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RELAZIONALITÀ E CULTURA DEL CIVILE

 

                                                                           Vincenzo Masini

 

Pubblicato in C. Melchior, La rappresentazione dei soggetti collettivi, Forum, 2003

  

La relazione presentata da Donati al Convegno è la sintesi della ricerca “La cultura civile in Italia: fra stato, mercato e privato sociale” di Ivo Colozzi e Pierpaolo Donati [2002], (testo al quale si riferiscono le citazioni). La discussione verte sul privato sociale come sfera nella quale la “cultura civile” è dominante. La cultura civile nella sua dimensione relazionale è ipotizzata come la “distinzione-guida che caratterizza il codice simbolico specifico di quella sfera ... In tale sfera, il senso del civile può generarsi e rigenerarsi senza dover dipendere da altri mezzi simbolici e materiali, nonché dai loro codici culturali e operativi” [ Donati, 2002:23].

La ricerca attribuisce allo stato, al mercato e al privato sociale tre forme distinte di cultura civile, polarizzate o verso i valori istituzionalizzati dall'evoluzione della società politica, o verso i valori scambiati nello sviluppo del mercato o verso quelli della relazionalità interpersonale migliorata in senso sociosolidale. La ricerca si propone di rispondere alla questione se il privato sociale sia l'ambiente specifico della sociosolidarietà, all’interno del quale possono essere rintracciabili le caratteristiche precipue dei costrutti di quella parte del sottosistema culturale orientato alla relazionalità.

Assunta l’esistenza di una cultura che identifica il civile con la cultura tipica del privato sociale essa é comparata con altri modi di intendere il concetto di civile: “Coloro che identificano il civile con la cultura del privato sociale sono circa il 35% dei soggetti intervistati...l’altro 65% si divide tra le altre grandi culture: quella della società civile intesa come realtà politica che si invera nello Stato (che prende all’incirca il 30%) e quella della società civile intesa come mercato (che prende all’incirca il 25% essendo il rimanente – grossomodo 10% - totalmente incerto o non rispondente)” [Donati, 2002: 31].

Ciò significa, però, che le associazioni di terzo settore non sono il luogo specifico e proprio di quella porzione di cultura del civile orientata in senso relazionale. Nell’analisi delle differenze di orientamenti culturali, di valori e di atteggiamenti tra associati e non associati, la distribuzione è omogenea. Dunque, sia all’interno del campione di associati che del gruppo di controllo (non associati), i diversi valori ed atteggiamenti di società civile si distribuiscono in modo equilibrato. “Nella assoluta maggioranza dei casi la distribuzione delle risposte tra i due campioni è la stessa, disegna cioè, la stessa curva. Quella che cambia è l’intensità della scelta, cioè i valori percentuali a partire dai quali si disegnano le due curve” [Colozzi, 2002: 334].

La prima osservazione che deriva dallo studio della ricerca è che l’intero campione di “associati e non associati” presenta la copresenza equilibrata del complesso dei tre orientamenti culturali esaminati dall’indagine dal punto di vista valoriale, religioso, economico, normativo, amministrativo, procedurale, operativo, politico e culturale. In altre parole il risultato ottenuto è probabilmente simile a quello di un sondaggio di opinione su un campione rappresentativo della popolazione nazionale senza distinzione tra “gruppo di associati” e “gruppo di controllo”: una differenziazione equilibrata degli atteggiamenti verso la cultura del civile come privato sociale, del civile come stato e del civile come mercato. Questo dato ha una grande importanza giacché giustifica l’assunto teorico di base della ricerca sulla composizione della cultura civile. Le propensioni di atteggiamento ipotizzate come presenti nella società sono reali anche se non si distribuiscono come atteso in relazione all’appartenza o meno a formazioni del terzo settore.

Lo stupore che deriva dal fatto che gli atteggiamenti degli individui appaiano random incarnati in singoli uomini, distribuiti indipendentemente dalle loro appartenenze o non appartenenze, può trasformarsi in un interessante questione di teoria sociale e di metodologia di ricerca.

L’idea che viene alla luce osservando tale distribuzione è che gli atteggiameneti individuali dipendano direttamente dalla personalità degli individui e che la dislocazione delle personalità nei gruppi sia un processo funzionale all’equilibrio tra le diverse personalità. Il consolidato concetto di “gruppo latente” di Bales [1952], quasi un fantasma che sta alle spalle del gruppo reale e che ne determina le possibilità di esistenza, aiuta a comprendere tale processo di equilibrio tra le personalità. Se il gruppo fosse formato da individui con gli stessi tipi personalità, e le stesse propensioni, perderebbe la sua dinamica interna, la dialogicità tra i membri, il confronto e la possibilità di plasmarsi diversamente a seconda delle perturbazioni che lo attraversano, ridisegnando i ruoli ricoperti e rimodellando la struttura dei ruoli ricoperti. Spingendo più avanti il ragionamento si può giungere ad ipotizzare che le comunicazioni interpersonali nel gruppo possano potenziare le differenze di atteggiamenti distribuiti. Affinché in un gruppo si realizzi un arminico equilibrio interno è necessario che al potenziamento di un atteggiamento corrisponda l’aumento di un atteggiamento antidotico. All’aumento della tensione aggressiva di alcuni membri deve per forza crescere l’aumento della capacità di mediazione in altri; altrimenti il gruppo cessa di esistere come “quel tipo di gruppo” o cessa di esistere in assoluto. In tal senso l’equilibrio interno del gruppo aumenta la differenziazione degli atteggiamenti costringendo i singoli membri a rivestire panni e modalità di comportamento che accentuano le differenze.

Il fatto che gli orientamenti culturali, riscontrati negli atteggiamenti degli intervistati, si distribuiscano emblematicamente in modo equilibrato nel campione potrebbe confermare l’ipotesi della copresenza nei gruppi di atteggiamenti diversi il cui incrocio produce armonia. Tale ipotesi è però valida solo all’interno di alcuni particolari contesti, dove la cultura del gruppo non abbia già raggiunto un elevato grado di rappresentazione e di istituzionalizzazione. E’questo il caso della ricerca sulla cultura del civile. La rappresentazione della cultura civile in distribuzioni di processi di atteggiamento è una lettura ancora di avanguardia. Tale lettura non è infatti generalizzata nei soggetti afferenti al TS. Tale cultura non è ancora cognitivamente leggibile, da parte degli intervistati, come una nuova prospettiva politica o religiosa o economica. La stessa ricerca, effettuata all’interno di formazioni politiche o sindacali o economiche, all’interno delle quali sono ben esplicitati i valori di riferimento, non darebbe analogo risultato. In tali casi il “gruppo latente” rimane lontano, sullo sfondo, perché coperto dai processi culturali dominanti.

L’ipotesi del gruppo latente rimane valida anche in riferimento al gruppo di controllo dei “non associati”; anzi in tale contesto giustifica veritieramente il fatto che si possano leggere le componenti della “cultura civile” polarizzabili nell’ottica dello stato, del mercato e del privato sociale. In ultima analisi si può affermare che la lettura dei processi culturali di società civile siano leggibili nella chiave proposta da Donati (senza escludere altre possibili chiavi di lettura funzionalmente orientate ad altri modelli) e che tali processi abbiano sede negli atteggiamenti degli individui distribuiti nelle diverse formazioni sociali presenti nella società.

Vorrei però avanzare un interrogativo metodologico: “Il fatto che siano stati misurati gli atteggiamenti individuali verso la dimensione relazionale significa che é stata esaminata la dimensione relazionale in sé?”. La cultura relazionale dovrebbe emergere nelle relazioni, non negli atteggiamenti individuali verso la cultura delle relazioni medesima; almeno laddove non sia oggettivata come processo culturale dominante all’interno di una formazione, e cioè come tratto distintivo che guida quel gruppo nel suo processo di sviluppo.

Il concetto di “cultura relazionale” rimanda ad uno specifico modello di relazioni sociosolidali che dovrebbero essere lette nel loro cocreto esprimersi e non nelle opinioni individuali sulle culture relazionali medesime.

La cultura relazionale certamente produce atteggiamenti relazionali nelle persone ma perviene ad autoriflessività cosciente nelle singole persone solo dopo un processo evolutivo della consapevolezza del sé. Del resto, in psicologia sociale, l’atteggiamento viene definito come composto da percezione, conoscenza e motivazione, le quali non stanno tra di loro in relazione necessariamente equilibrata. Intendo dire che le persone intervistate vivono sulla base di un atteggiamenti relazionali ma non è detto che ne siano così consapevoli.

L’indagine sugli atteggiamenti relazionali è proposta, invece, attraverso la compilazione individuale del questionario. Viene da chiedersi: “Se fosse stato condotto un focus group (o una, ancor più attendibile, ricognizione quantitativa degli atteggiamenti valoriali in gruppo) all’interno di un gruppo, o di una associazione, sugli item della ricerca, gli atteggiamenti individuati avrebbero forse attivato una analoga distribuzione?”. Le scoperte sul trascinamento da parte della maggioranza o da parte dei leader, sulla condiscendenza, sul conformismo, sull’imitazione indicano che, probabilmente, gli associati, in gruppo, avrebbero risentito del trascinamento delle opinioni dei loro compagni. E, naturalmente, una ricerca attuata con una metodologia di gruppo su individui non in relazione tra di loro ma raggruppati in gruppo per la somministrazione del test, non avrebbe, al contrario, prodotto alcun probabile trascinamento da parte di leader stabili, ma solo eventuali processi di condizionamento sociale da parte di qualche partecipante sugli altri (in base alle personalità più o meno dominanti).

L’ipotesi che voglio avanzare è che la cultura relazionale emerga nella relazione e non negli atteggiamenti individuali. I diversi atteggiamenti individuali tendono a miglior equilibrio possibile all’interno del gruppo, la cultura di ciascun gruppo è la risultante di una convergenza collettiva in cui una piccola prevalenza media di un atteggiamento può far la differenza all’interno del processo gruppale complessivo.

Purtroppo non possediamo un aratro che sappia tracciare un solco netto tra sondaggio di opinione e network analisys se non l’auspicata convergenza tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa: la necessaria evoluzione delle intuizioni dell’individualismo metodologico in idealtipi, probabili, di atteggiamenti verificati mediante una ricerca grounded based.

L’analisi delle relazioni ha bisogno di uno sviluppo qualitativo, ovvero di una concettualizzazione che sappia distinguere il tipo delle relazioni, e di uno sviluppo quantitativo, ovvero di sistemi di rilevazione della quantità di quelle qualità.

Se il fuoco di analisi è la cultura civile del terzo settore, la cui definizione concettuale è in discussione proprio in ragione della sua stessa epistemologia, la qualità relazionale ipotizzabile in esso deve essere misurata in modo oggettivo attraverso la quantificazione del tipo di relazioni in esso afferenti. Un esempio di approccio di ricerca sul terzo settore che può mostrare il problema della qualità delle relazioni è una recente ricerca di Tronca [2003] sul processo di networking nelle associazioni partecipanti al Forum delle Associazioni Famigliari. Quando Tronca studia le relazioni basate sui contatti tra persone in contesti relazionali (assemblee, riunioni, ecc.) funzionali agli stili decisionali partecipativi[1], al principio di legittimazione[2] e allo stile fiduciario, appaioni importanti elementi di governance tra le associazioni.

Quando però affronta lo studio dei reticoli nei gruppi di lavoro, gli indici di betweenness mostrano che alcuni nodi sono riusciti a occupare delle “posizioni strategiche”[3]. Il tipo di relazione sociale che si attua nei Gruppi di Lavoro è, infatti, di qualità diversa rispetto a quella della cultura associativa letta nelle relazioni allargate delle formazioni. La struttura del gruppo di lavoro non è specifica di quanto attribuiamo al privato sociale, ma è mutuata dal contesto dell’impresa, si fonda sulla divisione dei compiti, sui ruoli, sulla motivazione anche competitiva, sulla produzione di risultati, sulla analisi dei costi e benefici (anche in ordine all’impiego del tempo). Inoltre il gruppo di lavoro è il luogo dove si elicitano le ambizioni personali, di carriera, la selezione dei migliori fino alle contese ed al mobbing. All’interno dei gruppi di lavoro sono più forti le relazioni d’integrazione e di complementarità e le opposizioni di incomprensione e di insofferenza, legate, queste ultime, ai processi competitivi innescati dalla cultura del profitto, degli obiettivi concreti da raggiungere, delle risorse da investire. Chi vive nella pratica della produzione di beni relazionali generalmente si ritrae da tali procedure delegando a qualcuno, più competente o intraprendente, tali compiti.

La cultura civile, nella linea di interpretazione di cultura relazionale specifica del privato sociale, mostra, nella distinzione funzionale al compito, almeno due dei suoi plurali aspetti. Il primo, apertamente comunicativo e relazionale, va nella direzione della governance, il secondo, gestionale, va nella direzione del risultato di impresa.

Sembra così di essere sulla soglia di un varco teorico e metologico di grande portata: nello specifico emergente della cultura del privato sociale, e in una fase in cui la sua epistemologia non è ancora giunta ad una condivisione istituzionalizzata nei soggetti collettivi delle sue formazioni sociali, trova spazio per esprimersi un problema teorico più grande: il soggetto diventa collettivo quando ha davvero coscienza di essere tale perché ha appreso, dalla natura delle sue relazioni intersoggettive uno suo precipuo modo di essere soggetto, ed entità culturale, in relazione ad altri soggetti con altre modalità relazionali?

I dati della ricerca di Colozzi e Donati sulla cultura civile in Italia indicano l’esistenza di una cultura civile orientata in senso relazionale, ma non individuano la specificità del luogo sociale; da qui l’esigenza di aprirsi ad un modello che tenga conto della dispersione della cultura civile in tutti i sottosistemi.

E’ necessaria una fase di ricerca che si incentri più sullo studio della qualità dei reticoli che non sullo studio degli atteggiamenti individuali.

Questo percorso di ricerca è oggetto degli studi dello scrivente indirizzati ad individuare le tipologie relazionali nei gruppi sulla base di costrutti di affinità e di opposizione relazionale nelle personalità collettive. Tali tensioni relazionali sono state investigate dallo scrivente all’interno di gruppi di lavoro dei servizi, all’interno delle classi scolastiche, all’interno di comunità di recupero, all’interno dei condomini [Masini, 1995, 1998, 2000]. Esse possono essere quantificate attraverso la formulazione di item relazionali costruiti allo scopo di discernere le qualità delle relazioni in funzione della “personalità collettiva” dei gruppi. Questo concetto si pone a metà strada tra l’analisi funzionale del gruppo e l’analisi dell’equilibrio tra personalità individuali, al fine di spiegare la specifica qualità di quel particolare gruppo. L’equilibrio riscontrato dalla ricerca di Donati e Colozzi tra tre grandi ambiti culturali, connessi all’espressione di atteggiamenti valoriali e relazionali, appare come un segnale empirico significativo della possibilità di costruire una teoria dell’equilibrio nei sistemi. Ed è di fondamentale importanza il fatto che la distribuzione omogenea degli atteggiamenti avvenga all’interno di un settore di ricerca in cui non è diffusa una istituzionalizzazione culturale dei fenomeni studiati. 

 

Bibliografia

Bales R., Parsons T., Schils E., (1952), Working Papers in the Theory of Action, The Free Press, Glencoe

Donati, P. e Colozzi I., (2002), (a cura di) La cultura civile in Italia: fra stato, mercato e privato sociale, Il Mulino, Bologna

Masini V., (1995), Dalla classe al gruppo, Provveditorato agli Studi, Terni

Masini V., (1998), Personalità collettive, valori ed economie nel terzo settore in Gasparini A. (a cura di), Interessi, valori e società, Angeli, Milano.

Masini V., (2000), Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è Possibile, Caltagirone

Tronca L., (2003), La governance del Forum: tra partecipazione e centralità decisionale, in P. Donati e R.Grandini (a cura di), Associare le associazioni familiari. Esperienze e prospettive
del Forum
, Città Nuova, Roma



[1] “Ben il 42.86% degli intervistati si colloca nello stile della decisione con consultazione informale e ratifica formale, il 32.14% in quello della decisione con consultazione formale, il 10.71% nello stile della decisione attraverso delega, un altro 10.71% in quello della decisione con-divisa ed il 3.57% (un solo caso) nello stile della decisione co-ordinata. In buona sostanza, lo stile decisionale che gli intervistati giudicano implementato all’interno del Forum è collocabile, nel continuum centralizzazione/partecipazione, in una zona centrale tendente però verso una maggiore centralizzazione della decisione. Ciò dimostra certamente l’altissimo livello di fiducia di cui godono gli organi direttivi del Forum, [Tronca, 2003: 11].

[2] Tronca riferisce che: “il 50% si riconosce nel principio della funzionalità, il 25% in quello del progetto , il 14.29% in quello della volontà generale, il 7.14% nel principio della competizione corporata e il 3.57% in quello dell’ispirazione. Complessivamente, l’82.14% (percentuale aggregata relativa ai principi prevalentemente partecipativi) degli intervistati ritiene opportuno che nel Forum tutti i membri abbiano la possibilità di ritagliarsi un proprio spazio nell’assunzione di decisioni” [Tronca, 2003: 12].

[3] Quattro attori, infatti, fanno registrare indici d’interposizione puntuale che vanno da 38.61 a 73.85, mentre i restanti membri dei Gruppi di Lavoro, pur essendo dotati di livelli di centralità locale e relativa non trascurabili, occupano delle posizioni sostanzialmente marginali all’interno della rete (hanno, cioè, livelli di betwenness sensibilmente più bassi).