con quest’ottica ogni nostra giornata scopriamo che questi diversi modi di stare insieme tra persone corrispondono a diversi momenti relazionali del nostro tempo di vita e del nostro tempo di lavoro. I diversi contatti con gli altri si realizzano per fare delle cose (per lavorare, per organizzarci, per divertirci, per dividerci i compiti ed i ruoli dentro e fuori della famiglia),  per imparare e per  confrontarci sulle cose (per ascoltare o fare una lezione, per imparare un lavoro,  per scambiarci informazioni, per discutere intorno alle nostre opinioni) oppure  per incontrarci (per parlare di noi, dei nostri  sentimenti e delle nostre emozioni, per condividere con qualcuno il senso dei momenti della nostra vita)" [COMUNE DI TERNI, p.7].

Invece della usale distinzione tra gruppi primari e secondari il gruppo viene compreso nella sua qualità di conduttore di relazioni umane, questo modo di vedere non la forma ma la qualità interna e il clima di un gruppo condurrà poi ad utilizzare il termine "personalità collettiva di gruppo" che in seguito sarà meglio precisata. ma andiamo con ordine.

Il  primo assunto è intorno al tipo di dinamiche che, a seconda dell'impostazione di chi il gruppo lo guida e lo costruisce (anche in riferimento alla particolare ideologia e cultura di tal soggetto),  determinano dei processi di relazione del tutto diversi a seconda dell'impostazione. Con conseguenti diversi ruoli dei leader, e successive diverse relazioni interpersonali interne. 

"diversi modi di fare gruppo: ciascun momento di gruppo ha un suo fine, una sua funzione ed un suo specifico significato. Nella accelerazione vorticosa delle attività, tipica dei modi contemporanei di vivere, si sono ampliati eccessivamente i momenti di gruppo di lavoro e di animazione ed i momenti di gruppo di apprendimento e sono diventati pericolosamente rari i momenti di gruppo di incontro" [COMUNE DI TERNI, p. 7].

Da tali considerazioni è nata l’idea di proporre la diffusione di gruppi di incontro come strumento di prevenzione del disagio mutuando il senso di tali gruppi dalle esperienze delle comunità di recupero che si fondano su questi.

 L’educatore che abbia vissuto un’esperienza di gruppo di incontro entra in possesso di una lente di ingrandimento con cui riesce a leggere, vivere, gustare e far gustare con maggiore pienezza i diversi momenti di gruppo di incontro normalmente presenti nella vita di tutti i giorni. Solo chi è riuscito a  riconoscere le caratteristiche peculiari del gruppo di incontro è in grado di offrire agli altri occasioni per sperimentare, allargare e approfondire tali occasioni.

 

Gruppo d'incontro, gruppo di animazione e gruppo di formazione

Per comprendere più chiaramente il senso del gruppo di incontro è necessario distinguerlo dal  gruppo di animazione e gruppo di apprendimento o formazione.

1.  Il termine animazione sembrava fino a un po’ di tempo fa essere il più indicato a comprendere e descrivere l’attività interna del gruppo. L’animazione veniva così presentata come un processo di lavoro educativo in gruppo che attraverso percorsi, stadi ed obiettivi  portava mediante la comunicazione ed il gioco a scoprire se stessi ed a pensare la propria vita. L’animazione è strettamente legata all’attività, alla progettualità ed alla acquisizione di capacità di organizzazione e di collaborazione.

L’animatore si propone come un potenziatore delle qualità umane della persona e tende ad accendere la socializzazione in modo costruttivo per far emergere la progettazione consapevole della propria vita.

"L'animazione è una delle funzioni educative più diffuse nei settori extrascolastici ma molto spesso viene usata per descrivere meglio attività che vorrebbero essere educative ma che in realtà hanno solo un aspetto culturale" [POLLO, 1990, p.11].

I percorsi educativi tipici dell’animazione vertono sui giochi di ruolo, sui giochi di collaborazione, di autodescrizione, di espressione applicando tecniche e metodi di lavoro desunti dalla psicodinamica di gruppo. "L'animazione culturale mira a favorire  nel giovane la costruzione di un'identità personale con profonde radici nella storia e nella tradizione. In secondo luogo mira allo sviluppo della capacità del giovane di partecipare alla vita sociale in modo autonomo e critico; in terzo luogo aiuta a scoprire la profondità di senso nascosta nell'esperienza quotidiana.[POLLO, 1990, p.24]

L’efficacia del gruppo di animazione e di lavoro è orientata alla motivazione verso l’attività, l’assunzione di ruoli, la distribuzione di compiti e l’organizzazione sociale. Dal punto di vista educativo è estremamente efficace per raggiungere  controllo ed equilibrio nel personale percorso di vita.

"Tutte le attività di animazione dovrebbero convertire verso la liberalizzazione della persona umana da quei condizionamenti che ne limitano la realizzazione e la capacità di governare la propria esistenza individuale e collettiva" [POLLO,1990, p.15]. Non sempre è però riuscita a far emergere sentimenti di disagio, necessità affettive bisogno di comprensione, diventando così più animazione teatrale ed espressiva, animazione socioculturale, animazione del tempo libero ed animazione socioeducativa.

 2. Il formatore è una figura professionale presente nei gruppi che ha propugnato la necessità di superare le tradizionali modalità di insegnamento direttivo e verticale. La prima caratteristica del formatore è l’esercizio di una comunicazione interattiva fondata non solo sul feedback di chi riceve le informazioni trasmesse ma soprattutto sulla chiamata alla partecipazione al percorso di apprendimento. La formazione nasce come risposta alle esigenze di apprendimento degli individui e si esprime nel processo di adattamento alle organizzazioni. La formazione nasce con l’espressione delle domande formative e con l’emersione delle abilità, delle competenze e dei contenuti da interiorizzare nel processo formativo. Al centro della formazione c’è l’apprendimento e l’esito dell’apprendimento è lo sviluppo di un più ampio orizzonte di libertà e di indipendenza nelle scelte personali.

Il termine ha avuto ed ha ancora diversi significati; formazione come attività plasmatrice( nel senso di dare forma), nell'educativo significa interiorizzare valori e norme precostituite a cui occorre essere socialmente uniformati o conformati; come processo integrativo dello sviluppo personale nel quale la persona porta a maturazione le potenzialità soggettive apprendendo ciò di cui è carente; formazione come abilitazione a ruoli professionali, acquisizioni di competenze comportamentali e relazionali legate all'apprendimento di un congruo sapere, saper fare e saper essere; formazione come funzione dell'evoluzione umana dove la formazione non riguarda solo competenze specifiche di ruolo o di status sociale ma a livello mondiale la tutela e la promozione dei diritti umani di tutti [cfr. Dizionario Scienze Educazione, Voce: Formazione, C. NANNI, 1997, pp. 433,434].

3. Il conduttore dei gruppi di incontro è invece solo un facilitatore del passaggio della corrente gruppale da un individuo all’altro. I suoi compiti sono quelli di ridurre al minimo gli interventi e di rendere il più possibile fluida la comunicazione con la consapevolezza che ciò che davvero conta sono i sentimenti vissuti nel gruppo dalle persone che lo compongono, le simpatie e le antipatie, il confronto, l’emersione delle affinità e differenze, il raccontare la vita e lo scoprire la comune umanità di tutti i partecipanti.

Il gruppo di incontro ha come unica condizione di garantire che  la cornice del gruppo sia salda ed al sicuro da squalifiche. L’unico obiettivo è quello di vivere e respirare l’aria del gruppo e di arricchirsi del vissuto altrui. Non è un gruppo che accende  e promuove verso qualche obiettivo da raggiungere, né un gruppo dove si impara un altro particolare punto di vista sulla realtà. E’ un gruppo dove si disimpara a chiudersi dentro le proprie difese e dove si spengono le proprie tensioni. Nel gruppo di incontro emergono le motivazione all’affiliazione ed  all’accoglienza.

L’educazione alla capacità di stare nei gruppi deve tener conto della metodologia ed essere applicati diversamente a seconda delle personalità collettive che si incontrano. Le richieste di formazione avanzata per il lavoro nei gruppi hanno proposto a Prevenire è Possibile la necessità di organizzare una formazione articolata, per stadi, che partendo dal gruppo di incontro porga strumenti e filosofie di animazione e di formazione.

Potremmo quindi dire che il processo di cambiamento muove intorno a tutti e tre gli ambiti: ci sono i momenti e le riunioni di lavoro e animazione, ci sono i momenti di formazione e apprendimento, ci sono i momenti di empatia e di incontro tra persone.

 

Il gruppo di incontro

La struttura dei gruppi di incontro ha come caratteristica quella di essere gruppi educativi che possiedono qualcosa di meno rispetto ai tradizionali gruppi ad orientamento psicologico e qualcosa di più.

I gruppi a sfondo psicologico di Lewin, Lippit e White, detti T. Groups (Training Groups = Gruppi di addestramento) nati nel 1946, avevano lo scopo di addestrare i partecipanti ad essere costruttivi nelle relazioni con altri mediante franchezza, espressione di sé, immediatezza e comunicazione; in seguito la diffusione di gruppi venne a modificarsi.

Vi è una profonda differenza tra i gruppi a sfondo psicologico ed il gruppo educativo.

I primi si incentrano sull’importanza dell’individuo e sul significato profondo delle sue espressioni nel gruppo; per esempio i gruppi di Murphy strutturati nel centro di Esalen danno grande importanza al processo di liberazione della difensività dell’individuo proponendo esercizi di animazione corporea.

I gruppi di Carl Rogers che tendono con la tecnica dell'auto-aiuto a liberarsi dai mascheramenti difensivi imposti dal condizionamento sociale.

Oppure i gruppi fondato sulla teoria della Gestalt e sull’Analisi transazionale la cui prospettiva tende a far accettare le diverse parti della personalità dell’individuo cercando di eliminare i giochi psicologici pericolosi.

I secondi invece (gruppo educativo) non propongono esercizi o tecniche particolari tendenti a favorire la comunicazione o l’esplorazione del sé; l'unica tecnica, per così dire, è il momento di silenzio proposto prima di ciascuna riunione. I gruppi di incontro infatti non si pongono di trasformare la singola personalità o di interpretare le diverse sfaccettature dell'io. I gruppi d’incontro di tipo pedagogico hanno la sola funzione di mettere in relazione le persone tra di loro affinché si riconoscano reciprocamente come individui aperti alla relazionalità.

Il clima è lo strumento principale di lavoro poiché favorisce il reciproco ascolto empatico e consente la verbalizzazione dei vissuti sperimentati.

La differenza tra i due gruppi è anche data dal tipo di soggetti a cui si rivolgono. Non si tratta, nel secondo caso, di soggetti particolarmente disturbati ma solo di adolescenti che vivono qualche particolare condizione di disagio. Il disagio è spesso provocato dalla mancanza di occasioni di relazioni o dalla presenza di conflitti interiori non gestiti o dal senso di vuoto (sul disagio è stato detto ampiamente nella prima parte).

Prima di esplicitare la metodologia del gruppo incontro che come abbiamo visto ha la funzione di facilitare la relazionalità e l'ascolto è bene specificare alcune diverse tecniche di animazione e di discussione, all'interno del T Group, da cui il gruppo di incontro trae origine:

Il brainstorming (uragano dei cervelli)  esprimere senza remore, vergogne, censure o imbarazzi il proprio pensiero, anche se parziale incompleto e forse inutilizzabile, intorno ad un problema; il role playng, un gioco di ruoli  introdotto da Moreno [1934] e da Mead [1934] che favorisce nelle persone la comprensione di sé e dell’altro mettendosi nei panni  dell’altro, recitando il suo ruolo o il proprio; il circle time (espressione di Gordon utilizzata in contesti educativi) che prevede la necessità di mettersi in cerchio e discutere intorno alle problematiche ed agli eventuali conflitti all’interno del gruppo formale; infine l'azione research  (termine coniato da Kurt Lewin) finalizzato a coinvolgere direttamente nella ricerca sui comportamenti di gruppo ed organizzativi i soggetti che sono oggetto della ricerca medesima.

 

La conduzione dei gruppi

Il gruppo di incontro si muove nella consapevolezza che l'area della relazionalità sia comunque efficace per tutti i giovani che in essa possono apprendere e modificare tratti di comportamento di disagio o a rischio o già carichi di problematicità.  E' ben chiaro che il gruppo ha diverse contestualizzazioni e strumenti nel caso sia rivolto alla prevenzione primaria, secondaria o terziaria,  e cioè:

1) preventiva : intervenire  in modo adeguato per impedire lo svilupparsi negativo di situazioni personali di disagio che in qualche modo riguardano tutti gli alunni e per alcuni in grado più accentuato;

2)educativa : una scuola in grado di dare un'istruzione  ma anche  di essere una scuola di  promozione della personalità dell'alunno;

3)rieducativa o di recupero : rivolto a tutti coloro che hanno bisogno di essere recuperati nelle loro deficienze di educazione e di apprendimento e quindi hanno esigenza di interventi e di tecniche specializzate.

 

La pedagogia dei gruppi

La pedagogia dei gruppi può essere applicata ai diversi contesti precedentemente espressi con la doppia funzione di individuare le modalità di azione, di scopo e di percorso educativo in cui l'educatore si pone e di descrivere la personalità collettiva di gruppo in atto tra i soggetti al fine di proporre l'innesco di processi di cambiamento e maturazione tra di loro.

Le caratteristiche professionali ed operative dell'animatore o del formatore sono abbastanza note: si tratta di favorire processi di finalizzazione del gruppo verso uno scopo mediante una attività (nel caso dell'animatore) o di consentire processi di formazione ed apprendimento mediante dinamiche di gruppo volte alla competizione, alla collaborazione o alla cooperazione (come nel coopterive learning).

Meno note quelle del conduttore di gruppi pedagogici di incontro. Conduttore è infatti l'educatore che mette in evoluzione le relazioni intraggruppali affinche i membri si conoscano tra di loro, strutturino una solida rete di rapporti  e svelino i contenuti del disagio.

Nel contesto scolastico, ad esempio, il ciclo di vita dei gruppi prevede queste fasi:

1) i gruppi diventano le orecchie del disagio della scuola : la prima fase fondamentale è l'ascolto di  se stessi e degli altri riguardo i principali problemi del contesto giovanile, elaborandoli e trasformandoli in temi di discussione nelle classi e nelle assemblee....;

2) i gruppi diventano il cuore della scuola : la seconda è la possibilità di dare un luogo dove si vivono intensamente i sentimenti, gli stati d'animo, le tensioni; sono punti di riferimento per soggetti a rischio o con problemi di profondo disagio esistenziale, relazionale e sociale;

3) i gruppi diventano il braccio della scuola : la terza quella di  svolgere all'interno di essi attività operative di solidarietà concreta verso gli altri : il richiamo dei  ragazzi che stanno abbandonando la scuola, l'accoglienza dei ragazzi delle prime classi, l'intervento sui ragazzi che sono stati bocciati, etc...

I metodi di conduzione di tali gruppi sono articolati in tali operazioni:

il condut­tore nel gruppo deve essere attento, pronto ad intervenire ove ve ne sia bisogno ma non in funzione attiva, piuttosto in posizione ricettiva e di ascolto. La sua migliore per­formance è quella di essere talmente dentro il gruppo da risultare invisibile, parte essenziale dell’insieme ma senza una caratterizzazione definita.

Questo ruolo è per molti, specialmente per gli insegnanti, istruiti ed abituati a parlare ed ad essere al centro dell’attenzione per ore, molto difficile. Ma per ascoltare è neces­sario far parlare gli altri e, dunque, saper tacere.

Deve poi saper costruire un clima rarefatto. Si intende una situazione in cui l’entropia relazionale è contenuta, le persone non sono immerse in un mare di attività, ma hanno acceso in loro un momento di raccoglimento, ascoltano se stesse, producono  silenzio interiore. A questo fine il metodo di lavoro proposto non contiene indicazioni e norme rigide a cui attenersi ma è semmai l’esatto contrario: produrre uno spazio vuoto in cui ciascuno può finalmente far venire alla luce ciò che è più auten­tico. Proprio per questo la prima indicazione operativa è l’apparente assenza di indicazioni cioè il silenzio. Il lavoro nel gruppo parte dal momento del silenzio. Il conduttore invita il gruppo ad osservare un momento di silenzio prima di iniziare a parlare. Il silenzio ha poi un motivo pratico: sancisce l’inizio dell’incontro. I membri del gruppo arrivano alla spicciolata...si siedono...iniziano a chiacchierare ed aspettano gli eventuali ritardatari...poi il conduttore li fa mettere in cerchio con attenzione pignola alla corretta posizione di tutti , si alza, chiude la porta e li invita: “ Facciamo un momento di silenzio”. Prima del silenzio c’è un clima, immediatamente dopo un altro. Dovrà poi essere in grado di mettersi in gioco, raccontare la vita. Mettersi in gioco vuol dire proporsi alla pari con l’altro senza assumere atteggiamenti di chi “sa”,  di chi ne “sa di più” perché ha già vissuto o di “chi ne sa di meno” per piaggeria o condiscendenza. Equivale a rendere incerto l’esito di un incontro perché esso non dipende solo dal conduttore. Di fronte ad una situazione difficile, alla espressione di un sentimento doloroso o ad un episodio coinvolgente raccontato da qualcuno non si debbono dare interpretazioni “sagge”,  si deve invece raccontare come si è reagito in situazioni similari nella propria vita. O se non vi è nulla di simile nella propria vita  si può raccontare come hanno reagito altre persone conosciute.

 Perché tutto ciò avvenga è necessaria una cornice ben definita. E’ importante che avvenga una definizione precisa della posizione dell’esterno rispetto al gruppo in base ad una semplice alternativa: o entra e partecipa o esce e se ne va. Se qualcuno rimane sulla “cornice”, il gruppo  è squalificato e ciò diventerà visibile attraverso il chiacchiericcio diffuso, la discussione in sottogruppi e l’isolamento di alcuni. Solitamente quando il gruppo entra nel brusio disordinato il conduttore riprende le fila con un intervento autorevole. Poi rilancia la discussione nel gruppo che rientra nella fase di ascolto.

Le precedenti indicazioni hanno scopo di  creare lo spazio psicologico e relazionale affinché  possa verificarsi e manifestarsi l’evento dell’incontro tra persone. Se la fase dell’ascolto e della conoscenza si è completata, se tutta la rete di relazioni possibili nel gruppo è stata esplorata (ciascuno ha stabilito un punto di contatto con tutti gli altri membri, ad uno ad uno) è possibile che si inneschi quel processo di empatizzazione che da vita a nuovi legami sociali e il gruppo può evolvere verso le forme e gli obiettivi che gli sono propri

L’uscita dalla personale solitudine si fonda sull’apertura al coglimento empatico. Il gruppo di incontro favorisce l’empatizzazione perché parte  da zero e si presenta come il luogo in cui ciascuno può riuscire a chiarirsi con gli altri su ciò che sente. Il motivo risiede nel fatto che la principale proprietà del gruppo è quella di  far circolare le emozioni e di renderle finalmente osservabili all’esterno del sé

Il rischio, sempre presente, è che il gruppo scivoli nei compiti e cioè che i mezzi educativi e formativi possono diventare il fine del lavoro. Il gruppo non deve servire a niente, solo a se stesso: a costruire relazioni, eventi, incontri, senso condiviso, significati, uomini e donne. Il gruppo deve rimanere gruppo di incontro, senza scivolare in altro o far entrare all’interno questioni tecniche, progettuali o attività integrative che porterebbero altrove l’interesse.

 

 

Personalità collettive di comunità

Hishelwood porpone tale termine, che riprendo il "L'Empatia nel Gruppo di Incontro" per descrivere le strutture gruppali di alcune comunità da lui analizzate in Gran Bretagna. Il termine, particolarmente efficace, si propone come una interessante novità nel campo della ricerca psicologica e sociologica oltreché nelle esperienze operative di tipo pedagogico.

Una personalità collettiva è data dalla contemporanea presenza di un buon livello di risonanza intragruppale e di una altrettanto consistente attribuzione causale intergruppo. In questa luce ci si apre alla ipotesi di una formazione dei gruppi per affinità elettiva tra persone e per affinità a quella personalità di gruppo che è in grado di attrarre l’individuo verso quella appartenenza. Un gruppo può dunque essere di elezione per un certo tipo di personalità, oppure può far conformare gli individui intorno ad alcuni tratti di comportamento che in quel gruppo trovano una particolare possibilità di espressione. Il rapporto tra individui e gruppi è dunque circolare: gli individui formano un gruppo mediante la sovrapposizione dei campi psicologici attivati da una loro valenza emozionale ed i gruppi influenzano gli individui, facendo loro vivere le esperienze tipiche della personalità di quel gruppo. A ben vedere l’ipotesi è molto più complessa perché coniuga le caratteristiche di personalità individuale dei singoli, le loro affinità elettive e la personalità del gruppo che vanno a formare o che incontrano ad un certo punto della loro vita.

L' affinità è la somiglianza, nella differenza, tra persone che hanno in comune qualche tratto del movimento dell’Io, fissato più o meno stabilmente, che costituisce la ragione del loro sentirsi attratti o respinti o indifferenti vicendevolmente. In pratica i tradizionali modi in cui si modula il processo di empatia: simpatia, antipatia o apatia. Un soggetto sballone (utilizzo i termini coniati all'interno del Progetto Prevenire è Possibile, peraltro di facile intuizione) sarà attratto da altri sballoni con cui tenderà a fare gruppo per affinità di simpatia. Sarà però facilmente invischiato in dipendenza e controdipendenza incontrando un adesivo. Il primo vuole sperimentare il piacere di essere totalmente amato, il secondo ha bisogno di affiliarsi e, per lui, chi vive la ricerca del piacere ed evita l’angoscia diventa un oggetto di amore preferenziale. Non riceverà però a lungo l’amore dello sballone in ragione della sua volubilità e la coppia si frantumerà. Lo sballone tende ad evitare il controllo dell’ansioso poiché gli è insopportabile l’ordine (che per lui è visione ristretta della vita e  mancanza di generosità)  e la fuga dal piacere tipica dell’avarizia.

L’adesivo tende a legare con chiunque sia per lui visibile e non potrà pertanto prendere in considerazione l’invidioso.  Sarà invece attirato da tutti: oltreché dal precedente volubile sballone, anche  dall’accattivante avaro che darà a lui sicurezza. Ma l’ansioso non riesce a tollerare la sua petulanza asfissiante e, in breve tempo, lo rifiuterà. L’adesivo avrà ammirazione per il ruminante e la sua energia, per l’intelligenza del delirante, per la calma del pigro: egli trova sempre qualche emozione a cui attingere dalle diverse persona che incontra.  Egli è poi un ottimo collante per un gruppo, in ragione della sua capacità di mettersi in collegamento con tutti. Per questo motivo è in genere conformista rispetto alla cultura del gruppo.

L’apatico non tende a fare gruppo poiché non investe emotivamente su nessuno: se partecipa ad un gruppo è in termini parassitari per trarre dall’esperienza collettiva il suo personale tornaconto e continuare a vivere di rendita.

L’invisibile evita il gruppo, tende infatti a non mostrarsi. Può partecipare al gruppo solo per mimetizzarsi, adeguandosi alle norme in uso nei suoi contesti di vita: è un conformista che tende ad uniformarsi calligraficamente al gruppo. Quando avrà compreso il senso di inferiorità che lo tiene prigioniero, potrà proporsi con l’esplicitazione della sua invidia e a diventare concorrenziale con gli altri soggetti. 

Il ruminante è polemico e si lega solo temporaneamente, in genere con soggetti ruminanti come lui, con l’obiettivo di caricarsi di energie ed utilizzarle per la realizzazione di un progetto o contro i nemici individuabili. Riunisce intorno a sé personalità gregarie e tende alla leadership del gruppo perché è in grado di lanciare idee anche creative e innovative.

L’avaro inquieto e ansioso lega solo con le persone che può controllare e nutrire. La sua insicurezza lo porta ad allontanarsi dalle persone che possono per lui rappresentare pericolo, eccessivo coinvolgimento ed instabilità o se sfuggono al suo controllo. Nelle relazioni ha sempre bisogno di sentirsi definito; eviterà il volubile sballone e il ruminante. Non evita l’apatico perché rappresenta la calma e la tranquillità che non riesce a vivere.

Il delirante è totalmente compreso nella verticalizzazione del suo Io; cerca costantemente conferme in rapporti intimi con gli altri da cui esce solitamente frustrato perché non si sente compreso a fondo. La sua esperienza di relazione non è mai completa perché, nel suo andare oltre , vive continuamente la rincorsa verso qualcosa di più che l’altro non può dare. Il suo bisogno di conferme lo porta verso la relazione ma il suo sentirsi oltre lo porta a rifiutare snobisticamente ed a farsi rifiutare dall’altro.

Le precedenti esemplificazioni aprono una finestra su un campo senza fine: i movimenti dell’Io intorno ad una emozione di base non escludono infatti la possibilità di sperimentare le altre emozioni (anche non di base) nelle particolari sfumature che assumono per ciascuno. Descrivere una personalità fissandola in una sola emozione è legittimo solo in chiave teorico esplicativa. Inoltre vi sono possibilità di affinità tra opposti ed adiacenti da valutare situazionalmente, in base cioè alle particolari contingenze. Da ultimo, ma più rilevante di ogni altra osservazione, la capacità di coscienza e di consapevolezza di sé nell’uomo è determinante nel comprendere, in modo non meccanico, il comportamento relazionale. Il ruminante più aggressivo può giungere dopo le ripetute sconfitte ad arrendersi e trovar gusto nella calma del pigro che ha sempre evitato e, trasmettendo a lui energia, ricavare da lui la consapevolezza ed il gusto della noia. I gruppi che gli individui vanno a formare o che gli individuio incontrano hanno diverse fisionomie a seconda del miscelarsi dei tipi e del loro centro attrattore.

Per interpretare il rapporto a due possono essere teoricamente sufficienti le dimensioni relazionali complementari (up e down) e simmetriche o quelle transazionali che descrivono le espressioni dei copioni personali nelle diverse disposizioni di ok e non-ok. Il rapporto di gruppo è molto più complesso:

1)   si esprime prima di tutto nella rete di relazioni diadiche,

2) poi quando le relazioni diadiche diventano visibili gli individui si comprendono vedendosi vicendevolmente nel modo di esprimersi nelle diadi

3) successivamente si stabiliscono relazioni che interferiscono con le relazioni a due (relazioni che si relazionano alle relazioni a due

4) infine è nell’area di sovrapposizione dei campi psicologici degli individui che il gruppo trova compimento.

 Ogni gruppo ha delle proprietà uniche connesse a tali reti ed si differenza sulla base della loro qualità.

Di conseguenza ogni tipo di personalità collettiva di gruppo ha un sistema di funzionamento del tutto particolare che si discosta, con maggiore o minore scarto, dalle dinamiche intragruppo e intergruppo analizzate negli esperimenti di psicologia sociale.

Da questa ipotesi ne discendono altre numerose: la teoria della polarizzazione, del condizionamento e del trascinamento della maggioranza o delle influenze della minoranza si verifica diversamente a seconda delle personalità collettive di gruppo.

Possono esserci gruppi di socializzazione acquisitiva di comportamenti conformistici o addirittura di sottomissione, ma anche gruppi di esercizio della libertà e della differenziazione.

In un gruppo l’individuo può trovare lo spazio psicologico della affiliazione, in un altro può iniziare a realizzare la sua personale identità. I due gruppi possono essere due stadi del ciclo di vita di un unico gruppo: proprio perché tali persone fondano la loro sicurezza sulla affiliazione realizzata possono iniziare a differenziarsi. Allo stesso modo del bambino che avendo vissuto un rapporto di attaccamento equilibrato con la madre, (né troppo povero, né troppo invischiante) ha sviluppato la sua curiosità di avventurarsi ad esplorare il mondo. (AINSSWORTH, 1983).

Parlare di gruppo significa essenzialmente parlare della storia di un certo numero di relazioni e della comunanza delle sovrapposizioni dei vissuti espressi in tali relazioni (gli spazi di vita condivisi dalla pluralità dei membri con più o meno esplicita consapevolezza di tali concordanze).

Partecipare ad un gruppo è connesso alla istituzionalizzazione di tal comunanze in norme condivise e non necessariamente in conformismo passivo poiché è sempre richiesto l’apporto del singolo al cambiamento della dimensione degli spazi di comunanza.

La normalizzazione, infatti, è un processo della dinamica del gruppo: ”il conformismo infatti è il risulatato di una tacita negoziazione tra i punti di vista di un gruppo o di un individuo che costituiscono l’autorità e coloro che si trovano a confronto. Questa negoziazione avviene per risolvere il conflitto provocato dalla loro divergenza. La soluzione scelta nel caso del conformismo corrisponde ad una riduzione di questo conflitto mediante l’adozione della norma che ha autorità” (AEBISCHER, OBERLE', 1990, p. 67)

L’adesione o il cambiamento delle norme non è un processo di conformismo tout-court ma una interazione che interviene quando le norme sono giunte ad punto critico nella loro funzione sociale; la loro negoziazione è un processo che si innesca all’interno per una necessità del gruppo, tale azione si incarna  in qualche membro (minoranza) che è implicitamente delegato ad innescare  il conflitto per superare la stagnazione e, forse,  riaprire ad un nuovo ciclo di vita una relazione gruppale esaurita. La forza del cambiamento e la polarizzazione del consenso dipende sia dalla personalità di coloro che si incarnano nel ruolo di minoranze (ruolo che sentono più affine in ragione ai loro movimenti interni dell’Io in cui sono più o meno stabilmente fissati) sia dalle resistenze delle altre personalità che compongono il gruppo. Ed ovviamente dal senso che collettivamente il gruppo attribuisce al cambiamento.

Se cambiano però le norme a seguito della negoziazione, tutti i membri, che vogliono ancora esercitare la possibilità della affiliazione, debbono cambiare le loro dimensioni di personalità e ristrutturare cognitivamente le singole mappe mentali giunte alla soglia di rottura per dissonanza e per bisogno di nuova normalizzazione.

Non è però possibile far fronte teoricamente a questo processo senza far ricorso alle capacità euristiche dell’empatia. O si ipotizza tal comunicazione  come fonte dei legami gruppali o non è possibile dar ragione a quanto avviene di così altamente contraddittorio sia nella vita comune dei gruppi  che negli esprimenti di laboratorio.

Infatti ogni singolo costrutto teorico posto a spiegazione della comunanza gruppale (l’interdipendenza dal compito e dal destino, i cambiamenti nel concetto di definizione del sé, la perdita temporanea e il cambio di identità, l’uniformità di comportamento, la dissonanza cognitiva, la collettivizzazione delle mappe mentali e la comune interpretazione del mondo, l’organizzazione e la differenziazione funzionale di compiti  - articolata in questa luce sulla base di affinità di  personalità con il ruolo rivestibile -, la concorrenza interna per invidia ed emulazione, la struttura di gerarchia, il perché di un  leader efficace solo se “specialista socioemozionale”, l’abbandono del gruppo in certe fasi del suo ciclo di vita, etc...) è di per se insufficiente.

Le personalità collettive di gruppo sono espressione:

1) della comunicazione empatica e dei suoi esiti nelle singola azione sociali che le diverse teorie interpretano

2) della definizione reciproca metacomunicata e colta empaticamente dalle persone nei loro campi di relazione

3) della intuitiva comprensione del movimento dell’Io con cui gli altri membri del gruppo si esprimono

4) all’interno della rete di diadi

5) nelle coalizioni di più persone anche temporanee o dei sottogruppi

6) nell’affluenza di singoli movimenti in modo più o meno convergente con il gruppo in quel particolare momento del suo ciclo di vita.

Tutti questi processi hanno una modulazione diversa a seconda del tipo di personalità collettiva di gruppo: possono determinare la comunanza tra alcuni specifici individui nel gruppo in stato nascente, il consolidamento di una struttura gruppale attrattrice di taluni individui piuttosto che di altri, lo sgretolamento del gruppo in diadi, la divisione e il conflitto tra sottogruppi, la differenziazione di tutti i membri, la dipendenza affiliativa, la fusionalità incorporatrice, la stagnazione nel conformismo, il despotismo del controllo, la mummificazione del gruppo, etc...

Perchè il concetto di personalità collettiva di gruppo possa essere utile bisogna definire le sue dimensioni; non tutti i  processi sociali ed le attività espresse dalla psiche nella relazione va a coagularsi in personalità collettiva di gruppo. Una fantasia di un individuo, anche se espressa verbalmente all’interno del gruppo, può cadere nel vuoto e non determinare neppure un infinitesimale spostamento della personalità di gruppo. Un grande cambiamento sociale che modifica la vita quotidiana di tutti i membri del gruppo può non produrre modificazioni di rilievo nel contesto della personalità collettiva. Le dimensioni della personalità includono al suo interno eventi che presentino un minino di risonanza individuo-gruppo o un minimo di attribuzione causale integruppo.

Hinshelwood riprende da Bion il concetto di risonanza individuo-comunità e descrive individui che riescono a porsi in ruoli particolarmente potenti ed “essere in grado di portare la personalità della comunità in linea con le relazioni interne caratteristiche della propria personalità [...] La risonanza fra l’individuo e la comunità non deve essere presa semplicemente come un processo a senso unico, con un individuo che tiene la comunità schiava del suo mondo interno: quella è solo l’apparenza superficiale, anche se è molto facile cadere in quest’errore. L’individuo prescelto e la cultura della comunità formano un matrimonio nevrotico”. Una specie di processo ondeggiante acquista gradualmente velocità, modellando la cultura e il ruolo in modo che si adattino reciprocamente in qualche punto terminale stabile. Una comunità che si trova di fronte ad un problema[...] spinge sul podio un individuo che soddisfi le sue necessità [...] Il leader spinto sul palcoscenico sembra quindi stabilire un controllo sui problemi in modo da poterli radunare secondo il proprio approccio personale [...] Una probabile ulteriore condizione che accresce l’adattamento fra comunità e individuo è che vi è una maggiore percentuale di individui con personalità simili e quindi le relazioni interne e le difese hanno un alto grado di conformità nei vari appartenenti al gruppo” (HISCHELWOOD, cit., p.67-68).

“Una delle più comuni strategie per ottenere una positiva differenziazione del proprio gruppo consiste nell’orientare in maniera specifica l’interpretazione degli eventi nei quali i gruppi sono coinvolti, a cominciare dai processi di attribuzione causale, vale a dire dalla valutazione delle cause possibili degli eventi stessi. Infatti, come già notava Heider(1958), uno dei modi di salvaguardare l’autostima consiste nell’evitare di considerare se stessi la causa di eventi negativi, favorendo invece l’autoattribuzione di eventi positivi [...] Combinando questo principio con la fondamentale distinzione in-group/out-group  si è potuto evidenziare come buona parte del conflitto tra i gruppi sia basato proprio su una attribuzione tendenziosa che favorisce l’in-group e sfavoriscel’out-group” (MAZZARA, 1996, p. 155-156).

Per personalità di gruppo si intende quel modo di essere del gruppo centrato sulla qualità delle esperienze condivise, con una particolare struttura (e gerarchia) di relazioni interne, uno specifico stile comunicativo, valori (o disvalori) di riferimento e, soprattutto, una  qualità emozionale di base che è di sfondo al sentire collettivo del gruppo. Se però l’emozione di un singolo non determina risonanza all’interno del gruppo tale emozione non ha peso per la personalità collettiva. Se le emozioni condivise nel gruppo non sono prodotte dalla relazione in atto tra i membri e quindi non presentano un minimo di attribuzione di specificità (anche solo supposta) rispetto al contesto o ad altri gruppi, tali emozioni condivise non costituiscono fattore costitutivo per la personalità collettiva di gruppo.

L'intervento sulle personalità collettive di comunità ha la funzione di modulare la loro gruppalità interna facendole trasintare verso strutture di relazioni che favoriscono il cambiamento dei soggetti e la liberazione dalle loro dipendenze. Ciò avviene qualora possa determinarsi all'interno una equilibrata tensione affiliativa.

Il bisogno di affiliazione è percepito con forza da soggetti deprivati nella loro possibilità di sperimentare sentimenti, emozioni e di conoscere valori. Tali persone ricercano un supporto nella relazione di aiuto: sono rimaste intrappolate in  sé stesse e non riescono  a  vedere  vie di uscita dalla propria condizione i copioni in cui sono imbrigliati.

La richiesta di aiuto espressa è una scelta forzata verso l’approdo in una casa famiglia o in una comunità. La comunità è un gruppo fortemente affiliativo  che con  solidarietà  circonda  l'ultimo arrivato e si stringe intorno a lui per dargli la forza  e  il coraggio di cambiare. "L'emarginato ha l'impressione di non poter essere amato, nel suo profondo,  di  essere incapace di riuscire  nelle  sue  attività. Questa  immagine frantumata di sé stesso, tra ciò che fa,  e  ciò che è la sua persona profonda, genera in lui un mare di  disgusto e  di  tristezza,  un'impressione  di  dar  fastidio,  di  essere rifiutato,  una  reale  disperazione... Ci si  sente  male  nella nostra pelle, si è in una specie di stato interiore in cui ci  si immagina che le persone intorno a noi guardino sempre e solo  "il brutto"  che  è dentro di noi; e questo sguardo delle  persone  è intollerabile. Questo dolore insopportabile può costringere  a  fuggire  nel mondo  dei sogni e, al limite, affondare nella malattia  mentale, perché è più confortevole. Almeno nel sogno, c'è il proprio  mondo e non si è disturbati...Ma  quando si ritorna al mondo reale, è un inferno, ci si  sente sempre  rifiutati,  esclusi",  dice J.Vanier,  in  "La  paura  di amare" [1987].

Da questa condizione, è praticamente impossibile uscire da  soli; è necessario sentirsi finalmente accettati per come  si è, ed incoraggiati a intraprendere un cammino di cambiamento.

“Non  si tratta di guarire qualcuno, come se fosse affetto da  una malattia,  ma  ridargli una qualità di vita, in  cui  egli  possa amare  e lavorare, e condurre una esistenza che corrisponde  alla dignità del suo essere, prosegue J.Vanier. In questo lavoro è  di fondamentale  importanza il gruppo; l'emarginato, o  la  persona con grosse difficoltà, o il tossicodipendente, o l'alcolista,  o il malato di mente, richiede di essere circondato da un gruppo di persone  attente ai suoi problemi, ed in grado di reggere il  suo disequilibrio   interiore.  E' necessaria la condivisione di vita, per arrivare a vedere i primi segni di cambiamento interiore”. Tale rapporto di aiuto richiede grande pazienza da parte del conduttore di un gruppo centrato sulla affiliazione, senza la quale l’intero lavoro rischia  di essere controproducente. “Sempre  più  frequentemente, entrano in contatto con la comunità, persone con situazioni molto difficili,  che vivono pesanti meccanismi di difesa,  chiudendosi in psicosi da cui sono incapaci poi di uscire. Per loro, una mano tesa può essere qualcosa di molto bello, o  di molto pericoloso, può succedere che colui che tenda la mano,  non sia  fedele  o  non sia vero, che dica "ti amo" ma  che  non  ami veramente,  che lo dica semplicemente, perché lo ha imparato  sui libri  o perché si crede autorizzato a dirlo. Se una persona,  dà ad un'altra una falsa speranza, allora, la mano tesa diventa  una realtà molto pericolosa” J.Vanier, (cit.).

Infatti,  una persona profondamente ferita, fa una grossa  fatica ad  avere fiducia in chi lo vuole aiutare, poiché,  uscire  dalla sua  solitudine  e  liberarsi  della  sua  malattia, vuol dire rinunciare alla sue difese. Quando questo avviene, la persona  si manifesta nella naturalità della sua sofferenza e sembra che il suo comportamento peggiori:  questo rappresenta il momento critico più importante di tutta la relazione di aiuto.

Una  persona fortemente disturbata, quando entra in  un  contesto che  la  accetta e che la aiuta circondandola di  affetto,  avrà sicuramente  una  regressione  a  comportamenti  peggiori  ed  a comunicazioni più difficili di quelli che manifestava  all'inizio del  rapporto. In pratica succede che, dopo un primo  momento  di progressivo miglioramento, appaia a volte, anche  all'improvviso, un  radicale  peggioramento  durante  il  quale  si   manifestano ripetuti  rifiuti per l'aiuto che si riceve,  tensioni,  scontri, chiusure, tentativi di inganno, manipolazione, ecc. Ciò perché si mettono in atto due processi: prima di tutto la persona manifesta apertamente la sua sofferenza e, liberandosi dei meccanismi  di paura che costituiscono il primo strato di difesa che lega la sua mente, mostra violentemente la base lacerante dei suoi  disturbi. In  secondo luogo, perché non appena si accorge di  aver  intorno soggetti  che  le consentono di esprimersi, scarica  su  di  loro tutta  la  sua frustrazione e l'aggressività compressa; quasi per verificare  fino a che punto gli altri la  accettino  egualmente. Sembra che faccia tutto il possibile per irritare, snervare e provocare.

Questo  momento  critico,  deve essere preventivato  e  non  deve destare  sorprese. Non metterlo in conto può essere  una  tragica superficialità,  sia per le conseguenze concrete, sia perché  se, all'atto del suo esprimersi, la persona disturbata trova  intorno a  sé gli stessi meccanismi di rifiuto di sempre, cadendo in  una chiusura ancora più profonda da cui sarà progressivamente  sempre più difficile uscire. Occorre fare dunque attenzione ai  seguenti due  aspetti: 1) Non avere fretta che la  persona  progredisca velocemente nei primi momenti, magari vezzeggiandola e concedendo privilegi.  Cercare  invece a che interiorizzi  le  regole  della comunità (o della casa famiglia) con attenzione. Ciò che viene proiettato in questa fase, sarà un ottimo trampolino di lancio per i successivi momenti  più difficili.  Al  fine di questa introiezione, è  anche utile non insistere sui rapporti diretti  e caldi;  non  è  il  caso  di circondare, di più attenzioni del  necessario la persona disturbata, anche se spontaneamente siamo portati a  farlo. 2) Nella fase di regressione, è necessario mantenere con  costanza l'equilibrio precedente, perché ogni fuga  dal  rapporto,  ogni paura, ogni brusca ramanzina, viene recepita come rifiuto, specie se appare in forte contrasto con le modalità di comportamento dei primi  momenti. E' questo semmai, il momento in cui è  necessario occuparsi della persona disturbata, con la massima attenzione.

L’esperienza del fallimento di molte case-famiglia  con ospiti dimessi dagli ospedali psichiatrici è dovuta al fatto di non aver saputo organizzare questo doppio processo che invece è diventato tipico delle fasi di accoglienza, residenza e reinserimento delle comunità.

La struttura gruppale di comunità offre una organizzazione di convivenza quotidiana che riempie ed organizza tutti gli spazi  fino a diventare anche eccessivamente pervasiva: tale processo, oggi limitato nelle comunità evolute con programmi di media durata può rappresentare un pericolo per la controdipendenza degli ospiti dalla comunità medesima. La loro tensione affiliativa, se non saziata attraverso un processo di responsabilizzazione e di partecipazione effettiva alla conduzione può portare, se accompagnata dalla superficialità o dal narcisismo dei conduttori dei gruppi di comunità, tali esperienze  verso il fallimento: la riedizione di istituzioni totali o la trasformazione in organizzazioni settarie.

Carenza di affiliazione

“Le  comunità contengono tensioni umane e  angosce  d'origine emotiva ed è compito dell' istituzione psichiatrica agire in questo senso,  ma alcune  comunità sembrano andare in pezzi nel processo legato al tentativo  di contenerle  [...]  Tuttavia per quanto la comunità possa  contenere  individui ansiosi,  essa è solamente un contenitore ausiliario per persone che non  sono in grado di contenere se stesse" (HINSHELWOOD, 1989:211).

Nell’esperienza di Hinshelwood (1989) alcune comunità non hanno saputo suscitare all’interno una equilibrata affiliazione e si sono involute. Partendo dallo studio di Rapoport sulle  oscillazioni  nella comunità terapeutica che fanno sorgere e dissolversi la  coesione interna,  Hinshelwood  descrive gli esiti nelle "personalità  delle  comunità" delle dinamiche interne che in esse si verificano; ne derivano alcune  descrizioni di CT non più sulla base della spiegazione strutturale e metodologica ma sulla base della situazione della comunità esito del percorso di sviluppo della comunità. Ciascuna comunità è considerata alla stregua di un organismo vivente  con una sua personalità prodotta dai processi sociali che sono avvenuti all'interno: 

 -  La  comunità  difensiva, coerente con le impostazioni e  rigida  cerca  la protezione  e produce scissioni interne e drammatizzazioni che  fanno  nascere barriere tra i membri.

 -  La  comunità fragile. La  fragilità è prodotta dalla paura  che  giunge  a paralizzare l'organizzazione; è l'esito di alcuni eventi che hanno  prodotto disordine  nel  lavoro  del gruppo.  “La comunità come  interesse  di  lavoro risulta  smantellata e il risultato finale è una frammentazione in  uno  stato caotico e anarchico, un aggregato di individui impauriti che si differenzia  a malapena ... che rimangono insieme grazie a una comune identificazione  basata su continue proiezioni sulla comunità esterna della paura della propria  frammentazione” (cit:164)

 -  La comunità resa rigida da meccanismi difensivi produce effetti  di  forte disorientamento  nelle linee comunicative interne e può attualizzare  processi di vischiosità interna, oppure scivola nella rigidità burocratica per  evitare rischi  e  decisioni  creative fino diventare mummificata: spazza  via  l'esperienza  e  il sentimento per paura di andare a pezzi sotto l'urto  delle realtà vitali ed emozionali.

 -  La  comunità con il pugno di ferro. Tale comunità  viene  descritta  come prodotto dell'influenza di soggetti psicopatici perché le loro  manipolazioni e tendenze impulsive possono dare origine a continui aggravamenti del  sistema di punizione.

 -   La  comunità  spezzata. L'organizzazione rigida è molto  fragile  e  può andare  incontro a fratture cioè alla nascita di sottogruppi e di processi  di coalizione tra persone.

 - La comunità demoralizzata precipita in un vortice di sfiducia nei confronti della  comunità  e di bassa autostima personale dei membri;  vengono  proposti traguardi  velleitari per ribaltare la situazione e ridare fiducia che  falliscono e la comunità rimane definitivamente imprigionata nella  demoralizzazione: abbandoni, senso di inefficacia del trattamento, assenteismo, etc.

La descrizione di queste diverse  personalità di comunità gravita intorno alle  dinamiche  del  potere e delle coalizioni interne; individua  così  momenti  diversi nello sviluppo della relazione comunitaria, crisi temporanee e diacronicamente successive, evolutive verso altre personalità di comunità.

Eccesso di affiliazione

Nel percorso di involuzione di una personalità di comunità  occorre menzionare il rischio della trasformazione della comunità in culto. Ottenberg  propone alcuni criteri per distinguere una comunità terapeutica  da una setta:

“ - Il potere nella setta è depositato nella mani di una sola persona, capo o guru,  la  cui parola è legge e che in molti casi incarna la  divinità.  Nella comunità terapeutica il potere appartiene alla comunità intera, entro la quale una struttura gerarchica risponde a un comitato direttivo [...]

-  Lo  scopo della CT è di aiutare l'individuo membro a  raggiungere  autocoscienza,  autocontrollo,  responsabilità personale e  capacità  di  funzionare autonomamente  fuori  della comunità terapeutica. Lo scopo della  setta  è  di incorporare l'individuo permanentemente, in vista di un rinvigorimento  della setta  nei suoi sforzi verso gli obiettivi di carattere politico, economico  e religioso [...]

-  La  comunità terapeutica offre a ogni membro la possibilità di  mettere  in discussione  qualsiasi altro membro delle comunità ,  indipendentemente  dalla sua  posizione o livello di autorità. La setta richiede obbedienza e  accettazione  del  credo della setta rivelato dal capo

-  La comunità terapeutica offre un ambiente in cui può aver luogo crescita  e maturazione  [...]. Nella setta l'alienazione della personalità originaria è accompagnata dalla perdita della  capacità di mantenere una continuità tra la personalità di prima e quella nuova” (OTTENBERG, 1983:26-27).

L'affiliazione  ad una setta può sembrare un processo sociale  molto  simile all'accoglienza  in  comunità: il soggetto si cala nella  struttura  che  lo accoglie  e  si  lascia guidare dando ad essa fiducia. La  differenza  però  è sottile.   Il  soggetto in affiliazione vive una forte infatuazione  verso  la setta  a cui tende ad aderire , al contrario l'ingresso in una  comunità  richiede il costante ricorso alla forza d'animo da parte del soggetto in  accoglienza per non perdere la motivazione iniziale. Nella setta l'individuo  è corteggiato per essere indotto a rimanere, nella comunità  è  criticato per il suo passato stile di vita e per il riemergere delle vecchie abitudini e gli viene proposto di cambiare.

Il processo di affiliazione alla setta è fondato su legami di complicità sempre più stretti. Via via che il nuovo membro procede nel suo percorso di affiliazione  viene  messo a conoscenza dei "segreti" della setta  ed  i  suoi vincoli con l'organizzazione si fanno più stretti e viene rinforzato il suo sentimento di diversità rispetto al mondo e favorito ogni vissuto che tende a strutturare un legame di dipendenza.

Il vincolo di dipendenza

All’interno del gruppo di comunità il  cambio  di personalità dell’ospite è connesso all'accertamento  del suo  nuovo  personale equilibrio interiore raggiunto. Egli, pur rimanendo  affettivamente legato  agli  amici  della comunità, sente di non  avere  più  drammaticamente bisogno del gruppo di comunità. Ma  non  tutti i percorsi individuali di cambiamento sono simili;  per  alcuni soggetti diventa agevole in un tempo medio-breve pervenire alla  realizzazione della propria libera autonomia, per altri l'autodirezione nel mondo è  motivo di paura insopportabile. Tali personalità dipendenti tendono  al  passato, rifiutano  l'evoluzione verso il futuro e sono fortemente conservatori  perché il  cambiamento  è la fonte dei loro problemi. Tenderanno  dunque  a  rimanere nella  comunità ed a riprodurre in essa le esperienze consolidate  e  vissute; tenderanno  a  mantenere la comunità in un  equilibrio  omeostatico.  La comunità  che non riconosce il pericolo del condizionamento prodotto  da  tali membri corre seri rischi. Infatti non è, in genere, la comunità a produrre  un meccanismo di dipendenza nei suoi residenti, quanto alcuni suoi residenti sono gli innescatori di un processo di controdipendenza della comunità.

Il bisogno di continuare a sentirsi utile, importante e realizzato all'interno  del  microcosmo  comunitario fa si che alcuni soggetti,  residenti  o  ex-residenti,  si  impongano nei meccanismi nodali delle  comunicazioni  e  della gestione della comunità tanto da avere nelle mani più di uno strumento di potere. Qualora  una comunità si affidi esclusivamente a questi soggetti  ex-residenti può  rimanere  priginiera di una controdipendenza che  blocca  ogni  ulteriore evoluzione  per stabilizzarsi in quell'equilibrio omeostatico  desiderato  da tali  soggetti. Quelle comunità diventano un cerchio chiuso e  perfezionano procedure  organizzative  che  assomigliano sempre più  a  rituali e diventano selettive  nell'accogliere  nuovi ospiti. Solo soggetti  con disposizione alla eterodirezione ed alla dipendenza  riescono  a rimanere  e  il sistema comunitario scivola sempre più nella direzione  di  un clan o di una setta.

Il concetto di dipendenza dalla comunità è questione centrale per comprendere la personalità di gruppo affiliativa. E’ naturale che all’interno di una comunità si instauri un legame forte tra le persone: la tensione affiliativa è funzionale all’arricchimento individuale dei membri che, introiettano sentimenti, immagini di persone e vissuti finalmente appaganti. Riempiono così quei vuoti interiori che li affliggevano; anche solo dopo due anni di convivenza umanamente ricca, possono contare su un numero sufficiente di ricordi ed immagini di calore affiliativo su cui sostenersi e impostare con criterio i futuri legami familiari o amicali.

La dipendenza è insita nell’affiliazione e non può essere la misura discriminatoria tra un legame palese e fondamentale il benessere del singolo e la salute del gruppo ed un vincolo ambiguo, nascosto e pericoloso per le persone ed il gruppo.

La presenza di legami, simbolici o reali, è una caratteristica costante della vita relazionale dell'uomo, ma sono un collante del gruppo del tutto diverso dalla esclusività dei vincoli di appartenenza.

Le proprietà relazionali che distinguono un legame da un vincolo (trasparenza/opacità, indifferenziazione/differenza, controllo/responsabilità, selettività/apertura, contrazione dei significati/espansione, etc.) sono di più facile lettura nella analisi della controdipendenza piuttosto che della dipendenza: con la network analisys delle relazioni o con una diagnosi organizzativa possono con facilità essere scoperti i nodi comunicativi dove si sono collocate le persone che tendono ad indurre controdipendenza (potere) nella comunità ed individuate (ed aiutate) le comunità che, subendo questo processo, ne rimangono prigioniere.

Gli antidoti a tale possibile involuzione e che possono consentire il  superamento della controdipendenza della comunità sono:

- l'accoglienza continua di nuovi residenti che, con i loro problemi ed  esigenze, ridisegnano costantemente lo spazio delle relazioni intracomunitarie  e rifinalizzano l’esperienza verso il senso originario;

- l'estraneità dei supervisori (professionisti o ex residenti) al  processo di vita comunitario. Solo da una posizione esterna potranno favorire i processi di interpretazione obiettivi del vissuto, potranno svincolarsi dal  vissuto comunitario senza rimanere intrappolati in una visione relativa alla  gestione quotidiana  delle cose e potranno favorire il processo di comunicazione  della comunità con il mondo.

La questione della dipendenza è un criterio importante per l’analisi del gruppo con personalità affiliativa. Il fatto di aver concetrato la descrizione sulle strutture di comunità è motivato dalla necessità di rendere concrete e leggibili le proprietà della personalità di gruppo affiliativa e pervenire alla discussione sulla dipendenza e controdipendenza come lente di ingrandimento dei processi distintivi di tal personalità di gruppo. Scegliere come esempio la struttura famigliare sarebbe stato molto più complesso in ragione della pluralità di modelli di famiglia e delle molteplicità dei vettori di coesione; ma è nella famiglia che si attua la più alta affiliazione dipendente, fondamento di sicurezza ontologica indispensabile per la successiva differenziazione.

Dalla famiglia e dalla comunità si può ricavare un altro elemento concreto per la riflessione sulla personalità affiliativa: il significato della convivenza intesa come “tempo di vita trascorso insieme” che può essere sfumato nelle dimensioni simboliche connesse con  il “dormire sotto lo stesso tetto” ma non oltre una certa soglia. Anche la relazione è lavoro ed il lavoro richiede tempo.

Al termine della discussione sulla personalità affiliativa una ultima considerazione. L’obiettivo raggiunto è quello di aver mostrato la differenza tra  due personalità collettive solitamente mescolate: ben diversi sono invece i processi relazionali in un idealtipo di gruppo che si fonda sulla incorporazione ed un gruppo che si fonda sulla affiliazione. Il primo veicolo di piacere/angoscia, il secondo veicolo di appagamento/dipendenza.

Nell’applicare i modelli allo studio concreto dei gruppi con scale di valutazione, sistemi di categorie, differenziale sematico, modelli sociometrici, questionari, analisi di contesto, storie di vita, etc., l’attribuire le corrispondenti emozioni di base consente di distinguere con semplicità la dimensione su cui si polarizza un gruppo. 

 

 

 

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