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I problemi legati allo Scrupolo, al conflitto e alla dipendenza rispetto al religioso nel Counseling Relazionale. (Particolarmente nell’ambito cristano-cattolico)

 

                                                                                                   

                                               José Ramón Pernía Morales

 

 

Nel presente lavoro vogliamo affrontare una tematica che è presente quando si parla del rapporto dell’uomo con la dimensione religiosa della propria vita, cioè del fatto che qualunque sia l’appartenenza religiosa di un soggetto egli si può presentare davanti a noi con problemi e disagi prodotti dalla tipologia che definisce il proprio rapporto con il religioso.

Questa linea di ricerca prende spunto dall’idea che i fenomeni religiosi si possono guardare a partire dalle forme private delle visioni del mondo derivate dalle strutture di personalità. Seguendo questa strada ci si deve inevitabilmente confrontare con l’analisi degli atteggiamenti: questi possono essere definiti perché obbediscono a criteri basati sulle possibili classificazioni del temperamento dell’uomo, delle sue emozioni, dei suoi sentimenti e della sua personalità (Thomas Luckmann [1963]).

V. Masini in una ricerca realizzata tra i pellegrini del giubileo ha individuato i personaggi che possono descrivere i diversi tipi di personalità-religiosità. Essi sono: il ritualista, il militante, il ricercatore, l’emozionale, il convenzionale, l’intimista e il devoto. L’A. ci ricorda un fatto sul quale faremo una particolare riflessione nella prima parte, e cioè che in ciascuna delle persone esiste un diverso grado di compresenza di tali atteggiamenti. Gia in precedenza Masini (Masini[2001]) ci ricordava che ciascuno vive tutte le diverse emozioni ma, per ciascuno, assumono un particolare risvolto, a seconda dello specifico vissuto che sta alla radice del suo modo di essere. L’uomo quindi è un essere complesso che si costituisce nell’interazione delle diverse componenti biologiche, psicologiche e sociali. Una visione che consideri in questo modo la realtà umana prende sempre più spazio nella riflessione e quindi nell’azione terapeutica.

Il nostro lavoro si svolge dunque in due fasi. La prima ci introduce nella discussione sulla necessità di approfondire una epistemologia di base che consideri la realtà come realtà relazionale e quindi che affronti l’uomo come realtà complessa e relazionale. Le teorie, le metodologie e sopratutto l’epistemologia alla base degli studi e delle proposte in molti ambiti dell’attività umana sono state contraddistinte da impostazioni di tipo settoriale che purtroppo hanno ridotto le possibilità di cogliere la sua complessità. Con l’arrivo e consolidamento del processo di globalizzazione diventa sempre meno sostenibile un discorso di tipo settoriale che non prenda in considerazione la multidimensionalità e la multifattorialità della vita e dall’azione umane. Così, a nostro modo di vedere, il processo di globalizzazione spinge al passaggio epistemologico e metodologico da una visione settoriale a una visione olistica della realtà.

Il Prof. Masini, nella sua proposta dell’Artigianato Educativo, sostiene che, se i dati di fatto  del comportamento altrui sono lasciati dispersi l’uno dopo l’altro, senza spiegazioni, non si può agire educativamente. Se vengono, però, considerati entro un quadro complessivo della persona emergono tipi e modelli le cui caratteristiche si sovrappongono e danno luogo alla singola e personale individualità. Egli propone un metodo pedagogico che quale processo educativo, si colloca nello spazio intermedio tra l’espressione e il riconoscimento dei vissuti emozionali e la loro strutturazione in sentimenti, evitando la formazione di copioni non coscientemente decisi dai soggetti (o invogliandolo alla trasformazione dei suoi copioni), attraverso una intelligente comprensione dei valori[1]. Secondo Masini l’individuo impara a autopercepirsi e a conoscersi attraverso l’esperienza delle emozioni di base. Tali emozioni sono esperimentate dall’individuo nella relazione con l’altro. È quindi nella, attraverso e a causa della relazione che la personalità si costruisce[2].

Questa impostazione non solo appartiene alla discussione filosofica, sociologica e psicologica, appartiene anche alla riflessione cristiana, anche se Essa, specialmente nell’ambito cattolico stenta a tradurre in azione pratica quanto afferma in dottrina.

A partire della precedente riflessione, la seconda fase si propone presentare una prima e parziale riflessione sul counseling religioso. L’uomo, essere relazionale, possiede in sé anche una dimensione religiosa. Essa rappresenta un lato importante perfino per coloro che fino a poco prima si dichiaravano estranei a tali faccende. Molto di più per chi nell’ambito della fede, specialmente per quanto riguarda il cattolicesimo, ci bazzica. Colui che ha un rapporto col religioso, come dicevamo prima a proposito dei pellegrini del giubileo, lo porta avanti sotto certe caratteristiche che possono essere raccolte nei  diversi tipi. Il vissuto religioso, però, come suggerisce lo stesso Masini, può mostrarsi con sentimenti equilibrati e maturi o scivolare in eccessi che purtroppo portano a disagi.

Nel nostro lavoro affronteremo tre particolari scivolamenti che portano ad altrettanti tipi di disagi, cioè quelli che provengono dallo scrupolo, dal conflitto e dalla dipendenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’uomo, essere relazionale.

 

Il fatto che si stia producendo una crescente interconnessione dell’attività umana ci impone sempre di più la necessità di una considerazione globale dell’essere umano, guardato sia come singolo individuo sia come intera umanità.

L’attività umana comprende ormai lo spazio fisico planetario e incide su tutte le aree. Essa, infatti raggiunge la economia, la politica, i fenomeni e movimenti sociali e culturali, compresi quelli religiosi[3]. Per designare questo fatto è diventato comune l’uso del termine globalizzazione, la quale potrebbe essere definita come il processo in virtù del quale si sta creando un’interconnessione, intreccio e interdipendenza economica, culturale, politica e giuridica tra tutti gli agenti sociali che costituiscono l’umanità (le persone e i popoli) e tra tutti gli spazi del pianeta[4].

Sostenere, allora, la necessità di una visione globale dell’essere umano, significa affermare che l’uomo è relazioni, nell’uomo c’è relazione e l’uomo si costruisce attraverso la relazione. Là dove parlare di relazione significa parlare di rapporti, di reciproca incidenza e influenza, di interconnessione e interdipendenza, di intreccio. Un ente è in relazione quando ha contatti, rapporti sia con uno o altri enti, ma prima di tutto con la complessità che lo costituisce. Detto in negativo, essere in relazione significa, non essere isolato assumendo per isolato quella metafora che offre la geografia quando si parla dell’isola cioè di quella realtà che nell’immensità dell’oceano rimane sola, senza collegamenti, contatti o rapporti[5].

L’uomo, dunque, per essere colto veramente, deve essere considerato nella sua integralità, cioè nella sua globalità, prendendo in considerazione le sue molteplici interconnessioni e sfaccettature, deve essere considerato da una visione olistica, cioè a partire della sua relazionalità.

 

La relazionalità nella ricerca sociale e psicologica

 

 

Secondo Donati la società può essere compresa solo se si riesce a pensarla come relazione. A suo avviso si sta producendo una crescente e complessa presa di coscienza del fatto che l’oggetto proprio della sociologia è la relazione sociale e che il suo metodo è l’analisi relazionale. Avere relazioni, metterle in atto, svilupparle è un bisogno dell’uomo, il suo modo di essere[6].

 

La relazione sociale è una realtà sui generis in quanto essa rispecchia un ordine proprio di realtà, con livelli interni. Non è il semplice derivato di qualcos’altro. Così come nel sistema di riferimento organico si assume che l’uomo non può esistere senza aria e senza cibo, pur non riducendosi né all’una né all’altro, nel sistema di riferimento sociale l’essere umano non può esistere senza relazioni con gli altri. Questa relazione è il “costitutivo” del suo poter essere persona, come lo sono l’aria e il cibo per il corpo. Sospendete la relazione con l’altro e avrete sospeso la relazione con il sé[7].

La realtà delle relazioni sociali può essere osservata a due livelli. A un primo livello, quando si osservano e analizzano le relazioni guardando a un fattore che scorre da A verso B e viceversa, nelle oscillazioni delle interazioni e scambi sociali[8]. A un secondo livello, quando si osservano le realtà e le logiche delle relazioni come tali; le entità concrete come i soggetti e i prodotti storici della società, incluse le istituzioni, entrano nelle relazioni in modo condizionante e condizionale. Le relazioni sociali hanno una loro consistenza, sono reali. Da un lato si concretizzano in forme, movimenti e istituzioni sociali, e dall’altro ne facciamo esperienza. La «relazionalità» esiste tanto a livello sociale come nelle interconnessioni fra gli altri livelli di realtà: biologico, etico, politico, economico, culturale[9]. Cheli, parlando della teoria olistica della comunicazione afferma che ogni individuo, essendo membri di un sistema relazionale a sua volta facente parte di altri sistemi sotto e sovraordinati, è un micromondo che comunica con altri micromondi all’interno di meso e macro mondi. Il micromondo corrisponde alla realtà intrapersonale, il mesomondo alla atmosfera relazionale, caratterizzata da regole, aspettative e cornici di senso che possono essere liberamente concordate dalle parti o derivare dai contesti istituzionali preesistenti (famiglia, scuola, ecc). E, infine, il macromondo corrisponde agli ambienti socioculturali in cui una persona tra due o più persone ha luogo[10].

Ogni ricerca in sociologia e in psicologia dovrebbe partire dal presupposto che il fenomeno oggetto di indagine nasce da un contesto relazionale, è immerso in un contesto relazionale e dà origine a un contesto o sistema relazionale. In sociologia la relazione sociale è quindi la chiave di accesso al soggetto e all’oggetto che vogliamo conoscere[11]. Il punto di partenza si coglie nell’assunto «all’inizio c’è la relazione», cioè «il processo sociale, con tutte le sue caratteristiche, procede per, con e attraverso relazioni»[12]. Una tale affermazione è valida sia per la realtà sociale che per la teoria sociale[13].

Considerare la relazione quale presupposizione generale prima significa assumere che la relazione ha una sua radice o una sua referenza non contingente nonostante si dispieghi nella contingenza[14]. Una tale assunzione offre la possibilità di sciogliere un’ambivalenza che ha percorso la cultura occidentale fino a oggi: l’ambivalenza persona/comunità o individuo/società.

Nella cultura classica l’individuo appare come sospeso: da un lato si dice che egli sta alla comunità come la parte al tutto; dall’altro che egli non appartiene completamente alla comunità. Con lo sviluppo della categoria relazione diventa chiaro che questa ambivalenza è strutturale: la persona umana cresce allo stesso tempo nella dipendenza e nell’autonomia rispetto alla comunità/società di appartenenza. L’individuo singolo è sempre più parte di essa, ma al tempo stesso la trascende e la sfugge. Per comprendere questa realtà bisogna allora abbandonare la metafora parte/tutto e al contempo quel positivismo che da sempre ha voluto fare dell’individuo un prodotto della società: precisamente la parte del tutto[15]. Le forme primarie di vita sociale, in quanto relazioni sociali, eccedono la società, la sorpassano, vanno oltre in quanto non sono mera contingenza. La famiglia, ad esempio, eccede la società in quanto è relazionalità piena secondo la propria distinzione direttrice, e non per il fatto di avere la massima densità comunicativa che si possa riscontrare fra tutte le forme interattive.

Dal punto di vista sociologico solo la relazione in se stessa è necessaria, mentre il modo del suo dispiegarsi riflette l’effettiva contingenza del mondo sociale, che è così, ma potrebbe anche essere diversamente. Lo potrebbe ma non lo è: se è così lo è perché la relazione, necessaria in se stessa, rende anche necessaria l’esigenza delle determinazioni, le particolarità storiche, le quali però in se stesse, oltre che nel nostro sistema di riferimento, sono contingenti.

Donati propone quindi di introdurre un nuovo paradigma: il paradigma di rete[16]. Già prima Luhmann aveva parlato di tre paradigmi di tipo sistemico: il paradigma parte/tutto, il paradigma sistema/ambiente e il paradigma dell’autopoiesi[17]. Donati, rifacendosi a Biegel, definisce la rete sociale come «l’insieme dei legami di un individuo con altri significativi (famiglia, amici, vicini e altri aiutanti informali)»[18]. Le funzioni sociali della rete sono molteplici, tanto di natura culturale che strutturale e funzionale. Dal punto di vista culturale, la rete conferisce il senso di identità sociale attraverso l’appartenenza con tutto ciò che essa significa e comporta sul piano esistenziale e di vita quotidiana; mentre dal punto di vista strutturale e funzionale, la rete fornisce aiuti e sostegni per far fronte a una gamma molto ampia di bisogni fisici, simbolici e materiali[19].

Le relazioni sociali sono caratterizzate da un’interazione avente il carattere di circolarità; circolarità che può essere assunta come continua compresenza e differenziazione di ciò che è formale e informale, comunitario e societario. Quando viene messa in essere, una relazione sociale è già nel circolo comunità-società e informale-formale. E in esso rimane interattivamente. Se dovesse uscire per la tangente diventando pura Gemeinschaft o pura Gesellschaft, darebbe origine a specifiche patologie. La società reale è circolarità delle sue relazioni, che sono sempre un mix di Gemeinschaft e Gesellschaft. Quando uno dei due tipi si fa puro si rischia di avere le problematiche sociali tipiche delle comunità totalmente chiuse o dei sistemi totalmente privi di dimensione comunitaria. Le innovazioni possono essere introdotte nella relazione sociale dall’interno: con l’irruzione dell’eccezionale o attraverso variabilità e deviazione che aumentano nel tempo, per esempio quando si generano processi di comunitas o movimenti carismatici; o dall’esterno, dall’ambiente della relazione, per esempio con l’introduzione di una nuova tecnologia[20]. La relazione sociale, unità sociale elementare, sta alla base di una circolarità Gemeinschaft-Gesellschaft in cui consiste la fisiologia della vita sociale[21].

«Da un punto di vista olistico-sistemico l’essere umano può essere considerato un sistema complesso»[22]. La complessità dell’essere umano è determinata dalla sua costituzione. L’uomo infatti, è costituito da molteplici dimensioni (corporea, emozionale, intellettuale, spirituale); da plurimi livelli di coscienza (sub-conscio, conscio, super-conscio, inconscio collettivo); da varie sub-personalità e da molteplici ruoli sociali e condizionamenti socioculturali. Ogni dimensione è ugualmente importante e solo da un armonico sviluppo di tutte deriva una migliore qualità della vita e un’esistenza più sana, gratificante e creativa[23].

I lavori del gruppo di Palo Alto, ispirati da Gregory Bateson, sulla schizofrenia e i nessi tra tale patologia e le interazioni comunicative disturbate tipiche delle famiglie dei pazienti, hanno consentito la affermazione dei concetti sistemico-cibernetici, anche se già prima Kurt Lewin, con la teoria del campo aveva tentato di introdurre lo studio del rapporto tra l’uomo e l’ambiente non in termini meccanici ma quale sistema globale dinamico che li comprende e li definisce come elementi necessari e qualificanti del campo. La famiglia, sulla base dell’idea di fondo di Bateson, inizia ad essere considerata come un sistema interattivo globale nel quale il comportamento di ciascun membro è influenzato da quello degli altri e viceversa. Questi spostamenti non solo hanno aiutato la trasformazione della comprensione delle malattie ma anche del loro trattamento[24].

         Secondo D. R. Kingma, «una relazione, qualsiasi forma abbia, è una configurazione di collegamento, è il contenitore in cui ci mescoliamo agli altri, in cui ci consideriamo in un certo modo accanto a loro»[25]. Secondo questa autrice «tutta la nostra esperienza dell’essere vivi si basa sulle relazioni: relazioniamo con noi stessi, con i genitori e con i figli, con la casa e il lavoro, con la natura, con la storia, i pianeti e le stelle, con il clima e i suoi effetti su di noi, con il cielo, con la musica, con l’arte, con la magia, con il nostro passato e con il nostro futuro, con la vita e la morte»[26].

Per Lei le relazioni, in modo particolare quelle interpersonali, possiedono alcune caratteristiche, che vale la pena mettere in evidenza.

-. Le relazioni cambiano continuamente, vale a dire, sono un processo biologico, non hanno nulla di rigido. Come ad ogni nuovo respiro si ispira e si espira, anche i collegamenti hanno un ritmo biologico. Come il respiro, come il muoversi delle maree e delle stagioni, le relazioni cambiano e si trasformano.

-. Le relazioni creano se stesse.  L’essere umano è continuamente impegnato a creare e ricreare se stesso attraverso le relazioni. Grazie ad esse si diventa se stessi; grazie al collegamento con gli altri l’uomo incontra se stesso.

Da un’altra parte, Kingma afferma che le relazione ci modificano continuamente e che tutto influisce su tutto il resto ed esiste in relazione al resto. Il mondo di energia e materia è un mondo di relazioni, ogni particella esiste e può identificarsi solo attraverso la sua relazione con le altre particelle. Si può vedere ciò che siamo grazie a quelli che ci stanno vicini.

-. Le relazioni sono ovunque. Per Kingma, infine, l’essere umano è costantemente modellato da molti tipi di incontri e rapporti. Sempre che entriamo in contatto o con altre persone o situazioni e incluso oggetti noi siamo influenzati e allo stesso tempo influenziamo quella persona o creatura o quella situazione.

Ch. Boiron dal canto suo, quando parla della felicità dell’uomo, riconosce che essa ha a che vedere con la politica, l’economia e perfino con l’ecologia. Essendo la felicità quella realtà cui l’essere umano tende da sempre, non può come paradossalmente è successo finora, continuare ad essere considerato un tema tabù. Da qui la necessità che nell’ordinamento e nell’azione politica si tenga conto della felicità sia nell’impostazione educativa che in quella della produzione e del consumo. L’azione politica riferita, quindi, alla scuola e al lavoro punta su obbiettivi nuovi e diversi quando parte dalla felicità quale criterio fondamentale[27].  

A. Di Fabio, nelle sue affermazioni, coincide con quella tradizione di pensiero che sostiene che l’uomo è un animale sociale. Secondo la sua opinione l’uomo realizza diverse forme relazionali e ha bisogno di associazione. Il processo di socializzazione si sostiene nei rapporti di relazione che l’uomo ha e tali rapporti si costruiscono sulla base della comunicazione[28]. Parlando della comunicazione, ma potremmo ampliare l’arco di riferimento a tutti gli altri aspetti della vita umana, Di Fabio, riconosce la necessità di vedere gli atti comunicativi nel loro contesto spazio-temporale e sociale[29].

La relazionalità  nel Cristianesimo

 

La dottrina della Trinità di Dio è l’elemento cristiano distintivo. La convinzione circa il Dio trino e salvatore costituisce il fondamento, la via e la meta di tutto ciò su cui il credente fonda la propria vita, ciò che considera nella riflessione e nella meditazione, ciò che testimonia all’esterno e realizza con la sua opera. Il cristiano, infatti, crede in Dio uno e trino, riconosce nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo l’identità concreta della vita del Dio creatore e salvatore degli uomini, e in lui è chiamato a cercare le ragioni che illuminano il suo agire[30]. Un agire che si distacchi da questa verità o la ignori non può essere considerato un agire cristiano; un approccio alla vita che non faccia riferimento alla fede trinitaria non può essere considerato cristiano[31].

La dottrina trinitaria cristiana permette una profonda comprensione della persona, sia nell’ambito divino che in quello creaturale[32]. Nella fede e nella teologia, sulla base della rivelazione storico-salvifica di Dio, si afferma che, da una parte, le differenziazioni personali in Dio si situano sul medesimo piano e hanno il medesimo peso della sua unità, anzi che le differenziazioni personali si identificano con l’essenza di Dio (relationes subsistentes sunt ipsa essentia divina). E dall’altra, che le Persone in Dio sono sia grandezze distinte e autonome e al tempo stesso dialogico-relazionali, che non possono venir pensate indipendentemente dalle altre, a cui sono in permanenza riferite. Questo significa che l’unico Dio è un complesso relazionale di tre distinte ipostasi personali (communio) cioè, che l’unico Dio possiede la propria essenza nello scambio vitale di tre Persone, e quindi che la realtà di Dio è caratterizzata da una ricchezza di rapporti.

Nei primi secoli del cristianesimo non è stato usato il termine communio per esprimere la realtà di Dio, ma i termini Pericoresi (dal greco) e circumincessio e circuminsessio (dal latino), intendendo affermare che Padre, Figlio e Spirito Santo sono talmente uniti tra di loro, da compenetrarsi e comprendersi totalmente, da non riservarsi nulla, ma da accogliere e offrire reciprocamente tutto ciò che essi sono in una perfecta comunicatio. Pur rimanendo distinte, le tre Persone della santissima Trinità sono l’una nell’altra, convivono sempre insieme[33].

Più di recente, per cogliere e esprimere concettualmente la realtà di Dio si ricorre all’idea della communio. Il concetto di communio è, al di là di tutte le polarizzazioni dell’individualismo e del collettivismo, il processo vitale di una reciproca mediazione della pluralità di persone autonome verso un’unità relazionale; oppure, considerando la cosa dall’altro polo, il processo vitale di un’unità che si realizza in una pluralità relazionale di persone distinte e autonome. La communio è, quindi, quella grandezza nella quale l’insieme e le sue parti sono dati di uguale origine, in quanto l’insieme (l’unità) si trova nelle singole parti differenziate e strettamente riferite l’una all’altra e le parti (le differenze) si compongono in un insieme.

Dire che Dio è unitrino significa, dunque, affermare in senso analogico  che Dio è communio: le tre Persone divine realizzano in un mutuo gioco trialogico di amore l’unica vita divina quale vicendevole auto-comunicazione. La communio, mediazione in un processo di unità e molteplicità, è la realtà originaria e indivisibile dell’unica vita divina. Essa porta in sé sia l’unità che la molteplicità, cioè i diversi momenti di attuazione di questo unico evento mutuo di relazione e comunicazione. Dio, creatore e fondamento di tutto l’essere, in quanto l’Unico contiene anche in maniera originaria la differenza e la pluralità, che poi nella pluriformità della creazione trova il suo prolungamento e la sua raffigurazione. Dio non è solo principio di unità della creazione ma anche della sua pluralità, non è solo sorgente e origine dell’omogeneità, ma anche della particolarità e della varietà. Da una parte la fede trinitaria ispira e stimola a considerare in modo positivo le differenze, la ricchezza di variazioni, l’alterità. Allo stesso tempo conferisce il primato alla dimensione relazionale e comunionale dell’uguaglianza e della partecipazione, oltre che alla reciproca connessione e completamento[34].

La dottrina cristiana insegna, in secondo luogo, che l’essere umano è creatura di Dio, ma non solo, insegna che l’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Secondo il cristianesimo quindi, l’uomo, ha come origine e come modello lo stesso Dio, il suo creatore. In questo senso acquisisce senso la dottrina cristiana che insegna che nel suo manifestarsi, Dio «ha rivelato l’uomo all’uomo»[35].

Secondo il cristianesimo l’uomo è l’unità del corpo, dell’anima e dello spirito, è l’essere che è in sé unico e trino. Quindi nell’uomo si rispecchia la realtà una e molteplice di Dio. Tale insegnamento suggerisce che un approccio relazionale - comunionale nell’affermazione e consolidamento di ciascuna delle dimensioni assicurerà la giusta formazione della personalità umana: La persona in cui si realizza l’armonia del corpo, l’anima e lo spirito, si può dire che è una persona perfetta, integra.

Si desume che agli occhi del cristiano, l’unità e la pluralità della creatura, il reciproco rapporto, interconnessione e interdipendenza con gli altri, insomma la relazionalità, costituisce simultaneamente un’immagine e una compartecipazione del divino. La persona umana si realizza dunque nella compenetrazione di identità e differenza, di unità e pluralità, nella relazione, in riferimento a se stessa e agli altri. L’unità si realizza nella pluralità relazionale, la pluralità delle persone rappresenta al tempo stesso nodi autonomi entro l’unità di un tessuto a rete indissolubile, momenti di attuazione di una realtà complessa e onnicomprensiva[36]. Il futuro dell’umanità, infatti, sarà veramente segnato o illuminato dal cristianesimo quando si realizzi pienamente l’unità nella diversità, cioè la comunione - pericoresi delle culture, delle nazioni e dei popoli, quale riflesso del Dio rivelato in Gesù Cristo[37].

  Da quanto detto risulta evidente come la ricerca sociale e psicologica si sia indirizzata già da un tempo verso una impostazione epistemologica e metodologica che parte da una considerazione relazionale/olistica dell’uomo. Il cristianesimo da parte sua, possiede un corpus dottrinale che mostra una realtà dell’uomo in contrasto con una certa pratica e insegnamento catechetico  che lascia il credente nella imbarazzante situazione di non saper come agire e sopratutto lo spinge verso la confusione. Guardando l’insegnamento cristiano ci troviamo con il fatto che sia la concezione di Dio, che dell’uomo, oltre che del mondo, portano a una valorizzazione della relazione e della visione olistica; ma, guardando la pratica e la morale trasmesse attraverso il catechismo ci troviamo, invece, di fronte ad un approfondimento pragmatico di molte delle premesse moderne, una tra tante, quella di considerare in forma meccanicistica e settoriale la vita del singolo soggetto e dell’insieme dei credenti. Nonostante questo alcuni altri papi degli ultimi decenni hanno preso atto, in diversi loro interventi, di un progressivo moltiplicarsi di rapporti nella convivenza con varie forme di vita e di attività associata, e istituzionalizzazione giuridica[38].  Questo processo viene considerato come la manifestazione di una profonda e universale aspirazione del genere umano a costruire una certa comunità universale e la certezza che gli uomini dipendono gli uni dagli altri[39]. Lo stesso Giovanni Paolo II ha messo in evidenza questo fatto quando afferma:

 

le Organizzazioni non governative, che rappresentano uno spettro molto ampio di interessi particolari, stanno diventando sempre più importanti nella vita internazionale. Forse uno dei risultati migliori della loro azione finora è la promozione della consapevolezza della necessità di passare da un atteggiamento di difesa e di promozione di interessi particolari e contrastanti a una visione olistica dello sviluppo. Ne è esempio il successo crescente nel creare nei paesi industrializzati una maggiore consapevolezza della loro responsabilità comune per i problemi che i paesi meno sviluppati si trovano ad affrontare[40].

 

 

Così come Giovanni Paolo II riconosce la necessità di una visione più completa quando si riferisce ai rapporti tra i diversi paesi, una visione che prenda in considerazione la interdipendenza tra le persone e tra i popoli, V. Masini lo afferma rispetto all’individuo. Nella sua analisi degli idealtipi tiene in considerazione le principali caratteristiche delle emozioni di base, inscritte in ciascun tipo, ma chiarisce che una personalità autentica e reale è sempre una «miscela» di elementi contenuti nei tipi ideali[41]. Dimensioni, livelli di coscienza, sub-personalità, ruoli, condizionamenti, idealtipi non spiegano, se considerati in forma isolata, la completezza di un uomo, ma per giungere a una comprensione che rispecchi la realtà dell’essere umano è necessario considerarli nei loro intrecci e nella loro interdipendenza.

Tanto dalle proposte socio-psicologiche come dall’insegnamento del Cristianesimo, si apprende che l’uomo è un essere in relazione, è un nodo, un miscuglio di relazioni e senza di esse non può diventare veramente umano. Da una parte, l’uomo trae origine, si costruisce e si realizza nel contesto delle relazioni. Da un’altra parte, ogni uomo è egli stesso un insieme di relazioni.

Le diversi «componenti» o dimensioni della vita di un uomo sono inscindibili e in stretta relazione l’una con l’altra. Cosicché possiamo affermare che l’essere umano, ogni uomo, è costituito da un nodo di relazioni con i suoi simili (rapporti di parentela, vicinato, cultura), con la natura (clima, urbana-rurale) e con la storia (ciascuno di noi è figlio del proprio tempo e della propria storia particolare), e troverà pienezza e realizzazione nella misura in cui impari a gestire sia le relazioni con i diversi aspetti di se stesso, sia le relazioni con gli altri suoi simili, con la natura e con la storia.

Quanto detto ci permette ora di affrontare la tematica relativa allo scrupolo, al conflitto e alla dipendenza rispetto al vissuto religioso. Le precedenti considerazioni sono lo sfondo sul quale si svolgerà quanto segue. Una considerazione unidirezionale o che ignori quello che è stato detto in precedenza sulla complessità e interdipendenza intrapersonale e interpersonale limita fortemente le possibilità euristiche della nostra riflessione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scrupolo, conflitto e dipendenza nel vissuto religioso.

 

Introduzione

 

Nella sua opera Dalle emozioni ai sentimenti, Masini (Masini, 2001) presenta i processi attraverso i quali i dati di fatto, cioè il modo con cui si presenta la persona al terapeuta o educatore, sono ricondotti a essenze. Tali essenze sono descritte attraverso alcuni tipi ideali che consentono di individuare i valori sui quali si farà leva per trasformare copioni di comportamento, gravitanti su alcune emozioni ricorrenti, in sentimenti stabili e complessi.

Masini ci ricorda, in linea con quanto discusso nella prima parte di questo lavoro, che la persona non può essere descritta riduttivamente a partire da una sua qualità o difetto, anche se purtroppo nel comune agire capita spesso. La persona è una realtà complessa quindi i dati di fatto devono essere ancorati ad un quadro complessivo per capire come costituiscano tipi e modelli con caratteristiche sovrapposte che danno luogo alla singola individualità.

L’A. insiste sul fatto che una singola emozione espressa non conduce ad un tratto costante di personalità, ma alcune costellazioni emozionali danno vita a copioni e altre si trasformano in sentimenti. Intendendo per sentimento quella disposizione stabile della persona nel mantenere un contatto con se stessa, con gli altri e con la realtà che la circonda.

Egli considera i copioni e i sentimenti come l’evoluzione delle emozioni. I copioni sono l’evoluzione di una emozione nel senso della ripetizione involontaria e abitudinale di una concatenazione di emozioni che si attiva in eventi esterni e/o interni. I sentimenti sono, invece, l’evolversi delle emozioni come cosciente gestione del comportamento, intenzionale, volontario e deciso sulla base di valori o disvalori.

Masini descrive sette tipi (avaro, ruminante, delirante, sballone/emozionale, apatico, invisibile, adesivo) corrispondenti alle sette emozioni di base[42] (paura, rabbia, distacco/sorpresa, piacere, quiete, vergogna, attaccamento) assunte come componenti fondamentali del sentire umano[43]. Il counselor può trovare in questa categorizzazione così come nella proposta educativo-trasformatrice connessa all’artigianato educativo, una via che le consente di cogliere empaticamente il vissuto del soggetto (oppure la famiglia, il gruppo o la classe) richiedente aiuto, via che gli permette di stabilire strategie, tattiche e tecniche di intervento e aiuto adeguate ed efficaci[44].

In una ricerca realizzata tra i pellegrini del giubileo del 2000 Masini ha individuato i personaggi che possono descrivere i diversi tipi di religiosità[45]. Essi sono: il ritualista, il militante, il ricercatore, l’emozionale, il convenzionale, l’intimista e il devoto. Alla base di questa categorizzazione si trova, in linea con quanto appena detto, l’ipotesi che all’interno di ogni religione esistono diverse forme di religiosità, derivate sia dalla cultura che dalle forme proposte dalle istituzioni religiose, ma scaturite dai modi umani di relazionarsi al divino e quindi che gli atteggiamenti dei credenti verso la religiosità possano essere ricostruiti a partire dai tratti umani fondamentali, presenti nella natura psicofisica degli uomini. Masini prospetta anche la possibilità di trovare spiegazione, su questa base, alla molteplicità e diversità sia delle religioni in generale sia all’interno di ciascuna di esse.

È importante ricordare la distinzione tra religione e religiosità assunta da Masini nel suo studio. Con religione dobbiamo allora intendere l’insieme delle verità che promanano da un Principio, immanente o naturale, trascendentale o soprannaturale, e che danno senso alla realtà dell’universo nel quale l’uomo nasce, vive e muore; mentre con religiosità dovremo intendere l’insieme dei moti interiori dell’io, correlati al Principio, che sono esternati in gesti di culto o in relazioni che l’io intesse con altri io per testimoniare la comune credenza[46].

Prima di addentrarci nella considerazione dello scrupolo, il conflitto e la dipendenza è pure necessario che riprendiamo i tipi religiosi, già accennati, proposti da Masini nello studio sui pellegrini del giubileo.

Con un salto forse fantasioso vorremo azzardare la proposta di assumere i tipi religiosi (o atteggiamenti verso la religiosità) del pellegrinaggio quali tipi religiosi atti a descrivere gli atteggiamenti che rivelano una essenza presente nelle persone in un modo più meno stabile, anche quando si trovano a svolgere le comuni attività al di fuori dello spazio del pellegrinaggio, come potrebbe essere per i cattolici eventi quali la domenica, il battesimo, la prima comunione, la cresima, il matrimonio o il funerale[47].

 

Le categorie di  religiosità

 

I personaggi individuati sono, quindi, il ritualista, il militante, il ricercatore, l’emozionale, il convenzionale, l’intimista e il devoto. In ogni personaggio si presenta un diverso grado di compresenza dei diversi atteggiamenti[48]. Vediamo ora l’essenza, cioè quella particolare miscela che determina in ogni individuo una qualità nel modo di essere che lo caratterizza[49].

 

Il ritualista.

 

Modello di valore: la responsabilità, struttura mentale: l’ordine e la legge, religiosità: propensione al rituale e la sacralità come cura conservatrice della ripetizione. Deus absconditus, Deus Sanctum.

 

Vive nel bisogno di definire, difendere, ordinare e gestire l’ordine della legge. Il ritualista è più portato all’applicazione della norma per cui interiorizza fortemente il valore della responsabilità, che si traduce nel bisogno di rendere stabili le acquisizioni ed i comportamenti più efficaci ed importanti per l’uomo. Il suo compito interiore è difendere le conquiste della religiosità e renderle chiare, ordinate, comprensibili e praticabili, sacralizzandole e istituzionalizzandole con tutti gli strumenti possibili. Vive la paura che le acquisizioni della coscienza possano essere perdute e le difende dai nemici, dalla corrosione, dal dubbio e cerca di renderle salde, certe, inequivocabili, razionali.

La religiosità ritualista si rivolge al Deus absconditus che ha dominato per secoli l’immaginario religioso con punti di contatto con la tradizione dualistica manichea (Dio non è onnipotente ma limitato dalla potenza del male). Il Dio giustiziere imprigiona il ritualista con la paura del Giudizio e lo conduce al senso di colpa, al bisogno di espiazione, ai rituali, al controllo di sé e degli altri.[50].

Il ritualista è un difensore della fede, conservatore, che vive il suo essere nel mondo con il senso razionale ed ordinato del dovere, incline al dogmatismo come necessità di preservare la verità anche quando essa è difficile da spiegare.

Per il ritualista il cambiamento è sempre problematico ed è diffidente rispetto ai cambiamenti. Egli ha fame e sete di giustizia nelle piccole e grandi questioni della vita. Il senso della responsabilità conduce il ritualista a farsi carico dei problemi ed a manifestare un grande bisogno di giustizia.

L’ambivalenza del ritualista sta nell’accettare il suo bisogno di giustizia, senza perdersi nella paura e nell’ansia del controllo e considerarlo un bisogno, tra i tanti della condizione umana, oppure sentirlo come un imperativo categorico a cui obbedire per partito preso, per missione o dovere.

La religiosità è imprescindibile dalla ritualità, pur se essa può essere ambivalente: è infatti fondamento e conferma della fede, sostiene nei momenti di incertezza ed impedisce le regressioni verso stadi più primitivi, dubbiosi, evanescenti della condivisa conquista del rapporto con Dio. Ma può anche essere totalizzante, inclusiva per pochi ed esclusiva per molti, priva di senso del limite, di innovazione, di ricerca e di evoluzione verso altri stadi, più complessi e maturi, della conquista di religiosità da parte dell’uomo. Questa condizione è specificamente presente quando religione e cultura si fondono e diventano identità “definita anche dalle sue manifestazioni del “sacro” e del rito”, garantisce una appartenenza ad un gruppo preciso, etnico, nazionale, sociale, che fornisce in cambio una certa stabilità sociale, uno statuto, una visione del mondo, una maniera di pensare, in breve, come si è detto, una cultura, ma che può caratterizzare quello che alcuni definiscono “nuovo tribalismo” per indicare il riemergere dei localismi, delle identità di gruppo etniche e, più in generale, un nuovo rapporto tra territorialità della religione e identità”[51].

 

Il militante

Modello di valore: L’impegno e l’azione, struttura mentale: costruire e difendere dai predatori, religiosità: propensione alla combattività come mezzo per costruire e per difendere. Deus iustus

 

La persecuzione, agita e subita, è l’aspetto più inquietante della espressione della religiosità: l’uomo che agisce volendo realizzare la giustizia nell’ordine delle cose, spesso perseguita o viene perseguitato per il suo impegno.

Il militante è colui che è spinto a dare il massimo dell’impegno, che è energia, spesso nella forma dell’ardore applicato alla trasformazione del mondo.

Il militante non è contemplativo, non è convenzionale, non si ferma di fronte alle difficoltà. Tira dritto verso la sua impresa senza lasciarsi distogliere da dubbi e incertezze. Costruisce e difende le sue costruzioni dai predatori, dai mistificatori e dai falsificatori. Nel suo costruire si sente perseguitato perché, in solitudine di fronte ad una impresa, non può opporre, di fronte alle critiche ed alle squalifiche, nessuna altra certezza che la dottrina. Non riesce a capire perché gli altri non capiscono.

Il militante è un membro attivo, un combattente, un estremista, un crociato, un fondamentalista. Attraverso il suo impegno si realizza e, fino a quando è orientato nelle realizzazione delle opere e della loro contingente concretezza, riesce a dare il meglio di sé ed a realizzare imprese eccezionali.

Quando il suo impegno incontra ostacoli diventa pericoloso perché scivola sul piano della lotta, dottrinale, logica, oppositiva, armata. Il militante è dimentico dell’amore poiché la sua dottrina esalta l’azione.

Diventa autoreferenziale ed abbandona la principale proprietà della ricerca religiosa: il senso del limite. Egli ha bisogno di scoprire entro sé l’orientamento della sua energia, altrimenti diventa del tutto simile a ciò che combatte. Sul piano psicologico gli esiti pericolosi sono quelli del paranoico o del depresso: deve trovare a tutti i costi dei nemici o finisce per rivolgere l’aggressività verso se stesso.

Tutte le religioni hanno militanti: se orientati dalla scoperta dentro di sé del loro senso del limite ed impegnati a implementare nella realtà i valori, attraverso la costruzione di opere, diventano indispensabili costruttori del futuro dell’umanità; se sono confermati dal gruppo a cui appartengono nel loro bisogno di sentirsi eroi, diventano pericolosi distruttori della pace e della convivenza. Invece di costruire il futuro verso il quale si sentono chiamati, inducono lo sviluppo umano verso la regressione.

 

 

Il ricercatore.

Modello di valore: fede conosciuta e valutata, struttura mentale: ragionamento, religiosità: ogni aspetto della fede ha bisogno di conoscenza e di studio. Mystrium Pulcrum

 

È rappresentabile sociologicamente nella categoria del “conoscitivo”. Egli vuole sapere la verità. Questo desiderio lo spinge verso il nuovo, lo sconosciuto, con un approccio a metà tra il mistico e lo scienziato.

La motivazione culturale di ricerca ha, in sé, il senso della promessa che sarà esaudita: tutte le contraddizioni dell’esistente saranno ridotte e la beatitudine del ricercatore sarà giungere all’esito[52]. Se la sua fatica mentale, di analisi, di ricerca e di azione sarà svolta con onestà, franchezza, pulizia interiore e purezza di cuore, allora, addirittura, vedrà Dio. È questa la promessa che ogni sincero ricercatore sente dentro di sé.

La ricerca di verità può diventare estenuante giacché rende costantemente divergente il pensiero; in questo processo c’è il rischio della contaminazione giacché nulla della certezza di conoscenza è consolidato. Tutto può sempre essere messo in discussione, anche le acquisizioni più semplici e banali.

Il ricercatore, elevato alle altezze eteree della comprensione, perde di vista la semplicità della vita quotidiana e il suo sapere è una lama a doppio taglio[53]. L’aspirazione umana alla conoscenza ed alla verità, senza logica e verifica del senso del percorso, può giungere a contaminarsi perdendo la purezza dell’intenzione del suo cuore.

Il ricercatore ha in sé questa complessa ambivalenza: partecipa all’esperienza della fede ma, al contempo, la studia e la valuta. Fin qui esprime una saggia sintesi ma il suo passo successivo è un ulteriore distacco: l’esperienza vissuta diventa solo il pretesto per il suo ragionamento e il ragionamento spegne la sua attività quando la tentazione di seguire “l’idea che spiega il significato” è prevalente.

Nel suo orizzonte mentale ha rilevanza solo l’insieme di dati percettivi raccolti ed egli oscilla tra la costruzione di una visione totalizzante e l’angoscia del relativismo, sempre dietro l’angolo, inquietante e gravida di qualche possibile parto nichilista. Egli ha bisogno di calarsi nella concretezza della vita giacché la verità pura è accecante ed abbagliante e, se non diventa passo passo realtà della vita quotidiana, diventa superbia e perdita di sé. “Questi soggetti si ritengono religiosi ma non attivi, riconoscono l’importanza e la funzione della religione senza però che costituisca un elemento vincolante per la propria vita…sono reduci da una crisi religiosa o la stanno vivendo”.

Questo approdo è conseguenza della luce abbagliante di una verità solo mentale e non esistenziale. L’esperienza di questa religiosità è spesso drammatica poiché, ove il “ricercatore” perseveri nel suo “chiamarsi fuori” dalla realtà, può rischiare di perdersi nel nulla.

 

L’emozionale

Modello di valore: entrare in contatto e generosità, struttura mentale: fare esperienza, religiosità: desiderio di vissuti intensi e coinvolgenti che conducano alla fusione (misticismo). Mysterium tremendum

 

Egli è, per antonomasia, il turista della fede. Gli eventi della fede sono per l’emozionale un’occasione e possibilità di modificare il ritmo della vita quotidiana e di essere, e sentirsi, diversi.

La religiosità dell’emozionale è centrata sulla esperienza delle emozioni. All’emozionale la visita ai luoghi sacri, o il contatto con persone o fatti particolarmente importanti come reliquie o basiliche o catacombe, provoca un caleidoscopio di sensazioni, impressioni emozioni. Per lui la contemplazione della bellezza è un anelito interiore, innalzamento spirituale, arricchimento culturale. Siamo su un punto di confine tra l’atteggiamento esperienziale e turistico e quello penitenziale[54].

In questo modello idealtipico “emozionale” è contenuto il motore dell’emozione di base della “fusionalità del piacere”, intesa, come già detto, nel senso di un movimento desiderante verso vissuti intensi e coinvolgenti e di nostalgia nell’allontanamento da tali vissuti. Il desiderio di piacere non è “possedere” il piacere ma farne esperienza (essere posseduti dal piacere) in modo totalizzante.

Il termine fusione è efficace per esprimere l’abbandono alla sensazione di piacere per lasciarsi coinvolgere in esso con una perdita di confini.[55] Il tema è difficile poiché, nel riferimento al piacere, si costeggia il modello di piacere più intenso che possa essere sperimentato sul piano psicobiologico, e cioè il piacere sessuale, la cui intensità è seconda sola all’estasi mistica. In ambedue, nel piacere mistico e in quello sessuale, v’è fusionalità ed esaltazione, tanto da farli sembrare simili o, almeno, rassomiglianti; chi è orientato in modo critico verso la religiosità sottolinea frequentemente tale rassomiglianza.

La letteratura psicoanalitica ed antropologica[56] sull’argomento è nota, al punto da aver costruito una specifica cultura “diffidente” verso l’esperienza del misticismo con un processo di inibizione e di distanziamento che, per l’effetto paradossale della secolarizzazione contemporanea, lo rende ancor più desiderabile. Non è un caso che l’inibizione attuale nelle religioni rivelate[57] (che contemplano un "fondersi" solo relativo e, in un certo senso metaforico, con Dio) abbia condotto allo scivolamento verso il misticismo New Age, che mescola diversi tipi e piani dell’esperienza emozionale con l’esperienza mistica, senza tener conto della fondamentale distinzione ontologica uomo-Dio.

Le persona con una religiosità emozionali sono coloro che provano maggiore pena, tristezza, sconforto, compassione, alla vista della presenza dei poveri e del dolore. Esposta al desiderio e al rischio di contaminazione, la religiosità emozionale è anche, contemporaneamente, esposta alla forte percezione del dolore altrui ed al moto interiore di generosità

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Il convenzionale

Modello di valore:portatore di pace, struttura mentale: contatto e possesso di se, religiosità: pacifica e intima esperienza del sacro. Deus pacem

 

In questo tipo di religiosità troviamo soggetti con una religiosità «passiva e indifferente» ma non mancano i critici nei confronti della Chiesa. L’esito è un sostanziale disimpegno che si traduce in assenza di militanza[58]. Può essere chiamato il credente secolare, cioè l’individualista e secolarizzato che non aderisce pienamente alla religione di appartenenza e che si identifica parzialmente nei valori religiosi, avendo inoltre una pratica saltuaria e occasionale[59].

La prima connotazione di questa tipologia è il disimpegno ma da una osservazione attenta si può intravedere un atteggiamento coscienziale-ecclesiale. Se, infatti, osserviamo più in profondità il significato di “convenzionale”, purificandolo dalla nota di biasimo che normalmente tale espressione contiene (con i connotati di passività, artificiosità, mancanza di originalità e naturalezza), si perviene ad un concetto di pacifica esperienza di religiosità mistica.

Per tal forma di religiosità i valori non sono da ricercare nel mondo della relazione intersoggettiva, nella cultura e nella storia (pur essendo quelli i luoghi in cui si esprimono) ma nell’intimo dell’uomo. Così facendo l’uomo trova in se stesso l’essenza che possiede il massimo di significato: il contatto e il possesso della sua anima.

Tale convenzionalità appare così in un’altra luce, come ricerca di quiete. In questa tipologia del convenzionale è più significativa che altrove l’ambivalenza, che, peraltro, rende evidente il problema della avalutatività di una indagine sulla religiosità[60]. Si osservino i diversi poli dell’ambivalenza: il vissuto del convenzionale può derivare dal bisogno di rimuovere problemi della vita quotidiana e scivolare in una sorta di oblio facendosi trasportare dal flusso della folla e dal trascorrere del tempo. Oppure essere espressione di una consapevolezza pacifica e tollerante nel contatto con il mondo e manifestarsi come un processo di incantamento e contemplazione.

Si può diventare convenzionali apatici a seguito di lutti, abbandoni o dolori, oppure quando non si siano ricevuti sufficienti stimoli e spinte alla motivazione o quando le azioni, o i propositi, o gli impegni assunti siano stati ripetutamente squalificati; l’apatico si avvolge nei suoi pensieri e fantastica di compiere le azioni che dovrebbe fare nella realtà.

Il convenzionale contemplativo si manifesta, invece, con la dote di essere un portatore di pace. La sua capacità di fare calma, di non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni e dai conflitti, lo rende in grado di spegnere le tensioni e raggiungere la pace interiore. Il saggio capace di quiete e contemplazione è un soggetto estremamente vivo ed attivo dentro di sé; il suo rapporto con il mondo è di partecipazione ottimistica e amorosa. In tal caso ha una grande capacità di coscienza e riesce a rimanere, senza drammi, crisi e criticismi, all’interno della dimensione ecclesiale, conoscendone ed accettandone i limiti in ragione del contatto profondo con la sua personale umanità.

Il significato che assume la accettazione della personale umanità è proprio quello di questa figliolanza che sa accettare l’etica dell’alterità, e cioè la fratellanza con l’altro[61].

Nel tipo convenzionale l’ambivalenza è radicale perché gravita intorno al problema se quel soggetto “convenzionale” sia spiritualmente vivo o morto.

 

L’intimista

Modello di valore: la ricchezza spirituale ripaga le sofferenze struttura mentale: ricerca del sacro nel silenzio e la solitudine, religiosità: esperienza dell’immensità di Dio e del creato e della difficoltà della vita. Deus dolens

 

L’intimista avverte una Presenza superiore ed è il più incline al processo penitenziale, al sacrificio ed alla purificazione. Il bisogno di purificazione è espresso nel ricorso alla confessione dei peccati[62].

Il modello dell’incontro con Dio dell’intimista è nel silenzio, nella solitudine e nel dolore. Secodo la visione dell’intimista l’uomo si trova di fronte all’immensità del creato e alla difficoltà della vita, si trova disperatamente solo di fronte alle potenze esteriori.

Quando la solitudine non viene riempita dalla divinità, si trasforma nell’esperienza del vuoto, in disperazione, appunto in loneliness.

La solitudine è l’esperienza dell’uomo inserito nel cosmo sacralizzato, mentre l’esperienza della loneliness è quella dell’uomo disperatamente solo nel mondo, disperso ed errante nella foresta dei simboli[63].

La distinzione tra solitudine e loneliness è centrale per comprendere l’ambivalenza dell’intimista nel suo modo psicologico o spirituale di affrontare la sofferenza[64].  è che la ricchezza spirituale (tuttavia sei ricco!) ripaga le sofferenze e conduce al di là della sofferenza e del sacrificio.

L’intimista percorre le tappe dell’analisi del sé, della sofferenza interiore, conosce e pratica il dolore del sacrificio di sé (in qualsivoglia chiave possa intendersi il sacrificio[65]) per comprendere il senso del dolore. L’intimista è colui che percorre la strada della ricerca del significato del dolore e se ne appropria mediante il sacrificio. Per l’intimista il dolore è originario poiché risale alla primaria vergogna di esistere di fronte all’onnipotenza di Dio: tutti i passaggi intermedi sono tappe. La sensibilità accentua il dolore, il dolore accettato è sacrificio, il sacrificio è innalzamento, l’innalzamento è vacuità, la vacuità è vergogna. Il dolore primario è dunque percezione della propria esistenza, ed esistenzialità, sentita come inutile: imbarazzo, pudore, inibizione si accompagnano alla sensazione di sentirsi “gettato nel mondo”, nudo, disarmato e vulnerabile, senza scorza e senza maschere, pronto e disposto a ricevere gli urti dell’esistenza in modo come colpi, laceranti.

L’intimista ha grande capacità di sopportazione del dolore, egli ne è permeabile e si lascia trapassare per le basse difese e per la scarsa consistenza del sé[66]. Valuta talmente poco se stesso che non attribuisce grande importanza nemmeno al dolore acuto, da cui si lascia trafiggere senza rifiutarlo, evitando così la metabolizzazione del dolore in sofferenza continua e sfibrante.

In questo passaggio si può osservare la profondità della possibile ambivalenza dell’intimista: bersaglio del dolore in ragione del senso di inutilità della sua esistenza (e dunque masochista che gode della propria condizione psicologica di eterno penitente) oppure asceta che accetta spiritualmente il dolore e lo supera. In questa visione egli possiede il valore dell’umiltà: è parte della terra, del dolore, delle difficoltà, della fatica che regge nonostante (o in ragione di) una sensibilità sensitiva.

 

Il devoto

Modello di valore: stare insieme, fedeltà e appartenenza  struttura mentale: ricerca dell’unità come frutto del riconoscimento dell’interdipendenza, religiosità: Ricerca dell’unione con Dio e con i fratelli ad ogni costo. Deus Unus - Deus Unitatis, Deus Concordiae

 

Il devoto cerca l’attaccamento, che si trasforma in appartenenza al gruppo per rispondere ad esigenze affettive ed ottenere la grazia della vicinanza e della prossimità agli altri, alla comunità ed a Dio. Il continuo bisogno di attaccamento deriva dalla rottura di questa grazia a seguito della separazione o della perdita (o della deprivazione) e si manifesta nella dipendenza.

Il devoto per attaccamento si fa oggetto di se stesso e sente, come conseguenza, che, se non è unito con qualcuno, il suo sé è un involucro vuoto senza valore. Spesso disloca l’attaccamento verso oggetti “sacri” (dagli ex voto ai più comuni souvenirs) per naturale conseguenza del bisogno di attenzione: per lui sono vivi, li anima, dialoga con loro e li considera una estensione del sé. Il devoto è condiscendente, accetta ordini e proposte, non cerca di far prevalere la sua opinione purché vi sia accordo tra le persone e non avvenga nessuna separazione o allontanamento.

Il devoto si lascia facilmente trascinare in attività o eventi a motivo dell’appartenenza ad un gruppo famigliare, parentale o amicale. Per loro le spinte motivazionali possono essere rintracciate nel desiderio di stare insieme[67].

La sua proiezione verso gli altri lo rende riconoscibile per la sua dedizione agli altri. Altre due sue caratteristiche sono l'imitazione e la sottomissione. Egli imita le persone o i personaggi da cui si sente attratto e si sottomette loro per condiscendenza.

“Le appartenenze possono essere soffocanti, abolendo la differenza e la creatività dei membri non disponibili alla conformità. L’appartenenza diventa un luogo chiuso che divide “noi” da “loro”. Le identità di gruppo sono profondamente ambivalenti: sono tanto rifugi di appartenenza quanto ricettacoli di aggressività, sono tanto soffocanti recinti quanto basi di un potere di liberazione” [De Vita R., 2001: 41]. Il processo sociale in corso di neocomunitarismo religioso si caratterizza sovente con questi fenomeni di inclusività caratteristici delle sette[68].

La religiosità del devoto diventa invece un volo libero se il suo bisogno di essere oggetto di attenzione è saziato. L’attenzione, che è la forma più elementare dell’amore, sazia il suo bisogno di attaccamento e lo rende non più petulante, ma affettuoso, sensibile, affezionato e premuroso.

Il devoto praticante diventa allora il cardine della comunità: la sua grande capacità di coltivare relazioni, ricordarsi gli anniversari, farà sentire la sua presenza con continuità alle persone vedendolo sempre presente nelle situazioni difficili come persona su cui si può contare. Per questo sa tenere insieme persone molto differenti tra di loro accontentando i loro gusti e preferenze, in ragione della sua capacità di individuare le diverse modulazioni della propensione all’attaccamento presenti in ciascuno. Sa stare nei gruppi ed è in grado di mantenerli compatti; è un ottimo gregario perché ciò che maggiormente gli interessa è il successo di tutti, dell’insieme, del gruppo e non il suo personale.

La fedeltà che impersonifica non è ritualismo meccanico ma il modello di amore agape: amore fedele che si sviluppa nell'amore fraterno e nell'amore per il prossimo a cui l'uomo può pervenire attraverso la fiducia e la fede. Solo colui che è fedele a se stesso può essere fedele agli altri. Tale fedeltà innesca sia il processo dell'unione che quello della fiducia, virtù fortemente interconnesse tra di loro, che producono tre importanti conferme: la conferma dell'identità personale di ogni essere, la conferma dell'originalità di ogni tipo spirituale e la conferma del senso dell'amore di Dio per ciascuna delle sue creature.

L'appartenenza è esclusiva e tiepida, l'unione è inclusiva ed accogliente. L'appartenenza è settaria, l'unione è tollerante. L'appartenenza è un vincolo idealistico, l'unione è oggettivata nelle persone a cui si è legati. È il sentimento dell'unione che contribuisce allo sviluppo della fiducia e della fede[69].

 

         La dimensione religiosa di un soggetto raggiunge uno stadio di equilibrio in cui ognuna di queste modalità di vissuto è presente e bilanciata dalla presenza delle altre. Come proposto dall’artigianato educativo il punto d’arrivo verso il quale deve tendere il rapporto di aiuto è quello di mettere il soggetto nella condizione di viverle in equilibrio. Tale equilibrio non si trova, però, nella cancellazione di un determinato vissuto emotivo di base ma nel rafforzamento della presenza degli altri, fino a quando in un movimento circolare ogni essenza emotiva diventa fonte di equilibrio delle altre. In molti casi questo bilanciamento non è presente per cui abbiamo i disaggi. Vorremmo in seguito affrontare tre loro particolari manifestazioni che a nostro avviso si presentano non di rado nel servizio di counseling.

Il disagio

 

Bisogna ricordare per primo che ogni persona manifesta una particolare tendenza nel vivere emozioni e sentimenti religiosi, ma nell’esperienza di ciascuno sono presenti tutte. Per ciascuno assumono un particolare risvolto, secondo lo specifico vissuto che sta alla radice del proprio modo di essere. I tipi che sono stati presentati in precedenza non sono presenti in modo puro in ciascuno di noi ma come succede con i nostri vissuti di base possono essere diventati copioni che ci hanno cristallizzati su alcune limitate modalità di sentire, di pensare e di agire[70].

Una secondo aspetto che bisogna tener presente e che già stato accennato quando si descrivevano i tipi di religiosità è quello riferito al fatto che ciascun tipo presenta una ambivalenza, cioè si muove tra due estremi dinamici che dovrebbero trovare un punto di equilibrio. Se gli idealtipi alla base di questa proposta sono quelli dell’avaro, il ruminante, il delirante, lo sballone, l’apatico, l’invisibile e l’adesivo, si può desumere, tenendo presenti le caratteristiche di questi idealtipi, che ognuno si può rappresentare in un continuum che va dalle risorse al disaggio nella misura in cui le caratteristiche all’interno di ogni idealtipo si strutturano con o senza equilibrio. Ognuno degli eccessi che fanno scivolare verso il disaggio così che possiamo domandarci: Qual è il punto in cui la ritualità impedisce di pervenire a stadi contemplativi del vissuto religioso? Dove finisce l’ardore e dove comincia il fanatismo? Qual’è il punto di non ritorno del dubbio metodico ma creativo e inizia il relativismo nichilista? Dove la tranquillità e la serenità confinano con l’apatia e il disimpegno? Quando l’etica del sacrificio si trasforma in rassegnazione autodistruttiva? Dove finisce la devozione e comincia la dipendenza?

Queste domande ci indicano che il vissuto religioso può mostrarsi con sentimenti equilibrati e maturi o scivolare in eccessi. I tipi di religiosità descriti sopra possono allora scivolare verso forme di vissuto caratterizzati di manicheismo, intolleranza, individualismo, fanatismo, chiusura, autoreferenzialità, integralismo. Non risulta però molto chiara la proposta di Masini. Nello studio tra i pellegrini del giubileo egli propone una seconda possibilità di interpretazione dello scivolamento. Così teniamo che il Ritualista può scivolare verso il dottrinale, il Militante verso il depresso, il Ricercatore verso il critico relativistico, l’Emozionale verso il turista disimpegnato, il Convenzionale verso l’automa dell’assoluzione  (senza partecipazione della volontà) (tradizionalista), l’Intimista verso colui che si annulla nel sacrificio, il Devoto verso il dipendente.

 

Scrupolo

 

Il termine scrupolo proviene del latino scrupulus (sassolino) che indica la sollecitudine viva o ansiosa per il pieno adempimento di un dovere. Chi ha scrupoli manifesta una inquietudine e un dubbio che pungono la propria coscienza davanti al fatto se una cosa, (una esperienza, un evento) è certa o meno, è buona o cattiva, se obbliga o non obbliga. L’immagine che rende l’idea dello scrupolo sarebbe quella del piccolo sasso che entrando nella scarpa toglie la serenità a chi cammina e non gli permette di continuare l’andatura perchè è di fastidio al piede. La persona scrupolosa si muove dunque tra esattezza, rispetto, onestà da una parte e paralisi e rigidità da una altra, apparendo qualche volta addirittura come esagerato e puerile.

In termini della teologia cattolica lo scrupolo viene considerato una aberrazione e definito come un timore abituale, infondato e apparentemente insuperabile di aver commesso o di star per commettere un peccato grave.

Nella teologia morale si distingue tra un caso particolare in cui il credente vede un peccato là dove non esiste, un altro dove il credente a volte vede il peccato dove non c’è, ed il caso di uno stato di animo generalmente soggetto a scrupoli. Nel primo caso si può parlare di coscienza erronea, nel secondo di coscienza timorata e nel terzo, invece, di forma patologica della coscienza morale osservabile frequentemente nelle persone che possiedono uno sviluppo abnorme del sentimento di colpevolezza.

Lo scrupoloso è generalmente una persona ossessiva che nel suo bisogno insaziabile di perfezione, non sa distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario. Lo scrupoloso può temere di aver peccato per azioni che normalmente gli altri considerano normali. Lo scrupoloso può anche essere colui che non è mai soddisfatto del proprio esame di coscienza e non sentendosi liberato dal peso della colpa, si sente portato continuamente a ripetere sacramenti/rituali come quello della riconciliazione (non si fida fino in fondo di essere stato veramente perdonato o di aver adempiuto sollecitamente i requisiti rituali e spirituali che gli darebbero il perdono e la libertà). Lo scrupoloso è colui che viene paralizzato dall’ansietà quando deve prendere una decisione, o che potrebbe sentire una coercizione interiore, una fascinazione di fronte a certi atti (bestemmia, dubbi di fede, atti sessuali fuori del comune) la cui sola presenza lo fa sentire in colpa. Può accadere che una persona sia estremamente scrupolosa in un campo o totalmente negligente o noncurante in un altro settore della propria vita.

 

Dal punto di vista dei tipi di religiosità che abbiamo considerato a partire dello studio sui pellegrini del giubileo, il ritualista potrebbe essere una persona che sotto certe circostanze potrebbe scivolare verso un atteggiamento di tipo scrupoloso. Ricordiamo che il ritualista è caratterizzato da una struttura mentale che lo spinge verso l’ordine e la legge, per cui possiede un modello di valore caratterizzato dalla responsabilità e quindi vive l’aspetto religioso della propria vita con una particolare propensione all’ansia per il rispetto e la conservazione dei riti e della sacralità. Il ritualista  che scivola verso atteggiamenti scrupolosi non solo rinuncia all’esercizio della propria libertà ma rende la vita difficile a chi gli sta intorno perchè per realizzare lo scopo dell’ordine e dell’accurato compimento dei rituali e delle norme finisce per affogare la spontaneità. Non è raro trovare questo tipo di persone nelle parrocchie: si confessano in continuazione, trovando sempre il modo per continuare a sentirsi in colpa. Non è raro trovare che i sacrestani di molte delle nostre parrocchie possiedano una certa tendenza scrupolosa. A volte vengono da noi giudicati come quelli che rompono le scatole per la forma dimenticandosi del contenuto.

Uno scrupoloso evoluto diventa, però, quella persona su cui si può fare fiducia per cose riguardanti l’organizzazione, l’ordine e il decoro. L’accuratezza e l’attenzione che lo caratterizzano gli permettono di svolgere lavori in cui è necessaria la precisione e la puntualità.

Essendo essenzialmente segnato dalla paura, il ritualista/scrupoloso ha bisogno di essere aiutato a bilanciare una sua presenza eccessiva attraverso il potenziamento di vissuti di quiete e di piacere.

         Da una altra parte è noto che colui che si converte, qualunque sia stato il vissuto religioso precedente (appartenenza senza impegno ne pratica, non appartenenza né confessione, diversa confessione e diversa pratica) non di rado viene definito bacchettone in quanto che cerca di conoscere, capire e praticare le regole e i rituali della nuova confessione spingendolo non poche volte alla prigionia della scrupolosità. Una persona così descritta potrebbe rientrare nel tipo di vissuto religioso denominato Ricercatore.

Il ricercatore possiede grande accutezza di ingegno, cerca di ragionare, di capire causa ed effetti delle cose. Volendo conoscere e valutare in profondità la propria fede può arrivare perfino a rinunciare a una precedente appartenenza per impegnarsi in nuove strade. Questo spiega per quale motivo ogni aspetto della fede ha bisogno di essere studiato e conosciuto.

L’esperienza della bellezza del Mistero lo spinge a ricercarlo, a studiarlo, a capirlo, per cui non è strano che possa scivolare verso atteggiamenti di paralisi a causa dei dubbi sulla cattiveria o la bontà dei pensieri o delle azioni che compie o sta per compiere. Potrebbe condurlo all’estasi della esperienza mistica ma potrebbero incatenarlo in una serie infinite di prove e riprove che lo conducono a perdersi.

Il ricercatore/scrupoloso potrebbe anche alternare momenti di scrupolosità con momenti di negligenza e noncuranza. Da una parte potrebbe portarlo ad una grande sofferenza come descritta precedentemente rispetto al fascino/terrore del peccato, ma potrebbe anche aiutarlo a sviluppare a guardare la realtà con occhi diversi, aprendo possibilità a nuove interpretazioni e forme del vissuto religioso.

L’intimista è un’altro personaggio che sotto certe circostanze potrebbe scivolare verso atteggiamenti di tipo scrupoloso. Ricordiamo che l’intimista assume che la ricchezza spirituale ripaga le sofferenze, per cui potrebbe darsi il caso in cui una persona con tendenza a vivere la religiosità con le caratteristiche dell’intimista, ritornato alla pratica religiosa dopo essersi allontanato in passato non si senta mai all’altezza, non si senta degno del perdono divino per gli errori del passato e scivoli verso ripetizione accurata e ansiosa di sacramenti/rituali nella disperata ricerca di sentirsi, non riuscendoci mai  perché diffidante di se stesso, dei ministri, della correttezza del rituale, della sua dinamica, delle condizioni in cui è stato svolto.

L’intimista/scrupoloso potrebbe scivolare verso vissuti sado-masochisti il suo rapporto con il religioso. Anche lui potrebbe vivere con terrore e fascino certe situazioni devianti (peccato).

L’intimista possiede però una grande capacità di silenzio e di ascolto, riconosce l’immensità di Dio, del creato, delle difficoltà. Consce perfettamente cosa vuole dire il Dolore del servo sofferente di Javeh, per cui non solo è in grado di capire empaticamente il vissuto e i dolori altrui ma possiede le potenzialità per guardarsi con più serenità, la stessa con cui guarda e comprende gli altri. Per questo ha bisogno di essere aiutato a guardare se stesso dal di fuori, perché continuare a guardarsi in termini autoreferenziali non fa altro che farlo scoprire quale debole, ferito e incapace.

Il devoto potrebbe scivolare anche verso atteggiamenti scrupolosi, quando persone amate, amici, famiglia si presentino già sotto questa caratteristica. Il devoto potrebbe però allontanarsi facilmente da tali atteggiamenti se questo rende più facile il raggiungimento della concordia e della pace. Lo scrupolo in questo personaggio ha più il segno dell’accomodamento che non quello della prigionia.

L’ansia, il dubbio, l’accuratezza e l’attenzione nel devoto possono nascere  legati  alla necessità di mantenere l’unità, l’appartenenza, la forza del gruppo e ovviamente di non sentirsi respinto dai suoi. Farebbe di tutto pur di non perdere il contatto e il senso di appartenenza, correndo però il pericolo di essere usato e manipolato. Possono nascere inoltre alla necessità di assaggiare l’esperienza del fondersi con Dio. Davanti al vuoto e la solitudine che provengono dalla assenza di Dio, il devoto ricorre ad ogni pratica possibile, arrivando perfino a consegnare la propria libertà.

Una persona così caratterizzata andrebbe aiutata ad imparare a mettere in dubbio l’autorità e le buone intenzioni di chi le propone strade o percorsi religiosi da seguire, così come a non avere fretta a decidere o a impegnarsi in questo o quell’altro movimento o gruppo.

 

Conflitto

 

Molte persone (e anche famiglie o altri soggetti) possono trovarsi, rispetto all’ambito religioso, in situazione di urto, contrasto o opposizione[71]. Pertanto quando parliamo di conflitto facciamo riferimento a situazioni o atteggiamenti di combattimento, lotta, litigio, contrapposizione, sia verso persone, idee o fatti o sia verso la propria persona, all’interno del vissuto dell’individuo.

Molte delle difficoltà che anche noi personalmente possiamo vivere nei confronti di alcuni aspetti del vissuto religioso possono trovare spiegazione se considerati dall’ottica dei tipi di religiosità.

Non è facile trovare una spiegazione al fatto che alcune persone si trovino in situazione di opposizione rispetto alle proposte religiose in generale o quella di appartenenza. Bisogna tenere presente almeno tre cose. In primo luogo non si può trascurare che il vissuto religioso si svolge attraverso una serie di eventi che tendono ad offrire al credente un visione omnicomprensiva del reale e coordinate di orientamento tanto dell’atteggiamento come dell’azione e quindi si presenta con una pretesa di centralità per la vita di chi aderisce (l’aspetto religioso risponde alle domande sul senso, sull’origine e destino dell’uomo). Ma allo stesso tempo tale vissuto, come è stato già detto, si incarna in ognuno di noi, con le caratteristiche dei diversi dei tipi di religiosità, ciascuno rispecchiante una miscela di vissuti emotivi di base che mostrano una tendenza abbastanza definita verso uno di essi ma senza ridursi solo a quel particolare tema emotivo. E, per ultimo, ma non per questo meno importante, ogni proposta religiosa ci arriva attraverso la mediazione di una istituzione e/o persone che hanno il compito di trasmetterla. Nel caso della chiesa cattolica succede che oltre l’ambiente familiare, essa svolge il suo lavoro di mediazione del vissuto religioso attraverso il catechista, il sacerdote, il vescovo e il papa (essendoci anche altri mezzi attraverso i quali essa svolge la sua mediazione: religiose/i, impegno sociale e politico, laici e loro organizzazioni) i quali a loro volta hanno un accesso a tale esperienza religiosa attraverso la loro particolare tipologia di vissuto religioso, espresso, poche volte a dire il vero, con maggiore o minore presenza di equilibrio o scivolante verso i disagi dell’ambivalenza che corrisponde ad ogni categoria di vissuto.

Possiamo ipotizzare il rapporto di una persona che ad una età tra 7 e 10 anni entra in contatto con una persona (catechista, sacerdote, religioso/a, responsabile di una qualunque attività in parrocchia) che vive la propria esperienza religiosa caratterizzata dal tipo ritualista (mettiamo che non ha scivolato né verso il manicheismo né verso la scrupolosità), molto probabilmente, se il ragazzo/a ha una tipo di vissuto religioso tendente al ricercatore vivrà con insofferenza non solo quella persona ma tutto quello che rappresenta e quindi la fede, a meno che non ci sia una sincera ricerca di integrare le diversità. Nella vita reale, però, non succede quasi mai che si tenga conto di questi possibili fattori di incidenza e si tende alla realizzazione di valutazioni caratterizzate da una semplificazione eccessiva.

Così via, possiamo ipotizzare conflittualità nel vissuto religioso a partire dal mediatore e dalle sue modalità di vissuto che possono confliggere o meno con quelle di chi riceve il messaggio.

Poi, guardando ognuno dei tipi di vissuto religioso ci rendiamo conto che il militante sarà molto più portato ad assumere atteggiamenti litigiosi, di combattimento e di contrapposizioni. Egli è riconoscibile per la sua capacità di accendersi, non riesce ad essere un semplice spettatore degli eventi per cui farà sempre sapere qual’ è la situazione e il motivo in cui non è d’accordo, tirando diritto contro tutto e contro tutti.

Essendo un trascinatore riesce a portare dietro di sè quelli che la pensano come lui ma che magari possono essere frenati dai timori, ma la fretta lo porta ad aggredire e a non rispettare i ritmi altrui, correndo anche il rischio di restare deluso perché gli altri non la vedono come lui.

Il ricercatore, invece, potrebbe entrare in conflitto non tanto con le persone ma con le idee, con l’organizzazione, con la struttura. Egli immagina mondi diversi e modi nuovi per la sua fede. Non sarebbe da stupirsi se tra i grandi riformatori della chiesa ci fossero individui che possiedono un’essenza ricercatrice. Il ricercatore entra in conflitto e si oppone perchè ha la capacità di mettere in dubbio quello che è stato fatto finora. Il ritualista invece potrebbe entrare in conflitto per le esatte opposte ragioni, cioè perché è convinto di dover difendere e mantenere saldi gli insegnamenti, la dottrina e la tradizione. Quest’ultimo è mosso dalla paura di perdere quello che con difficoltà si è costruito nonostante gli errori e grazie alle sofferenze del passato, si domanda come sia possibile distruggere, e se valga la pena lasciare il vecchio per il nuovo: chi lascia la vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova.

L’emozionale da parte sua si trova molte volte a provare la struggente esperienza ad esempio di una catacomba, di un bambino denutrito dell’Africa per il quale la religione gli chiede la sua collaborazione e la noia perché la messa è sempre la stessa, cambia poco, lo stesso che le prediche di sacerdoti. Per lui è importante fare esperienza per cui quello che sembri troppo ripetitivo e senza novità lo fa entrare in conflitto, specialmente al proprio interno (immaginiamoci se a questo si aggiunga un qualche vissuto scrupoloso rispetto alle regole ecclesiastiche). è probabilmente colui che soffre la quotidianità per cui vorrebbe trovare il modo di aggiungere vitalità ai riti che secondo lui sono morti perché ripetitivi. In lui si oppongono generosità con il bisogno di fare nuove esperienze. Non poche volte sono quelli che passano buona parte della loro vita ad assaggiare diversi tipi di esperienze religiose, dagli Hare Krishna ai Testimoni di Jehova, passando per i Francescani, Opus Dei e Legionari di Cristo.

Il convenzionale, così come il ritualista, non vede la necessità che le cose cambino. Il motivo sarebbe, però, diverso. Mentre il ritualista ha paura di cambiare perché lo vive come perdita di ordine, il convenzionale tende a dire che se le cose hanno funzionato così finora non vede il motivo per cui debbano cambiare ora. Sentendosi parte, ad esempio, della chiesa cattolica, sentendosi anche erede di una certa cultura, un certo modo di essere, pur senza essere per questo appassionato a tale eredità, è comunque contento con quel che c’è. Il suo modo di affrontare il conflitto all’interno dei vissuti è senza dubbio la resistenza. Le sue convinzioni le difende, ma non per la via del militante.

L’intimista è in perenne conflitto con se stesso. Sicuramente si oppone alle celebrazioni in chiesa dove ci sia troppo rumore e troppa festività. Trova che sia molto più profonda una messa fatta in poco tempo e senza troppi adorni, tranne che gli spazi di silenzio, le letture ben fatte e il sacerdote magari presente in corpo e anima alla celebrazione. Sicuramente evita i trambusti e si oppone alle confusioni. Vorrebbe stabilire una netta separazione tra i momenti della fede e momenti dell’impegno sociale e politico per cui sicuramente preferisce la messa in un convento silenzioso fuori città che non la messa dei giovani di mezzogiorno. Mentre il devoto sarebbe uno con cui fanno la fortuna quelli che hanno responsabilità in qualunque istituzione religiosa. Così come il militante ha energia per contrastare, il devoto possiede una grande energia con cui viene incontro e si mette a servizio. A nostro modo di vedere il devoto ha una grande difficoltà a fare emergere la sua combattività. Lo si può ipotizzare come colui che non sa staccarsi. è molto frequente tra quelli che rinunciano alla vita consacrata (sacerdoti, religiose/i, seminaristi, novizi/ie,) o chi si allontana dalla pratica della chiesa a motivo di una separazione-divorzio e un secondo matrimonio. Vorrebbero allontanarsi, non si sentono riconosciuti ma allo stesso tempo non ci riescono, a loro risulta difficile non mettere su qualunque tavolo la tematica della chiesa, le sue ingiustizie, gli orrori dei suoi abusi perfino ai diritti umani, ma non ne possono fare a meno, non riescono a voltare pagina. Comunque del devoto parleremo molto di più in seguito quando affronteremo la tematica della dipendenza.

 

Dipendenza

 

Quando parliamo di dipendenza facciamo riferimento a quell’atteggiamento caratterizzato dalla riverenza, del rispetto, dalla dedizione assoluta, dell’attaccamento che una persona presenta nei confronti di un’altra realtà: persona, luogo, ecc. per cui le intenzioni e i desideri dell’altro sono percepiti in modo molto sofisticato e non sono avvertiti come coercitivi ma in sintonia e come aiuto organizzativo della propria identità.

Oltre il fatto che nella vita di ogni individuo i rapporti di subordinazione e di complementarietà possono esistere a ragione dell’attività lavorativa, del periodo di crescita e formazione, o della situazione (necessità delle persone anziane, dei portatori di handicap) la dipendenza viene assunta come un disagio con il quale il counselor può entrare in contatto, specialmente nell’ambito del counseling religioso.

La psicologia vede la dipendenza come un disturbo grave della personalità la cui caratteristica essenziale è una necessità pervasiva ed eccessiva di essere accuditi, che determina un comportamento sottomesso e timore della separazione. Lo scopo dell’atteggiamento sottomesso è suscitare protezione, e nasce da una percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente senza l’aiuto di altri.

La persona dipendente ha difficoltà a prendere le decisioni quotidiane (colore della camicia da indossare, se portare l’ombrello) senza una eccessiva quantità di consigli e rassicurazioni da parte degli altri. Nell’ambito religioso non è infrequente che persone stiano alla costante ricerca di rassicurazione prima di prendere decisioni. Molto simile alla persona con scrupolosità elevata il dipendente cerca, specialmente nel rappresentante religioso, una costante rassicurazione sia su vissuti concreti della vita quotidiana sia sul destino eterno, la salvezza, il giudizio o la condanna. Il ritualista e il devoto a cagione del loro modo di vivere la religiosità potrebbero trovarsi tra quelli che diventano dipendenti delle costanti indicazioni della loro guida spirituale.

Il dipendente tende ad essere passivo e a permettere ad altre persone (spesso una persona) di prendere l’iniziativa e di assumere la responsabilità per la maggior parte dei settori della propria vita. Questa necessità che gli altri si assumano la responsabilità va al di là delle richieste appropriate per l’età e la situazione. Come riscontrato nello studio sui pellegrini del giubileo, il devoto, trovando le spinte motivazionali nel desiderio di stare insieme, si trova ad essere trascinato in attività o eventi a motivo dell’appartenenza ad un gruppo famigliare, parentale o amicale.

Temendo la perdita del supporto o dell’approvazione, il dipendente, trova difficoltà ad esprimere il disaccordo verso altre persone, specialmente verso colui di cui è dipendente. Si sentono incapaci di funzionare autonomamente finiscono per concordare su ciò che ritengono sbagliato pur di non perdere l’approvazione e l’aiuto e per il timore sulle conseguenze (infondate) del loro disaccordo. Uno degli esempi che può illustrare come molti credenti nei diversi referendum che sono stati realizzati in Italia per dirimere certi aspetti della vita civile si sono trovati in grande difficoltà per prendere una decisione autonoma, pur avendo nel foro interno motivi per essere in contrapposizione con il parere ufficiale della chiesa. Molti tra i sacerdoti trovano difficoltà per prendere le distanze da posizioni non direttamente collegati a dogmi di fede, perché temono di non essere più importanti agli occhi del proprio superiore o vescovo. Si lamentano come comari davanti a terzi ma non sono in grado di prendere posizione contraria quando si trovano nel vivo della discussione.

Il dipendente trova grande difficoltà a iniziare e fare progetti per proprio conto. Crede che normalmente gli altri sanno fare meglio di lui. Molte volte giungono a sottomettersi a qualsiasi cosa pur di non provare l’abbandono, al punto di offrirsi per compiti spiacevoli, creando quasi sempre relazioni sbilanciate o distorte, potendo fare sacrifici straordinari e tollerare l’abuso verbale, fisico o sessuale (avendo avuto alternative per sottrarsi a tali situazioni). Molti dei casi di abuso sessuale che continuano a proliferare non solo all’interno della chiesa cattolica trovano la triste spiegazione nei rapporti di dipendenza che sono venuti a crearsi tra abusato e abusante. Tutti sappiamo che il problema dei sacerdoti che hanno violentato bambini e bambine non è esclusivo degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo la possibilità di mettere freno a queste situazioni si riscontra con l’omertà prodotta da un rapporto di dipendenza. Anna ad esempio, insieme ad altre 20 ragazze è stata violentata da quando aveva 13 anni fino a 17-18 anni dal suo parroco. Lei sapeva che le sue amichette vivevano esperienze simili a lei, e nonostante addormentava i genitori con sonniferi per trovarsi con il sacerdote nella sagrestia della chiesa dove veniva abusata. Lei stessa, uscendo lasciava la porta aperta per chi veniva dopo di lei. Un fratello saputi gli eventi non ha potuto far molto e dopo più di venti anni dei fatti Anna non sa se dare retta al fratello o difendere il sacerdote che ormai anziano lei non lo vorrebbe distrutto.

Il dipendente inoltre ha paura a restare da solo per cui seguono fedelmente persone importanti per evitare di stare da solo, anche se non è interessato o coinvolto in ciò che accade. Se termina una relazione importante (a causa di rottura o morte) il dipendente cerca con urgenza un’altra relazione che fornisca cura e supporto poiché è convinto di essere incapace di funzionare in assenza di un rapporto stretto. Le sue paure di essere abbandonato sono quasi sempre infondate e eccessive. In molte parrocchie italiane è una tragedia lo spostamento dei sacerdoti siano essi parroci o religiosi (questi ultimi normalmente considerati grandi confessori). A volte buona parte del quartiere o del paese entra in subbuglio e non si danno pace per il cambio del loro pastore di anime, rimanendo ciechi alle possibilità che il nuovo arrivato potrebbe portare alla vita religiosa del posto.

La persona dipendente manifesta il suo disagio con il pessimismo e il dubbio, sminuendo le proprie capacità e qualità, e non è raro che si riferiscano a sé stessi come stupidi; vede la critica e la disapprovazione come prova della mancanza di valore e perde la fiducia in sé stesso. L’intimista, anche se probabilmente cercherà di evitare di ricevere direttamente la critica si guarda con sfiducia, ma probabilmente accetterà critiche e rimproveri da chi è preposto alla guida spirituale pur di sentirsi approvato ed accettato.

Si trova in difficoltà quando al lavoro gli viene richiesta iniziativa indipendente, evita posizioni di responsabilità e viene preso dall’ansia quando deve prendere decisioni. La felicità di molti superiori di congregazioni religiose è stata e lo rimane ancora quando hanno di fronte un candidato con le caratteristiche del devoto, del ritualista o dell’intimista: il devoto non prende iniziative per non perdere approvazione e accettazione, l’intimista per non essere rimproverato e poter passare inosservato, e il ritualista perché ha paura di introdurre il disordine o l’eresia. Questi idealtipi di religiosità gli permettono di svolgere la sua attività senza necessità di spiegare e di convincere o trascinare, sono lì disposti a fare quello che verrà loro richiesto.

 

Il lavoro del counselor religioso di fronte alla dipendenza non è per nulla facile. Il dipendente teme il vuoto, l’assenza dell’altro, l’abbandono; egli teme anche la perdita, la depressione, il senso di non appartenenza, la perdita di senso di coesione. Da una altra parte desidera essere efficace in presenza dell’altro, avere padronanza delle sue azioni, provare il calore, sicurezza e gioia. Per cui nel counseling religioso lo scopo fondamentale è quello di aiutare il dipendente perchè  impari a lasciar andare la fantasia e avvicinarsi al piacere. Ha paura dell’ abbandono e per questo non si ricorda più cosa significa sognare e divertirsi. Bisogna che il dipendente possa sperimentare che molte delle sue paure sono infondate, ma rispettando la gradualità dei passi da compiere se non vogliamo spingerlo verso un atteggiamento di dipendenza ancora più profondo.

La maggior difficoltà con cui si trova il dipendente è che agli altri fa comodo avere una persona così disponibile da poter chiederle qualunque cosa e sapere in anticipo che la sua risposta sarà sì. Non essendo socialmente problematico, il dipendente soffre da solo e poche volte riesce ad esprimere il suo vero e profondo disagio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti,  Prevenire è possibile, Terni 2001p. 36.

[2] Cfr. Ibid., pp. 37-39.

[3] Cfr. A. Dulles, The Catholicity of the Church and Globalization, in «Seminarium» 2 (2000) 259-260.

[4] La presente proposta di definizione raccoglie proposte di definizione e intuizioni presenti in diversi autori da noi consultati. Si vedano A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, p. 71; P. De Stefani, La corte penale internazionale. Verso la «globalizzazione» della giustizia, in «AS» 6 (2002) 490-500; J. Weiler, Governance without Government: The Normative Challenge to the Global Legal Order, in The Governance of Globalisation, ed. E. Malinvaud e L. Sabourin, cit., pp. 49-76.

[5]  Cfr. P. Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano 1998

[6] Ibid. p. 12. 14. 35-37

[7] Ibid., p. 69.

[8] In questo caso si parla di variabili come ad esempio i mezzi di interscambio quali il denaro, il potere o l’influenza.

[9] Ibid., pp. 70-71.

[10] E. Cheli, Teorie e tecniche della comunicazione interpersonale. Una introduzione interdisciplinare. Franco Angeli, Milano 2004, pp. 32-37.

[11] Cfr. ibid., pp. 71-73. Si veda anche J. Gevaert, Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Elledici, Torino 1973, pp. 59-71.87-98.

[12] Ibid., p. 80. Si veda anche G. Greshake, Il Dio unitrino: teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000, p. 516; G. Cicchese, Pensare l’intersoggettività. Contesto antropologico e provocazione teologica, in P. Coda e A. Tapken, La Trinità e il pensare. Figure, percorsi, prospettive, Città Nuova, Roma 1997, pp. 302-315.

[13] P. Donati, Teoria relazionale della società, cit., p. 80. Per Gevaert l’essere in relazione è una verità fondante dell’uomo, cioè non si lascia ridurre ulteriormente ad altre verità più elementari e allo stesso tempo permette di comprendere molti altri aspetti dell’esistenza umana. Cfr. J. Gevaert, Il problema dell’uomo, cit., p. 33; G. Cicchese, Pensare l’intersoggettività, cit., p. 318.

[14] P. Donati, Teoria relazionale della società, cit., p. 80.

[15] Ibid., pp. 80-81.

[16] Cfr. P. Donati, Teoria relazionale della società, cit., pp. 101-104.

[17] N. Luhmann, Mutamento di paradigma nella teoria dei sistemi, in «Sistemi urbani» 2 (1983) 333-347. Una definizione di paradigma la troviamo in B. Mondin, I grandi paradigmi della metafisica, in «Sapienza» 53 (2000) 3-37. Mondin riconosce in Thomas Kuhn l’artefice dell’introduzione del concetto di paradigma. Lo definisce come «una struttura concettuale che contribuisce a dare una forma unitaria a risultati che da una parte sono sufficientemente nuovi per attrarre uno stabile gruppo di seguaci, dall’altra sono sufficientemente aperti da lasciare al gruppo in questione la possibilità di risolvere nuovi problemi di vario genere. Una rivoluzione scientifica consiste precisamente nel passaggio da un paradigma all’altro». Mondin riconosce che nell’epoca moderna le teorie di Copernico, Galileo, Newton, Einstein, Hawking hanno svolto il ruolo di paradigmi scientifici. Sostiene al contempo che il concetto di paradigma si applica egregiamente anche alle grandi metafisiche, che nel corso dei secoli hanno fornito una spiegazione globale della realtà, basata  su determinati principi e argomenti filosofici anziché scientifici.

[18] D.E. Biegel, Social Networks and Mental Health. An Annotated Bibliography, Sage, Beverly Hills 1985, citato da P. Donati, Teoria relazionale della società, cit., p. 106.

[19] Cfr. P. Donati, Teoria relazionale della società, cit., p. 107.

[20] Cfr. ibid., pp..

[21] Cfr. ibid., pp. 108-109110-113.

[22] E. Cheli, Relazioni in armonia. Sviluppare l’intelligenza emotiva e le abilità comunicative per stare meglio con gli altri e con sé stessi. Teorie, tecniche, esercizi, testimonianze. Franco Angeli, Milano 2004, pp. 19-20.

[23] E. Cheli, L’età del risveglio interiore, cit. p. 30.

[24] Si potrebbe dire che da qui emerse la teoria e la prassi operativa nota come psicoterapia sistemico-relazionale. Cfr. E. Cheli, Teorie e tecniche della comunicazione interpersonale. Una introduzione interdisciplinare. Franco Angeli, Milano 2004, pp. 25ss.

[25] D. R. Kingma, Il futuro dell’amore, cit. p. 3.

[26] Cfr. Idem.

[27] Cfr. Ch. Boiron, Le ragioni della felicità. cit. pp. 107-119.

[28] Cfr. A. Di Fabio, Counseling. Dalla teoria all’applicazione. Giunti, Firenze 1999. p. 12.

[29] Cfr. Ibid, pp. 21-25 Di Fabio ci ricorda che l’atto comunicativo e l’interazione tra gli interlocutori è un processo globale e in conseguenza può essere colto pienamente solo se assunto olisticamente e non in forma parcellizzata. Con queste affermazioni, Di Fabio ci mette in guardia di fronte a quella tendenza che ancora resiste in molte posizioni tanto nell’ambito della ricerca come in quello della vita quotidiana dove i fenomeni vengono considerati staccati dal loro contesto e dalle loro molteplici interconnessioni Cfr. Ibid, p. 43. 86-90

[30] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, III, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 234, citato da G. Greshake, Il Dio unitrino, Queriniana, Brescia 2000, p. 147 (ed. orig. Der dreieine Gott. Eine trinitarische theologie, Verlag Herder, Friburgo 1997); A. Staglianò, Il mistero del Dio vivente. Per una teologia dell’assoluto trinitario, EDB, Bologna 1996, p. 27; N. Ciola, Teologia trinitaria. Storia, metodo, prospettive, EDB, Bologna 1996, pp. 199 ss.

[31] Sui principali interventi del Magistero rispetto alla dottrina sulla Trinità, cfr. G. Frosini, La Trinità mistero primordiale, EDB, Bologna 2000, pp. 177-190.

[32] Sulla storia della concezione trinitaria di persona Cfr. G. Greshake, Il Dio unitrino, cit., pp. 75-189; Ch. Duquoc, Le christianisme et l’invention de la personne. in «Lumier et vie» 50 (2001) pp. 53-63.

[33] Il termine «pericoresi» indica la danza: l’uno danza intorno all’altro, l’altro danza intorno all’uno. Nell’ambito stoico e neoplatonico viene impiegato per indicare il rapporto – unione e reciproca compenetrazione – tra corpo e anima. In teologia il concetto viene accolto in ambito cristologico da Massimo il Confessore, al quale serve per descrivere il compenetrarsi della componente divina e di quella umana in Gesù Cristo, salvando però la rispettiva autonomia.

[34] J. Moltmann, Trinità e regno di Dio, Queriniana, Brescia 1983, p. 212.

[35] Concilio Vaticano II,  Gaudium et Spes n 22.

[36] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, p. 136.

[37] Concilio Vaticano II, Dich. Nostra aetate, n. 5, in AAS 58 (1966) 743. Si veda anche Paolo VI, Lett. apost. Octogesima adveniens, nn. 23.48, in AAS 63 (1971) 418.437-438; Idem, Enc. Ecclesiam suam, in AAS 56 (1964) 609.613-614.643.649-650.

[38] Si veda ad esempio Enciclica Mater et Magistra, Giovanni XXIII, in AAS 53 (1961) 415.

[39] Cfr. Gaudium et Spes (Concilio Vaticano II) nn 9.23.24.32. Idea ribadita nel Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1878.

[40] Giovanni Paolo II, Udienza al segretario generale delle Nazioni Unite (7 aprile 2000), n. 2.

[41] Cfr. V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è possibile, Terni 2001, pp. 31-32; 59ss.

[42] Emozioni di base: le prime esperienze emozionali vissute dal bambino.

[43] Per la giustificazione dell’uso di sette emozioni si veda V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti,cit. pp. 21-22

[44] Strategia: obiettivo e medio o lungo termine. Tattica: si riferisce agli scopi intermedi che facilitano il raggiungimento dell’obiettivo finale. Determina quindi l’asseto e lo scopo seduta per seduta. Tecnica: da ordine alla tattica e ci aiuta a determinare cosa fare momento per momento durante la seduta. Si riferisce all’arte, all’abilità che permette al counselor di gestire ogni passaggio del rapporto con il cliente/paziente.

[45] V. Masini, Idealtipi della religiosità e dialogo interreligioso, in Berti, De Vita, La religione nella società dell’incertezza, FrancoAngeli, Milano 2002.

[46] Scivoletto, Nota di metodo su sociologia, religione e religioni, in Berti F., De Vita R. (2001), La religione nella società dell’incertezza, Angeli, Milano, p. 154.

[47] La riflessione sociologica sui pellegrinaggi valida questo evento come un luogo rilevante per l’analisi della religiosità: il pellegrinaggio, infatti, è un fenomeno comune a molte religioni, in esso si esprime una dinamica apicale della religiosità. Le caratteristiche di “movimento” del pellegrinaggio consentono una partecipazione interiore al fenomeno collettivo che rende possibile la presenza simultanea nell’evento anche da parte di persone molto diverse, con visioni della vita e atteggiamenti lontani tra di loro e con un’ampia oscillazione tra le gradazioni delle loro scale di valori.

[48] Secondo Masini gli atteggiamenti verso la religiosità hanno come fondamento i tratti delle emozioni di base, discussi nel codice culturale della civiltà occidentale. Tali tratti sono uno schema possibile, tra i tanti. Sono cioè relativi ad un paradigma, relativo anch’esso. Il sistema del paradigma è più o meno valido a seconda di quanto riesce a spiegare. Offrire una riflessione entro un paradigma è, comunque, il gesto di aprire un dialogo ed essere disposti ad accettare altri paradigmi.

[49] Masini nella sua presentazione dei tipi di personalità fa riferimento a due passi particolarmente importanti del Nuovo Testamento: Il sermone della montagna (Vangelo di Matteo: cap. 5, versetti: 1-12/ Vangelo di Luca, cap. 6, versetti: 20-23) e le lettere alle sette chiese (Apocalisse: cap. 1, versetto 19 a cap. 3 versetto 22).

[50] Cfr. V. Masini, Idealtipi della religiosità, cit.

[51] R. De Vita, La religione nella società dell’incertezza, in F. Berti, R. De Vita, La religione nella società dell’incertezza, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 41.

[52] Il ricercatore è adiacente al militante, in funzione del suo zelo che sfocia nelle contese dialettiche.

[53]  Ap. 2,12.

[54] R., Berzano D. Teagno, Il pellegrino giubilante, in C., Cipolla R. Cipriani, (cur), Pellegrini del Giubileo, FrancoAngeli, Milano 2002, p. 54

[55] R., Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano, 1981. Or. Tedesco:  Das Heilige, Gotha, Marburg 1923.

[56] In particolare Sigmund Freud vede nella religione una “nevrosi ossessiva umana” ed una stretta connessione tra complesso di Edipo e l’origine della religione; Malinowsky descrive gli aspetti psicologici della religiosità con distinzione tra maschile e femminile.

[57] La categoria di personalità collettiva centrata su tal vissuto sembra essere quella della Chiesa di Tiatira.

[58] R. Cipriani La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, , Sciascia, Caltanissetta-Roma 1992, p. 175.

[59] R., Berzano D. Teagno, Il pellegrino giubilante, cit.

[60] Anche quando l’attenzione sociologica alla religione, nelle sue componenti di richiamo al soprannaturale e di comportamento soggettivo che diventa fatto sociale, utilizzi metodi di empatizzazione del vissuto religioso, al fine di comprenderlo senza proiettare sull’altro le proprie categorie, l’oggettivazione è comunque problematica. Nel nostro caso, ad esempio, l’oggettivazione avviene attraverso la categorizzazione idealtipica di una specifica fenomenologia eppure, all’interno della stessa fenomenologia, possono presentarsi costrutti di significato opposti e sociologicamente imperscrutabili, giacché la spiegazione ultima è nella specifica intenzionalità del soggetto protagonista e la sua verità non può essere oggetto di operazioni valutative.

[61] Il risvolto critico dell’indifferente è il messaggio alla Chiesa di Sardi.

[62] F., D’Agostino F. Vespasiano, Il processo rituale e l’esperienza penitenziale, in C. Cipolla, R. Cipriani,  Pellegrini del Giubileo,cit. p. 82.

[63] Ibid.

[64] Il significato del messaggio nella lettera alla Chiesa di Smirne: Ap 2,8

[65] Dolore come indizio del male in Democrito, dolore come espiazione nella metempsicosi, dolore come cura dell'anima e conoscenza in Platone, dolore come passione che si oppone alla saggezza dell'apatia negli stoici, conseguenza del peccato e della separazione da Dio per S. Agostino, un moto dell'appetito sensitivo (una passione) per Tommaso, per il pessimismo di Schopenhauer il dolore è essenza stessa della vita e la felicità una sorta di temporanea liberazione dal dolore e dal bisogno. Kierkegaard vede nel dolore un mezzo per conoscere la verità. Verità che non esiste nel nichilismo di Nietzsche e il fatto di accettare il non senso e volere il non senso (come la colpa o l'ideale ascetico) comporta comunque il fatto di volere e dunque di essere qualcosa che vuole. Nella lettura del razionalismo, dell'idealismo, della fenomenologia e dell'esistenzialismo il dolore compare come interrogativo ricorrente e porta a discussioni sul suo significato dischiudendo la comprensione verso l'ineffabile senso del dolore e della sofferenza umana. Il dolore conduce alla sensibilità di sé: se attraverso l'azione o l'apatia possiamo dimenticarci di noi stessi, il dolore ci richiama alla coscienza dell'esistere ed al sé come luogo in cui si percepisce il fatto di esistere. Il dolore mette l'uomo in contatto con se stesso e gli fa misurare il grado di serietà che gli ha dato alla sua vita.

[66] Meno emerge il sé, meno è consistente il luogo in cui si ascolta il dolore.

[67] F., D’Agostino F. Vespasiano, Il processo rituale e l’esperienza penitenziale, in C. Cipolla, R. Cipriani,  Pellegrini del Giubileo,cit. p. 81.

[68] “Diversamente dalle sette concettualizzate da Weber e da Troeltsch, che si riferivano alle denominazioni protestanti proliferate dalla Riforma, le nuove sette si caratterizzano per una ossificazione psicologico-culturale e per una pressione finalizzata ad annullare l’identità individuale e a consentirne l’assorbimento nel gruppo”. V. Cesareo, Ruolo della religione nel processo di globalizzazione, in Berti F., De Vita R., cit. p. 41.

[69] Messaggio alla Chiesa di Laodicea Apocalisse, 3, 14.

[70] Facendo riferimento ai diversi tipi di religiosità proposti a partire dello studio sui pellegrini del giubileo Masini propone quelli che considera i copioni di comportamento religioso che corrispondo a copioni centrati sulle emozioni di base. Essi sarebbero: impegno realistico e responsabile presente nel ritualista; motivazioni al viaggio giubilare nel militante; valori e senso nel ricercatore; pratica religiosa gradita nell’emozionale; fede responsabile degli anziani nel convenzionale; preghiera dei giovani testimoni nell’intimista; valore della partecipazione familiare, educazione ed appartenenza nel devoto

[71] Il termine italiano proviene dal latino: conflictus (urto) derivato da confligere: cozzare, combattere.