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RELAZIONI IN PLENARIA

14 e 15 febbraio

Tolentino - Abbazia di Fiastra 

RELAZIONE LABORATORI

A cura di Cinzia Crocenzi

 

 

 

Vincenzo Masini.

Voglio salutare con grande piacere tutti i convegnisti in questa splendida giornata di sole. Fa freddo, come del resto è naturale a febbraio, ma le informazioni terroristiche sul maltempo anche oggi sono, per fortuna, infondate.

Un po’ come il refrain quotidiano sulla crisi economica che sta davvero producendo un clima di depressione psicologica e di allarme che tende a produrre condizioni psicologiche ed economiche ancora peggiori di quelle che sono state prodotte dai prodotti tossici della finanza internazionale. Ciò che è davvero in crisi è la fiducia delle persone, la relazione tra di loro, la dimensione umana della vita.  

Sono in crisi coloro che hanno vissuto ipotecando i loro anni futuri con debiti da doversi pagare chissà quando. Mi diceva una mia amica, Silvia, che ha un centro estetico, di persone che facevano prestiti personali per poter fare un ciclo di lampade abbronzanti e si trovavano a dover pagare la rata del prestito anche quando l’effetto dell’abbronzatura era ormai finito.

La dimensione della crisi riguarda un modello e un progetto e una proposta del vivere che ha ipotecato anni avvenire nelle singole persone e che oggi, non solo determina una grande crisi personale, perché la mancanza di ulteriore credito impedisce alle persone di avere un orientamento, un senso, un futuro, ma perché sembra rompere quello che è stato proposto come uno stile di vita, che non può più funzionare. In quanto counselor ci troviamo a dover consigliare anche cambiamenti di stile di vita ai nostri clienti, che comportano anche cambiamenti nella loro economia poiché un ritrovato senso della vita conduce a diminuire o eliminare spese superflue e vicarianti di una affettività non ricevuta.

Se siete qui è perché avete fatto delle scelte ed avete messo da parte i processi di demotivazione che sicuramente si sono presentati a voi nei giorni scorsi tali.  Grazie per essere qui!

Molti non sono venuti. Mi è rimbombato più volte il cellulare con messaggini di persone che avrebbero voluto venire, nel momento dell’entusiasmo ma non hanno saputo concretizzare la loro motivazione.

La crisi psicologica che ci circonda è come un sapore, un patina grigia che non fa vedere la realtà con limpidezza.

È la patina delle discussioni di cui non riusciamo a trovare il nucleo. Ne tocco una, la più grande di tutte. Quanto mi sarebbe piaciuto se invece di sentir litigare sulla sorte di una povera fanciulla come Eluana, avessimo ascoltato  dei mistici, dei saggi, delle persone spiritualmente evolute riflettere  su dove era la sua anima.

Riflettere sulla base di un sentimento, non sulla base di uno schema di diritto canonico o di diritto statuale. Siamo qui, in questo momento, spiriti incarnati in questi corpi a cercare di migliorare noi stessi e a capire qualcosa di più del senso della vita e non a discutere su chi ha ragione o su chi ha torto su come è fatto il paradiso: tanto non lo sa nessuno! Tutti abbiamo degli Immaginari, anche bellissimi su cui è interessante discutere ma solo se lo si fa in contesti di assoluta comprensione affettiva.

Questo convegno riuscirà se tra le persone presenti scaturiranno delle scintille d’amore, sarà invece un grande fallimento se si discuterà dei principi del counseling, della filosofia specifica del counseling, dei grandi sistemi e non si arriverà a toccare che cos’è davvero l’umanità, che il counselor ha voglia di scoprire.

In questo momento abbiamo di fronte a noi una grande necessità: quella che chiunque faccia questo lavoro o che sia impegnato nell’umano, deve assolutamente prendere in considerazione. Dobbiamo reggere gli urti della sofferenza, del disagio, della disperazione, della consolazione: il cliente che ci chiede aiuto è una persona che sta male, perché qualcun altro ha scaricato su di lei delle tensioni e a sua volta questo qualcun altro le ha ricevute da un altro ancora. Spesso siamo i terminali di lunghe catene di disagio, e, se riusciamo a fermarle  ribaltiamo tutta la fila. Saper reggere richiede una serie di competenze, la presenza a se stessi e la fatica di trovare la  strada per riuscire a toccare il cuore della persona che abbiamo di fronte.

A volte sei disarmato quando vedi situazioni che toccano la tua umanità e non sai da che parte prenderle e a volte la fatica sembra insostenibile.

Anche perché il contenimento farmacologico della sofferenza sta perdendo l’efficacia sperata. Fino ad almeno alcuni anni fa gli psicofarmaci potevano essere considerati il male minore. Il problema è che questo minore dei mali non è più minore. Anche i farmaci non contengono più… La carica umorale nelle persone, frutto di passioni non contenibili e di eccessi di desideri e proiezioni sugli altri che non sono realizzabili. La sensazione disarmante che non ci siano più mezzi per contenere certi tipi di strutture di follia, e che siamo molto più permeabili non solo al dolore dei folli, ma anche al dolore di chi deve vivere con i folli. Questo richiede fondamentalmente solo una cosa: trovare la chiave per entrare in relazione con l’universo della mente di colui che è perso dentro la sua follia. È anche questo un problema di relazione, di aggancio con l’altro che non  avviene sulla base di chissà quali livelli tecnici, ma solo sulla base delle potenzialità umane messe in campo, sempre che il counselor sappia reggere l’urto, non ceda al ricatto psicologico, non ceda alla paura, al senso di impotenza e lotti a tutti i costi per trovare una via di comunicazione con quella persona.

Il counseling relazionale non è solamente una professione specifica è anche un modo di insegnare le relazioni a tante altre professioni. È un modo di entrare in contatto con tanti strati della nostra società. Tante professioni, tanti mestieri hanno bisogno di trovare le chiavi per un incontro umano con i loro clienti.

Per parlare di umanità abbiamo portato i Cavalieri di san Valentino a Tolentino, e questo è un risultato che cercavamo da tempo. E’ il risultato di un incontro, di un’amicizia, anche senza dover chiedere o pretendere da noi stessi e dalle nostre amicizie qualcosa di più rispetto a quello che ci possiamo dare.

L’amicizia non è un vincolo. L’amicizia è un legame.

Il vincolo è qualcosa che riguarda la struttura delle relazioni tra persone, ti vincoli in modo tale da poter costruire un “do ut des”.

Quando invece ti leghi lo fai per dare il meglio di te. Vincoli e legami appartengono a due differenti universi di senso.

Il nucleo teorico e pratico di questo convegno verte sul counseling relazionale nella sua esplicitazione di relazione interumana prima ancora che interpersonale. Il centro è l’affermazione dell’umanità, della nostra umanità. Precede un successivo convegno, che si terrà all’università di Perugia, dove si affronterà il tema della professionalità del counselor.

Il mio compito ora è aprire il tema: L’Umanità. L’umanità altrui e mia.

La mia umanità mi è venuta pian piano alla luce in un cammino di ricerca personale, che non ho mai abbandona-to nel corso degli anni della mia vita. In alcune fasi sono stato lontano da me stesso. Ho fatto i miei naufragi ma sono riuscito a tornare a galla. Ho vissuto la sensazione di aver perso tutto e la sensazione della più profonda, acuta e depressiva solitudine. A volte mi sembrava di aver trovato delle grandi risposte e poco dopo scoprivo che queste grandi risposte non erano vere. Debbo dire ho progressivamente trovato la gioia di avere un buon contatto, un buon rapporto con me stesso. Riesco, ed è questo il fondamento della mia umanità, a stare bene quando sono in compagnia di Enzo Masini. Riesco a fare delle buone chiacchierate con tutte quante le mie voci interne e riesco a riconoscere quelle che mi sono proprie e quelle che invece mi sono state in qualche modo installate. Per trovare la mia umanità ho dovuto lottare contro alcuni fantasmi. Il primo potente ed antico era una sorta di senso di colpa. Lo sentivo presente nella mia vita, probabilmente per un’educazione religiosa molto rigida che mi impediva di aprirmi ad una percezione più gioiosa anche del sacro. Ciò determinava in me forti scrupoli; cercavo costantemente in certe modalità di comporta-mento di realizzarmi, ma non ci riuscivo. Ho veramente combattuto, ma non ci sono riuscito, non sono riuscito ad obbedire a tutta una serie di regole. Erano più forti di me, finché ho capito che non era quella la strada. Non era un comportamento esteriore, avevo scoperto di saper essere molto disciplinato, ma avevo dentro me una lunga serie di  fantasmi, che si aggiravano in maniera molto nebulosa nella mia mente. Questi mi dicevano che non andavo bene, che ero sbagliato e che avrei dovuto fare altre cose. Finchè non ho cominciato a scoprire che autocriticavo il mio narcisismo, almeno quello che pensavo fosse narcisismo. Ora so che il narcisismo può essere il gioco di portare una cravatta che mi piace, allora pensavo che il senso dell’impegno nelle cose fosse un effetto del narcisismo.

Il narcisismo si manifesta in termini molto più esteriori, molto più emozionali, non era quello che mi piegava. Sentivo che c’era una verità dentro di me che voleva venir fuori, emergere. Ed era una verità squisitamente spirituale. Finalmente capivo che le coincidenze della mia vita portavano da qualche parte: i contatti, il mio girovagare, da Genova alla Sicilia, poi in Umbria, in Toscana. Io vivo una vita molto intensa e faticosa, perché ogni giorno ricevo contatti, emozioni che mi stancano interiormente per il peso che scaricano su di me. La telefonata di questa mattina della mamma di un ragazzo a cui voglio molto bene e poi di un’altra mamma. Telefonate che devo reggere; anche se sono ossessive vanno ascoltate, fin quando non riesco a trovare un pertugio in cui infilare una parola tra le loro.

Le coincidenze sono state tutto quell’insieme di segni che mi conducevano ad osservare me stesso, nella mia umanità sempre meno criticamente. Questo criticamente per me era anche legato ad un desiderio molto profondo di religiosità. Ho cercato di essere per esempio, per molto tempo un buon cattolico, non ci sono riuscito, non perché sono un peccatore come tutti noi, ma perché ho scoperto che la virtù e il valore della libertà trova equilibrio nella fedeltà e nell’obbedienza senza rassegnare le dimissioni.

Una grande conquista della mia umanità è avvenuta in un viaggio che feci a Lourdes molti anni fà. Voglio presentarvelo come un miracolo paradossale avvenuto mentre ero in meditazione di notte sulla riva del Gave de Pau, di fronte alla grotta. Mentre spegnevo il mio tormento interiore sentii una voce che mi diceva: “Ma va là che sei un bravo cristiano! Non ti stare a preoccupare se non riesci ad essere un bravo cattolico!”.

Il dialogo delle voci interne mi spinge a considerare in modo profondo cosa volesse dire quel processo di liberazione. La realtà che avevo di fronte mi chiamava a scegliere di camminare assolutamente con le mie gambe, seguendo le esperienze spirituali ed i loro insegnamenti. Lì ho trovato la bellezza e il peso della solitudine. Ciascuno con la sua solitudine è dentro di sé, arbitro assoluto delle sue scelte, testimone della sua umanità, ad una distanza abissale dagli altri. Gli altri si fanno prossimi nei momenti magici della vita. Nella condivisione empatica possiamo incontrarci, ma ciascuno di noi ha la sua entità dentro di sé. La nostra ragione interna, la nostra solitudine interna è una costante straordinaria e meravigliosa. Essere se stessi è una grande fortuna. Tanti esseri umani non ci riescono, perché nessuno li tocca nel livello adeguato al loro bisogno e alla loro profondità.

Nella storia della mia umanità ho trovato poi i miei amici. Molti miei ex pazienti e clienti sono diventati miei amici. Ed è bellissimo essere amico con loro. A volte, dopo aver lavorato con una persona per un certo tempo. capita di sentirmi dire: - “ Tu sei tutto di me, io non so niente di te”.

Allora mi racconto ed è bellissimo sentirsi dire: -“ Non lo sapevo che la pensavi così su questo argomento. Ah ma guarda! Siamo d’accordo su un sacco di cose!”. Poi capita che le persone mi ridimensionino; ed anche questo è importante. Un certo grado di attribuzione carismatica può anche servire ma la trasformazione di se stessi in una specie di mito è molto pericoloso. “Se il counselor vince il cliente perde, se il cliente vince il counselor perde”. E non counselor dobbiamo perdere, e cioè apparire nella realtà di esseri umani con virtù e difetti. Ho molto timore dei maestri che non si lasciano mettere in discussione. E tutto sommato non li capisco perché fanno molta più fatica psicologica a mantenere il loro potere o il loro narcisismo di quanta non ne farebbero a mostrare la loro umanità.

Se siamo liberi, dobbiamo insegnare la libertà. Insegnare questa libertà significa portare anche una serie di pesi. Vediamoli attraverso alcuni miei amici. C’è un giovane, …, che ora non è qui, anche se avrebbe voluto esserci. Proviene da una dimensione interiore frastagliata e confusa e non ha saputo reggere l’idea di condividere questo momento. Ieri sera era con noi ed è fuggito poiché l’unica strada che conosce per reggere le emozioni è la fuga. A causa delle squalifiche che ha vissuto non riusciva nemmeno più a parlare. Oggi parla anche se riesce ancora a progettarsi un futuro, a stabilire rapporti, a condividere sentimenti. Vorrei che arrivasse, sono in pensiero per lui. Mi spiace che sia in giro al freddo. Vorrei che comparisse da un momento all’altro, certo non lo chiamo e non lo cerco, perché sa che io so che lui sta giocando con se stesso e con me lo stesso tipo di ricatto psicologico che ha sempre giocato nella vita. Non devo cercarlo però posso desiderare che arrivi. Questo è la mia umanità, che in questo caso si manifesta come la nostalgia di un’assenza.

Tra i miei amici c’è anche una persona, non la nomino, che non è qui perché è stata impelagata in una storia macabra. Non è qui perché è dovuta andare ad assistere ad un intervento chirurgico del fratello. “ Io devo stare con mio fratello, non ho altro nella vita”, mi ha detto. Poi ha dovuto partecipare al funerale della zia, poi è tornata la capezzale del fratello. Il macabro in alcune culture mostra una specie di amore per la morte, per condivisione del dolore al cui interno c’è qualcosa di perverso. La cultura del counseling è il contrario di queste culture mortifere condizionanti che vengono inoculate. Questa mia amica non ha potuto essere qui per non disobbedire alle voci interiori che le chiedevano questo impegno. Oggi ci stupiamo delle culture dark, con piercing e tatuaggi, ma non sono diverse da queste culture antiche.

C’è poi un mio amico, che è stato alcolista per 24 anni, siamo al terzo anno che non tocca alcol. Un personaggio strano, a volte un po’ sfuggente, ma ho una particolare predilezione per lui; mi piace quel suo modo preciso e un po’ sornione con cui valuta le cose. Sono lusingato di essere suo amico. Spesso vedo che vorrebbe fare un mucchio di cose per me. Purtroppo ci sono poche occasioni, ma mi commuove il fatto che, non appena gli chiedo un favore piccolo, egli mi restituisca sempre il quintuplo di quello che gli chiedo. È un essere umano dolcissimo, straordinario, mi piace passeggiare con lui.  Ha un’aria sempre molto lungimirante, sa molte cose che io non conosco è anche un po’ pettegolo, mi racconta le cose intorno. La sua umanità la si tocca dentro questa risorgenza e questo modo di comunicare.

Un altro mio amico è una ragazza che  è stata tossicodipendente per un certo numero di anni ed ora ha maturato una visione lucida, nitida della realtà. Tanto quanto prima era disordinata e distratta ora è diventata ossessiva, precisa, a volte un po’ insopportabile. Ha sempre ragione lei quando le parli. Puntualizza con precisione su tutte le cose mentre lavora, mentre agisce, mentre vive. Un bel essere umano ed  il suo fascino sta proprio nella natura del suo conflitto interno, ben gestito e ben conosciuto.

Molti miei amici sono usciti dagli abissi della sopportazione di situazioni violente e inaccettabili. Hanno trovato pian piano il coraggio di dire basta e rispettare se stesse. Ho il privilegio di aver aiutato questo tipo di persone. Questo privilegio è comune in chi ha la mission del rapporto di aiuto. Ciascuno a seconda della personale via e linea, ispirazione, arte, modo, tecnica, profilo, armonia, senso, spirito.

Ho voluto parlare in questi termini e spero di averlo fatto a sufficienza per presentarvi lo stile di questa giornata, in modo tale che gli amici presenti, che ho invitato a parlare si presentassero a ragionare, riflettere, nella  sintonia  empatica della testimonianza.

L’obiettivo è definire questa specie di sogno che ci accomuna e questa professione che stiamo fondando, che non è solo una professione. Quello da cui dobbiamo partire è il senso profondo che conduce a percepire lo spirito di ogni relazione.

Lo spirito cos’è se non la capacità di sentire il volo di un’emozione, di un sentimento. Il volo è una buona metafora, perché le nostre emozioni e i nostri sentimenti galleggiano sullo spirito, volano sullo spirito. Non è solo una metafora fatta in termini poetici. Il vero problema è che quando parliamo della parte profonda dell’uomo non abbiamo parole. Non sono concetti verbalizzabili ma visioni che ciascuno di noi ha incontrato in qualche momento di meditazione, di distanza o vicinanza da sé,  di digiuno, di vivido presente. Si tratta di quegli stati d’animo e di mente che compaiono insieme a strane visioni o lampi o lucine che compaiono davanti agli occhi quando sei in raccoglimento. Immagini che prendono forma nella mente quando osservi passare i tuoi pensieri; sensazioni sperimentate quando vedi te stesso dal di fuori, quasi come se l’essere nel mondo fosse una coincidenza stupefacente. Io sono stupefatto di essere su questo palco, in questo momento di fronte a voi. Sento che questo è un privilegio enorme e me lo vivo con piacere,  perché anche voi mi mostrate di capire quello che sto dicendo, e di essere presenti dentro questa dimensione della vita. Non è solo un ponte che supera le solitudini  ma anche la dimostrazione della potenza della carica affettiva che si può far emergere nel mondo, nel nostro mondo della vita.

 

Luciano Ruffini. Sindaco di Tolentino.

Grazie Vincenzo, hai colto l’emozione di chi si accinge a parlare ad un pubblico importante, numeroso e nel momento in cui si comunica non può non esserci l’attenzione nel comunicare qualcosa che si sente e nel comunicare qualcosa che in qualche modo sia in sintonia con chi ci ascolta. Se così non fosse non sarebbe comunicazione e l’emozione fa parte del nostro essere, se vogliamo essere veri, se non c’è emozione non c’è verità.  Io qui intervengo, mi hanno inserito per i saluti, quindi debbo istituzionalmente ringraziare Prepos per aver fatto  dono alla nostra città di questo convegno e ringrazio tutti voi perché siete qui presenti. È una grande occasione per vivere insieme questa giornata di condivisione per San Valentino che a me è capitato di sperimentare in un paio di circostanze diversi anni fa. È un’occasione importante perché ci si incontra e si respira un’aria di comunità in cui i rapporti si allargano e intorno ad un modo di sentire  si fa relazione. Mi è stato detto di parlare dell’umanità nel mio lavoro. Il lavoro di sindaco. Oggi, riflettendoci un po’ sopra, voglio dire che fare il sindaco non è un lavoro. Essere sindaco è un insieme di relazioni, è una scelta di vita. Spesso lo si fa anche inconsapevolmente, si parte e lo si fa. Si incontrano tante persone, tante situazioni, tutte queste situazioni sono portatrici di valori, di umanità, di problemi, di opportunità. Ognuno ha una sua dimensione, quando si rivolge all’istituzione per  motivi diversi che costringono  chi è chiamato ad interagire a  capire prima di tutto chi ha di fronte. In caso contrario non riesce a stabilire. L’umanità, la prima umanità è nell’ascoltare e nel cercare di capire, però poi bisogna infilare una parola, un ragionamento, un argomento che possa in qualche modo consentire un rapporto, perché se resta un fatto unilaterale, a senso unico, è inutile incontrarsi. L’umanità si sostanzia in questo, ma si sostanzia anche con delle risposte concrete. Fare il sindaco non è un lavoro. Dante Alighieri, uno dei geni dell’umanità, è stato politico ed  ha dato della politica una definizione fondamentale:  “l’arte sublime” perché mette insieme la speculazione, la ricerca, la filosofia,  la praticità delle cose, il ragionare, il fare e il dire.

Le motivazioni dell’umanità nella politica sono queste. Entrare in un confronto, cercare di capire, cercare di dialogare, cogliere i valori, le esigenze, le istanze che a volte possono essere più di natura spirituale, a volte di natura più concreta, le motivazioni, il senso di quello che ci viene chiesto, piegare o indirizzare ciò che ci viene chiesto a seconda dei valori. Non essere macchine che  occupano un ruolo. Per me questo significa essere sindaco.

 

Loris Muner

Io sono di Venezia, abito a Lomagna perché la vita mi ha portato li. Vincenzo si sente privilegiato di essere qui, io mi sento terrorizzato, per cui vediamo come va a finire. Mi ha chiesto di parlare del mio percorso come testimonianza ed è un po’ per questo che ho accettato, perché di altre cose difficilmente saprei parlare, compreso il fatto di quale sia la mia umanità. Personalmente penso che non l’ho trovata la mia umanità, se non nel fatto che forse che può essere l’autenticità. La mia autenticità è nella mia imperfezione ed è questa l’unica cosa che sono riuscito a capire della mia umanità. È possibile che diventando più vecchio forse troverò qualcosa di cos’è l’umanità, per adesso ho trovato che sono imperfetto e posso essere umano nel momento in cui vivo autenticamente questa imperfezione, che un po’ è quello che insegno la via dell’imperfezione, perché non so fare altro. Si dice che quando non sai fare altro insegni, no? Per cui raccontare la storia mi ha fatto riflettere un attimo su cos’è raccontare. Raccontare è la forma più antica, forse l’unica forma di terapia che esiste. Si è sempre raccontata la storia intorno ai fuochi, la si è raccontava danzando, la si raccontava cantando, la si raccontava interpretandola e questa era la terapia. La terapia è data dall’ascolto della storia. In realtà quel racconto non era un racconto ma una narrazione. Adesso si racconta, una volta si narrava. La differenza sta nella differenza dell’ascolto. Adesso non si ascolta più per cui non si può narrare e allora non è più storia, è cronaca. Adesso siamo dei gran raccontatori di storielle abbiamo perso la nostra storia, perché abbiamo perso chi ascolta la nostra storia. Non si ascolta più perché l’ascolto è obbedienza e non si obbedisce più. Nel mio counseling narrare e ascoltare vuol dire cercare di scoprire nella grande storia, che è ognuna delle vite che incontro, qual è il mito che anima e da senso a questa storia. Non si trova il mito nella cronaca. Il mio maestro mi ha insegnato che bisogna rovesciare il tappeto e guardare la trama per capire qual è il mito, qual è il senso della storia. Il mito che ho scoperto nella mia storia è il mito del naufragio. È il nostos, il mito del ritorno, che  è il mito fondante dell’Occidente, il viaggio di Ulisse. Il mio viaggio comincia subito dall’inizio con un naufragio, con il rifiuto della vocazione. Io credo che a parte tutti i traumi normali che normalmente abbiamo subito tutti dalla madre, dal padre, il vero dramma  è quando noi sentiamo la chiamata e rispondiamo “no”!

A me è successo così. La Vocatio si è fatta sentire nello stesso momento in cui si facevano sentire gli ormoni, per cui alla Vocatio ho preferito l’eiaculatio. Li mi sono perso perché da quel momento in poi quello che ho cominciato ha seguire non era più la mia voce interiore, ma era qualcosa che era al di fuori di me. La vocazione si basa sui talenti che noi abbiamo dalla nascita, rifiutando la voca-zione, si rifiutano i talenti. Dal momento che si rifiutano i talenti, dice la parabola, si finisce nell’inferno. L’inferno in cui sono finito io era la dipendenza, e non per niente mi sono specializzato in dipendenze, perché non “fai il counselor” ma “sei un counselor”. La dipendenza si definisce come lo spostamento del centro al di fuori di sé. L’ideologia che ho seguito mi chiamava fuori da me e il mio benessere dipendeva da qualcosa che non ero io, fino ad appoggiarmi a sostanze, ideologie, innamoramenti, che sono la dipendenza più pericolosa di tutte. Quando ho incontrato la logoterapia, che mi ha un po’ fatto capire dove mi sono perso, ho scoperto che quello che avevo perso era il senso. Il senso si perde dal momento in cui si perde il contatto con la voce interiore: da quel punto in poi non hai più una guida. Il mio naufragio inizia nel momento in cui ho rifiutato il senso, da quel punto in poi ho cercato cose per riempire questo vuoto. Ho trovato l’antisenso, la dipendenza.

Crisi è un ideogramma cinese che si scrive con 2 glifi: uno vuol dire ”sfiga” più o meno, l’altro vuol dire “ opportu-nità”. Arrivai al culmine della sfiga ed iniziò l’opportunità, che è quella che sta arrivando ora. Ulisse si trova a bagnomaria nel Mediterraneo, ha perso tutto, ha perso i compagni, ha perso tutto quello che aveva rubato e si trova attaccato ad una trave in mezzo al mare. A quel punto invoca la dea, invoca la sua voce interiore, invoca qualcuno che è al di sopra del suo Ego e questo pian piano lo porta a casa. Il culmine del nostos è la crisi  e l’opportunità arriva quando molliamo la nostra superbia per cercare qualcuno che ci riporta a casa. Io ho trovato un logoterapeuta, il mio maestro, un filosofo ovviamente, una persona che mi ha insegnato tutto quello che so di logoterapia semplicemente mostrandomi com’era lui. La cosa più eccezionale che ho imparato da lui è che il senso esiste e che non ero un pazzo;  ero una persona alla ricerca di un senso. Il mio ritrovarmi è iniziato in Amnesty International ed in particolare nel corso della campagna per la liberazione di un prigioniero argentino. Quella persona ad un certo punto è uscita dal carcere argentino, ed io ho avuto una visone: ho visto lui che usciva dal carcere e ho visto sua moglie e suo figlio che lo aspettavano fuori. Li è iniziata la mia conversione, in quel momento ho visto un mondo che si salvava e il mio progetto è diventato: ne tiro fuori uno, me ne basta uno.

Con questo vocazione  ho cominciato a lavorare in una comunità terapeutica. Non più con l’ideologismo di cambiare un mondo ingiusto ma con la convinzione di poter aiutare un uomo alla volta, un mondo alla volta.

L’incontro con i tossici è stato stupefacente perché mi hanno insegnato l’auto aiuto, il confronto, la condivisione e l’autenticità. In comunità lavori come  modello e ti assumi il rischio di mostrare agli altri chi sei.

Questo mi ha preparato ad affrontare la vera crisi che è arrivata a 50 anni. Dio, voi chiamatelo come volete, improvvisamente mi ha tolto tutto. Mi ha tolto la moglie, mi ha tolto il figlio, mi ha tolto la casa, mi ha tolto il maestro, mi ha tolto il padre, mi ha tolto anche la pizzeria dove andavo a ubriacarmi: un disastro. Li ho capito che quello è il vero momento in cui io ero a mollo nel Mediterraneo.  Li ho capito la differenza che c’è tra Ulisse e il Figlio prodigo: Ulisse è tornato a casa dell’Ego, il figliol prodigo è tornato a casa del padre, che è il Sé. L’Ego che torna al Sé, completamente arreso alla mia voce interna, che per un logoterapeuta è l’orientamento alla costellazione dei valori. Da quel punto in poi ho fatto un patto con Dio e ho detto: “ok io mi occupo di seguire  quello che vuoi tu, tu mi dai tutto il resto, tutto quello che mi serve”. Ho preso sul serio la parabola degli uccelli e dei gigli, abbiamo fatto proprio un contratto: io faccio quello che tu vuoi, poi tu mi dai la grana, perché non posso fare le due cose insieme. Vi assicuro che funziona  se siamo in grado di seguire la voce del senso, il senso è assolutamente in grado di provvedere a noi e questa è la novità di questa crisi. La crisi serve a farci recuperare l’essenza dell’amore.

Il counseling è nella relazione IO-TU di cui parla Buber.  Io mi definisco io nel momento in cui sono capace di dire tu ad un’altra persona. Nel momento in cui l’altra persona è uno specchio in cui vedo chi sono.

 

Isabella Zucchi

Anch’io in questa aula di condivisione, di esperienze e di testimonianze scelgo di far parlare ciò che viene dal mio cuore raccontando la mia vita lunga sessanta anni e le sue  tappe abbastanza forti, sconvolgenti, con cambiamenti grossi. La prima cosa che vorrei dire è che tanti anni fa,  finita una scuola tecnica, ho lavorato come perito aziendale in azienda; un mondo in cui ho subito forti disagi, disagi di relazione,  di burocrazia  ed ho iniziato a cercare qualcosa che accendesse una maggiore motivazione in me. Con molta pazienza e disciplina mi sono laureata, lavorando, in psicologia rendendomi però subito conto che non era quella la tappa fondamentale.

Probabilmente mi ha aiutato molto l’aver lavorato per dieci anni in un carcere, dove l’incontro quotidiano con tante storie, tante personalità, tante culture, tanti modi, tanti scontri, con un mondo nel mondo. Attraverso gli altri si riesce a scoprire elementi di se stessi; il conoscersi si realizza attraverso l’incontro con il “Tu”. Il “Tu” è una occasione che apre ogni volta tappe, scenari, obiettivi della ricerca umana. In questo ho incontrato il mondo del counseling. All’inizio ho temuto che potesse riportarmi nel tecnico e ciò che è molto tecnico non lo sento mio.

L’umanità c’è in noi è sempre alla ricerca di qualcosa che spesso è paradossale rispetto alla realtà. Ricordo un esame in cui scelsi di presentare Rogers. Il professore mi disse : “ Ma con tanti autori proprio questo? Ma non funziona quello che dice lui! …non funziona perché questo modello è la sua persona che lo fa in qualche maniera efficace, però non è trasmissibile”. Questo tarlo da allora mi ha portato ad intestardirmi ed a dire: “Ma perché? Perché se in primo piano c’è la persona, l’incontro, l’umanità, l’interazione, la relazione”. La relazione educa, la relazione fa crescere, se io cresco è perché riesco ad incontrare l’altro, altrimenti dove vado? Un io senza un tu dove va? Non sa neanche di poter esistere, se non ha la conferma da parte dell’altro. Forse debbo a quel commento di quel professore la spinta a fare ciò che allora  non avrei mai pensato: essere responsabile della nostra scuola di counseling relazionale grafo-dinamico. Grafo- dinamico perché? Perché ci interessa il dinamismo dell’espressione grafica come manifestazione dell’autenticità della persona, della sua umanità. Tutto ciò che è approfondimento dell’umano è un’esperienza che coinvolge tutti i nostri livelli : mente, corpo, spirito. Il linguaggio di uno scarabocchio di un bambino è un segno, una manifestazione del suo modo di presentarsi da un punto di vista grafico e questa modalità, che cambia negli anni, cambia nei giorni, cambia da un giorno all’altro, conserva sempre però alla base ciò che è caratteristico del progetto individuale di ognuno di noi, cioè quella parte del cosiddetto innato. La parte che ci è stata consegnata come progettualità del nostro essere persona, della nostra umanità che cerca di manifestarsi. Progetto che va incontrato, sollecitato stimolato mediante  l’incontro tra due umanità, la tua e la mia. Attraverso questo accade l’esperienza del sentirsi accolti e capiti aldilà di riserve e condizionamenti.

Immaginate di pensare a voi, i vostri cambiamenti, anche a livello di dimensione anche dal punto di vista di espressione grafica. Quando scrivevate da piccoli, poi nel periodo dell’adolescenza per arrivare al periodo dell’età adulta. Nella grafia si vedono percorsi che cambiano. Tal volta passaggi da condizioni di schiacciamento psicologico a progressive energie che fluiscono e si  allargano mediante modalità,  ritmi, etc. Questi fenomeni mostrano che nella persona qualcosa è avvenuto.

 

Marco Ferrini.

Intanto vorrei ringraziare tutti voi ed esprimervi la mia soddisfazione nell’essere qua. Io parto da un aspetto minimale, sono venuto a conoscervi, sono venuto a vedere di quale famiglia faccio parte, in quale famiglia sono entrato. A volte sposiamo una persona ma non teniamo conto dei parenti e poi c’è da farci i conti. Vincenzo mi ha invitato ed io sono venuto. Ho detto vado a conoscere, a vedere chi sono le persone con le quali mi troverò a cooperare in una costellazione di associazioni, di gruppi. È la persona che dobbiamo guardare, la persona conta molto di più dell’organizzazione che rappresenta. Allora sono venuto a conoscere le persone,  ma soprattutto come piace a me e come ritengo sia nella mia modalità più naturale, ascoltare che cosa sento. Le emozioni sono una parte integrante, importante, fondante della vita di una persona che poi deve fare i conti anche con i pensieri. Queste due correnti di acque psichiche mentali, ma anche spirituali, devono trovare alla fine una bella armonizzazione per poter integrare la personalità e farne un modello almeno gradevole, perché è uno dei principali aspetti che mi ha stimolato dall’inizio di questa mia vita : trovare il modo di entrare in rapporto con gli altri, alla persona davanti a me, o che viaggia con me in questa vita ed offrire un contributo, offrire una possibilità di espressione attraverso di me. Una delle scoperte più più giovanili, più vicine ai miei ricordi più lontani della mia infanzia è stata quella di trovare il modo di dare l’opportunità alle persone che stavano con me perché potessero esprimere il livello più alto di libertà, di felicità e soprattutto di creatività e questo aspetto per me rappresenta, dopo 60 anni da allora, dalle prime esperienze, il traguardo più grande, il risultato più grande. Mi sono sempre misurato con gli altri nella misura in cui gli altri riuscivano capaci di esprimere se stessi. Esprimevano la più alta, la migliore capacità di espressione di se stessi. Per me esistono solo le persone, solo le relazioni. Il più grande capitale è quello delle relazioni. Gli amici, le amiche le persone che riescono ad esprimere una relazione in quanto persone libere. Il Migliore stimolo per un ulteriore successo così come chi ha sperimentato davvero l’amore anche solo in una briciola, in una goccia sa di che cosa sta parlando e lo può riproporre agli altri.

Attraverso questi incontri la scoperta di mondi interiori che diventavano sempre più affascinanti, anche quando all’esterno erano delle rovine dei disastri. Anche quando all’esterno avevano tutto il segno del fallimento sociale, politico, economico, spesso del fallimento della salute fisica, spesso la nevrosi era presente, era operante nella loro vita. Dentro, nelle loro narrazioni, nella loro ricerca di un senso della loro vita usciva la parte migliore, la aspirazione, il desiderio di approdare ad una parte migliore di se, ad una versione di se stessi che apparentemente contrastava con chi erano al secolo, quindi nel  loro ego storicizzato, nel loro io storicizzato, ma quella aspirazione, quel desiderio di essere in un certo modo, che non riuscivano ad esprimere o che, in gran parte la loro crisi consisteva proprio nella tensione, nel conflitto tra ciò che erano e ciò che avrebbero desiderato essere, proprio l’incontro con queste persone è stato sicuramente decisivo al pari dell’incontro con il mio maestro. Io dov’ero? Ero nel mezzo ad una umanità sofferente ma anche un’umanità affascinante perché cercava la perfezione, la idealità sapendo benissimo di non essere ne perfetta ne ideale.

Sono passati dieci anni, sono passati venti,ne sono passati trenta, ora trenta tre,  trenta cinque e si è raffinato sempre di più, si è specializzato sempre di più, si è approfondito sempre di più quella ricerca di essere efficaci nel rendere le persone felici. Che parola difficile, che parola impegnativa:  essere felici. Mi fa quasi paura scriverla, cancello sempre sostituisco con lietezza, con contentezza, con benessere, perché questo felice, questa beatitudine questa “ananda” in termini sanscriti è qualcosa  che attiene a ciò  che veramente interiore, a ciò che non dipende più da cosa succede all’esterno. Quando si capisce che non è tanto importante quel che succede quanto è importante la risposta che noi diamo a quello che succede. Mi ritornano in mente gli ideogrammi cinese che rammentava Loris prima di me. È proprio così, anche in greco crisi significa cambiamento, mutamento, non ha un significato così negativo come gli viene conferito generalmente nel linguaggio comune. Crisi è un’occasione, un cambiamento. Questo cambiamento se non si sa gestire può trasformarsi in qualcosa che ci porta ad una qualità di vita peggiore, questo quando sprofondiamo nella crisi, oppure quando voliamo sulle ali della crisi porta a trascendere la crisi, non soltanto ad elaborarla, non soltanto a trasformarla perché sempre di trasformazione si tratta, non solo a sublimarla ma a proprio a trascenderla. Capire che senza questa crisi noi non avremmo potuto superare i nostri limiti, quindi la crisi diventa una sorta di benedizione travestita da difficoltà. Quindi prendere l’occasione di quel che succede alla gente per poter mettere in crisi se stesso o se si vuole sotto osservazione se stesso, fare un auto analisi, fare un’ autodiagnosi, un’ autocritica è l’occasione che porta a crescere, quindi la voglia, il desiderio, l’oppor-tunità di dare un aiuto a chi che sia o se non sappiamo con certezza che sarà un aiuto nemmeno il desiderio di portare un aiuto, il desiderio di dare uno strumento, di porci a disposizione, di funzionare come uno sgabello, uno scaleo, funzionare come un’opportunità per restituire la persona a se stessa. Aiutare a guardare la persona in profondità che più in profondità si guarda più si innamora di se stesso. Non è un amore narcisistico .

 

Francesco Saviano

La mia storia è quella di un bambino affetto da mutismo. Da piccolo non volevo parlare in agione del conflitto con i miei genitori. Tutto il cammino della mia vita è un processo che mi accompagnato alla scoperta della mia umanità e del mio impegno nel fare quello che ho scoperto essere il counseling. Io valgo come il mio prossimo. Nel counseling ho messo tutto quello che sono. Io faccio quello che sono. Vorrei chiudere con la sensazione:, io quello che dico è non bisogna essere legati al giudizio dell’altro ed è l’unico modo per entrare in relazione con gli altri: entrare in relazioni con se stessi. Fatta la differenza tra sogno ed utopia, tolte le utopie, non esistono le cose impossibili, pensare che io adesso ho parlato e per questo vi ringrazio di avermi ascoltato e pensare che io ero quel bambino in quella macchina. Si può essere quel che si è.

 

Gaetano Mollo

Ho capito perché sono qui, sono fortunato perché trovo riferimenti ad una via che ho sempre ricercato.

Abbiamo bisogno di nuovi modelli. La relazione tra famiglie, tra persone, in quella comunità che ognuno trovava il suo senso nella diversità ma insieme. Quando insegnavo ai ragazzi del liceo, ,la domenica stavo male perché mi mancavano. Mi mancava la relazione.

L’università è stato un sacrificio lunghissimo, compensato dalla relazione con gli studenti e questa esperienza mi ha fatto riflettere sull’importanza di un nuovo modello relazionale dove sia sconfitta la soli-tudine e l’alienazione e l’indifferenza, dove l’aiuto reciproco possa essere al centro.

È necessario alimentarsi del contatto, la vicinanza la collaborazione da ricchezza e forza. Solo attraverso una relazionalità compartecipe, non solo di conforto, ma di cooperazione vitale come noi cooperiamo con Dio in un’evoluzione etica che assieme all’evoluzione cosmica. In questa logica in cui la coscienza collettiva  può crescere  e che può crescere attraverso una coscienza planetaria in forza di una coscienza cosmica, dove tutto è relazione.  Dobbiamo arrivare ad un modello che possa essere costruito da una relazionalità tra persone che collaborino nella costruzione piattaforme comunicative accumunanti, dimensioni di ascolto reciproco e di progettazione esistenziale non preordinata, non pianificata a seconda delle istanze della persona, del gruppo. Aldilà del modello interpersonale è importante un modello che possa essere usato nelle istituzioni, dove ancora c’è una struttura piramidale. Il nuovo modello potrebbe diventare un modo di vivere una felicità dell’attività facendo centro sulla ricchezza dell’essere che è sempre un animare attraverso l’altro ed anche se stessi. Scoprire che capire non serve a niente se non si comprende che soltanto assieme alla  cura per se stessi  ci prendiamo cura per l’altro nella similitudine per cui è l’alterego siamo noi, allo specchio nella diversità, per riconoscere, ritrovarci, riscoprire un’ umanità che non è data.

 

Elmar Zadra

Il tema che ci si presenta è dare spazio a questa dimensione profondamente umana. Ho riflettuto sulla mia vita io sono arrivato al counsling attraverso una grande crisi. Facevo un altro lavoro, consulente aziendale, ero sposato da otto anni ed eravamo in crisi. Se non avessimo avuto già avuto una figlia avrei già troncato come nelle relazioni precedenti. Aver fatto una promessa a me stesso di andare fino in fondo, mi ha tenuto nella relazione, mi ha dato quella dose di coraggio e di andare oltre i miei limiti. Insieme siamo andati da due counselor che ci hanno guidato, con approccio psicologico / tantrico e mi ci sono voluti due anni in cui ho scoperto che non sapevo amare. Io sapevo fare molte cose ma nelle emozioni mancava un pezzo, non sono stato rispecchiato in questo. Funzionava l’innamoramento ma non una relazione duratura. Due anni di Lotta contro me stesso per ammetterlo e poi tre anni per imparare ad amare, per uscire da quel mito: l’amore c’è o non c’è. Si può imparare ad amare.

Questo processo mi ha entusiasmato e ho intrapreso questo mestiere. Se dovessi tornare indietro lascerei passare un po’ di tempo tra il mio processo interiore e il mio lavoro. Noi lavoriamo sempre in coppia. Lavoriamo prevalentemente Relazione Uomo-Donna e poi anche sulla meditazione di coppia, ma questo solo per chi vuol andare oltre lo star bene.

Ho 51 anni e se guardo indietro le mie motivazioni erano sempre due:

1.      la ricerca della donna, la relazione con la donna;

2.      la relazione di Dio o dell’Assoluto.

In certi tempi prevale l’una in altri tempi prevale l’altra.

La questione non è o l’una o l’altra ma è più il combinare entrambi. Ero sofferente su questo piano, perché erano entrambi importante eppure sono cresciuto in una tradizione in cui si distinguono e l’uno esclude l’altro. Questa scissione mi dava problemi.

La domanda del perché l’umanità del counselor si è chiarita nel incontrare l’umano. È umano imparare ad amare, uscire da una falsa logica di reattività emozionale, per capire che il sentimento si costruisce.

 

Valerio Valeriani

Mi sono stupito su come si  sia creato in questa sala un clima affettivo - emozionale di questo tipo. Io  sono uno psicologo ed ho fatto una formazione in psicoterapia. Ho fatto esperienza  all’inizio nelle case-famiglia con persone con problematiche psicotiche o disabilità gravi. Facevo l’educatore e questa è stata un’esperienza di formazione alla vicinanza umana che mi ha portato a condividere più profondamente l’umanità della persona che incontravo. Adesso organizzo i servizi ma sono riuscito a mantenere degli spiragli di maggior contatto con la realtà. Nel mio percorso mi sono confrontato con modelli diversi, a volte anche conflitti.

Mito della psicoterapia. Nell’immaginario collettivo è legata all’immagine del setting psicoanalitico, dove la relazione è l’analisi con il bisturi del transfer. Ha una dimensione tutta sua: protetta, suggestiva, importante ma particolare, dove si confrontano due rappresentazione della realtà, ma una parte importante rimane fuori.

Modello burocratico e istituzionale. Se nel primo la formazione del ruolo ben definito, in questo è più forte è la formalizzazione della pratica non del ruolo. Il rapporto è più con il servizio che con la persona, con tutto quello che ne consegue. Pensiamo al tour nover che richiede la presa incarico del rapporto umano.

Modello romantico – cavalleresco dove c’è una bassa formalizzazione ed un’alta vicinanza. Mi viene in mente il film francese il “ favoloso mondo di Amelie”. La ragazza viveva la situazione di distacco e solitudine e da significato alla sua vita occupandosi degli altri. Dandosi la missione di mettere a posto le situazioni che nella vita dei suoi vicini e amici non vanno, senza che nessuno glielo chieda. Rappresenta lo stereotipo dell’assistente sociale, con una dimensione di generosità ma il rischio di onnipotenza e di colpa, quando le cose non funzionano.

Io vivo con un senso di fastidio il rapporto con il primo modello:  questo atteggiamento un po’ snob, di separatezza, dall’altra parte ho anche spesso senso di imbrigliamento rispetto al contesto burocratico istituzionale per tutte le mediazioni e glia spetti che ne comporta. Ci sono due cose che i miei collaboratori non devono dire: di chi è la competenza, di chi è la responsabilità, perché credo che il lavoro di aiuto sia un lavoro nel quale occorre compromettersi. Da un po’ di tempo stiamo cercando di  capire l’efficacia dei nostri servizi, specialmente ai minori. Emerge che siamo più in grado di prevedere che di prevenire, se andiamo indietro siamo in grado di dire quello li finisce male, ma non riusciamo a cambiare la storia evolutiva di una persona. Ragazzino in un centro per minori ha un rapporto speciale con l’autista a cui chiede di essere accompagnato a casa perché il papà spesso lo picchia.  L’autista lo riferisce all’operatore, poi al responsabile, poi la psicologa del consultorio, ognuno fa il suo pezzo senza però avere una sintesi efficace. Rispetto al modello romantico cavalleresco ho il timore che un consiglio non richiesto possa essere un pessimo consiglio o non utilizzato. SE dovessi capire cosa sta facendo mi verrebbe da dire: lo psicologo di campagna.  Sono appassionato di Simenon: il commissario Maigret., lo sento più vicino rispetto a Freud, pensando a cosa fa quando conduce le indagini. Si immerge completamente in una situazione, sembra impregnarsi degli umori, non rispetta il setting. Maigret negli ultimi libri fa carriera e gli viene precluso l’azione sul campo e vive peggio il dover testimoniare in un caso, dovendola condensare con una frase.

Io credo che un buon terapeuta sia molto simile al buon contadino: arare, concimare, seminare, innaffiare e poi aspetta. Non crea il grano ma mette in moto dei processi evolutivi normali, ha bisogno di tecnica, di conoscenza poi sostiene l’incertezza, si affida, ha bisogno di amore, di vicinanza, di empatia per capire quando intervenire.

 

Francesco Massi

L’intuizione dei Cavalieri di San Valentino si incontra con l’esperienza pioneristica del counseling, una storia lunga che io ho incontrato da poco, avendo conosciuto i formatori di altri formatori un seme che è germogliato, che sta spandendo valori nella società civile. La riconoscenza e l’ammirazione perché avete un bagaglio di umanità eccezionale, perché potete essere gli accompagnatori di questa società. L’utilità del counselor è poco conosciuta è una figura che è recepita negli ordinamenti del nord Europa, molto più che in Italia. Se l’Europa sta avanti noi dobbiamo adeguarci.

Il counselor serve per capire dove sono le vocazioni per la politica attraverso il counseling politico, come abbiamo organizzato qui. Il counseling ha fatto esprimere la vocazione al servizio politico. Nel corso di formazione al counseling politico mini ha incontrato una cinquantina di politici; alcuni li ha motivati, altri li ha smontati ed è stato un bene perché li ha costretti ad una riflessione. Scoprire, sollecitare, organizzare, gestire le vocazioni.

Nel rapporto tra l’uomo e il potere, la politica ha un primato particolare, che è il potere di conoscere i vizi e le virtù dell’uomo alla massima potenza. Non c’è nessun altro settore che ti faccia capire l’uomo come in questa relazione. Il politico è esposto al potere perché lo incontra tutti i giorni; il problema è capire se noi siamo pronti a interloquire con il potere e se il potere è pronto a interloquire con noi. È un urto, è un contrasto. In politica è necessario ridurre al minimo gli urti perché poi  fanno male. È necessario gestire anche le delusioni dei cittadini nei confronti del politico e viceversa, perché a volte dopo aver formulato i programmi ci si chiede se davvero il cittadino voglia cambiare. A volte c’è distanza tra cittadino e il politico. Un politico che si mette accanto un counselor lo dovrebbe fare per capire. Quando ero giovane politico i miei counselor sono stati i vecchi della politica, che mi hanno guidato portandomi a scoprire i valori ed a liberarmi dal narcisismo. È importante comunicare valori.  Grazie per quello che fate.

 

 

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