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Atti del X° Convegno Nazionale

di “Prevenire è Possibile”

14,15,16 Febbraio 2003, Lucca

 

a cura di Lorenzo Barbagli

ed Emanuela Mazzoni

 

Indice

Presentazione del Convegno Vincenzo Masini

 CAPITOLO 1 La Famiglia

 1.1 L’educazione come strumento del miglioramento Giuliana Aquilanti

 1.2 Associazione Valdarnese di solidarietà: migliorare il lavoro dei genitori Giovanni Bigi

 1.3 Cosa è il miglioramento e l‘artigianato educativo? Giuseppe Citti

 CAPITOLO 2 La Scuola

 2.1 Miglioramento e apprendimento scolastico: Progetto “Gestione delle classi” Carla Reggianini

 2.2 Portfolio: l’orientamento in Casentino, storia del progetto Giorgio Renzi

 2.3 Il Progetto “Porfolio”: migliorare l’orientamento e la dispersione Lorenzo Barbagli

 2.4 Le Consulte degli studenti nella prevenzione dei comportamenti a rischio Loreto Tizzani

 2.5 Il progetto “Amicizia” in Molise:Perché lo sviluppo di relazioni amicali autentiche, può prevenire la dispersione! Emanuela Mazzoni

2.6 L’approccio della consulenza per le scuole dell’Umbria Franco Lo Maglio

 2.7 L’Autovalutazione d’Istituto Patrizia Berardi

 2.8 Il miglioramento nella scuola Alfredo Pierotti

 2.9 “Star bene a scuola”: ricerca-intervento sul coinvolgimento emotivo degli insegnanti Angelo Possemato

 CAPITOLO 3 Le Organizzazioni

 3.1 Esperienze di giustizia minorile  Isabella Mastropasqua

 3.2 Raccontare, resistere… processi di miglioramento nelle organizzazioni Rosalba Romano

 CAPITOLO 4 La Societá

 4.1 Il miglioramento educativo Antonio Viviani

 4.2 Il “SolCo”: migliorare la disabilità Domenico Polisano

 4.3 Il dolore della scomparsa Elisabetta Pfanner

 4.4 Psicologi e miglioramento Rolando Ciofi

 4.5 Il Miglioramento nella filosofia o una filosofia del miglioramento? Giuseppe Bertini

 

  Presentazione del Convegno       

 Vincenzo Masini

 Il 10 Convegno Nazionale è stato organizzato in un significativo momento di trasformazione del progetto Prevenire è Possibile. E’ questa la terza trasformazione dopo il primo approccio movimentista e giovanilista, quando venivano a raccolta a Terni, nel giorno di San valentino, migliaia di ragazzi, accompagnati dai loro educatori, che partecipavano ai gruppi di incontro, e dopo la nascita della strategia dell’artigianato educativo, un insieme di atti educativi “artigiani” attraverso i quali orientare i giovani e le loro relazioni verso il miglioramento.

Il concetto di miglioramento, su cui concentriamo l’attenzione in questo convegno, ci sembra il più efficace per coniugare sia i problemi educativi del singolo, giovane o adulto, sia i problemi delle sue relazioni (luogo peraltro di verifica del l’efficacia del processo di artigianato educativo), sia quelli più ampi delle difficoltà sociali e politiche e amministrative dell’organizzazione degli interventi di aiuto alle persone.

Le tre diversi fasi di sviluppo del progetto di prevenzione che caratterizzano la storia della nostra associazione richiedono una più dettagliata descrizione.

"Prevenire è Possibile" nasce negli anni ’80 come slogan che sintetizza un metodo d’intervento applicato a molteplici ambiti di lavoro: le scuole, i gruppi di comunità e di casa famiglia, le famiglie e le aziende. Il processo di lavoro preventivo si focalizzava sull’idea di applicare a diversi contesti le esperienze relazionali attuate all’interno di molte comunità di recupero per tossicodipendenti.

“Se un certo tipo di stile relazionale e di clima di gruppo serve a recuperare dalla tossicodipendenza e dal disagio, perché tal tipo di processo non può risposndere alle esigenze di organizzare la prevenzione?”. Questa la domanda, retorica, implicitamente posta all’innesco del processo di lavoro dei primi gruppi di incontro. Tali gruppi, specialmente in ambito scolastico ma anche all’interno di associazioni e di aziende, si costituiscono come unità di discussione e di espressione delle emozioni e dei sentimenti.

Il nostri progetto non ha mai accettato l’idea di una prevenzione configurata come un rigido metodo finalizzato alla costruzione di un modello di uomo astratto. Prevenire significa offrire ai giovani occasioni per conoscere meglio sé stessi e gli altri, testimoniare loro i valori più significativi, indicare la via dell’equilibrio per gestire i momenti difficili, i conflitti e le contraddizioni, chiedendo loro di essere autentici protagonisti della vita, della comunità, della società. In quest’ottica prevenire significa quindi proporre momenti attraverso i quali si trasmettono vissuti, emozioni, sentimenti positivi in cui riconoscersi.

L’aver dato corpo concreto a questi assunti, pubblicati in alcuni articoli e volumi di ricerca, ha mostrato la praticabilità di applicare il modello comunicativo del gruppo di incontro alle realtà più diverse. Un passaggio significativo sarà la ricerca su 25 td thailandesi, pubblicata dall’Università per Stranieri di Perugia, che individua i più significativi processi empatici intervenienti in percorsi di recupero. Da questi studi, e soprattuto dalla pratica sociale, nasce la prima strutturazione delle 10 regole di conduzione del gruppo di incontro.

La diffusione dei gruppi sarà esponenziale: nei primi anni 90, nella città di Terni, patria di questa sperimentazione, saranno attivi, a diverso titolo, 63 gruppi d’incontro, con più di un migliaio di partecipanti. Il progetto si estende dapprima alle città limitrofe, Rieti, Foligno, Viterbo, Perugia per poi diffondersi a livello nazionale. Per questo nel 1994 prende corpo l'idea del 1° Convegno Nazionale PREVENIRE E' POSSIBILE in occasione del 14 febbraio, festa di San Valentino (Patrono di Terni), un itinerario educativo di tre giorni a cui partecipano 1.200 giovani di tutta Italia che viene ripreso da RAI 2, Il Coraggio di Vivere. La suggestione del primo incontro e l’ ulteriore diffusione del metodo di lavoro nei gruppi, mostra l’esigenza di costruire itinerari educativi più mirati. I giovani si innamorano dell’annuale viaggio a Terni e viene loro proposto un suggestivo obiettivo per la loro personale crescita educativa. Diventare Cavalieri. “Vieni a Terni e diventa Cavaliere di San Valentino!”. E così l’anno successivo, 1995, l'Incontro Nazionale avrà per titolo LIBERA IL CAVALIERE CHE C'E' IN TE; partecipano ai lavori 1.500 persone, tra giovani e loro educatori e, alla presenza del Sindaco, del Vescovo e del Prefetto di Terni viene ufficializzata l'idea di offrire ai giovani dei gruppi di diverse parti d'Italia la possibilità di essere riconosciuti come "Cavaliere di San Valentino". Momento culminante dell'itinerario educativo sarà la meditazione alla cascata delle Marmore, aperta per tale scopo, nella notte del 13 febbraio. Il successo della manifestazione è molto grane, anche grazie al fatto di essere ospitati sulla rasmissione di RAI 1 "Domenica In".

L'anno successivo, 1996, nel convegno UNA LEZIONE DI DEMOCRAZIA viene formalizzata in assemblea, con 350 soci fondatori, l’Associazione che riceverà il riconoscimento come associazione di volontariato e l'iscrizione all'Albo Regionale dell'Umbria.

Nel 1997 l'Incontro Nazionale ha come oggetto il metodo di lavoro ne IL GRUPPO DI INCONTRO. L’esperienza dei gruppi è al suo culmine e comincia a nascere la consapevolezza di precisarne i confini, il senso, e la direzione progettuale. Si comprende la differenza pratica e operativa tra gruppo di incontro, gruppo di lavoro e gruppo di formazione, se ne chiariscono gli ambiti, gli scopi e gli stili di conduzione. Il concetto di personalità collettiva di gruppo è il cardine su cui si fondano i criteri per l'organizzazione o di gruppi di incontro o di gruppo di lavoro o di gruppi di formazione a seconda delle necessità e dei bisogni dei partecipanti o delle diverse formazioni sociali che si rivolgono a Prevenire è Possibile. Questa modulazione, della quale comincia a vedersi l’intreccio relazionale, consente di orientare le formazioni sociali verso il loro particolare, più armonico possibile, equilibrio interno con una aumentata efficacia nel raggiungimento dei loro fini. Il contesto più significativo dell’applicazione del concetto di personalità collettiva fu quello della classe scolastica, ambito nel quale le rilevazioni, cominciate nel 1993, hanno consolidato la struttura di interpretazione attraverso la teoria e il modello dei grafi.

La prima grande svolta nel processo di lavoro di Prevenire è Possibile, preparata dal lavoro sociale e di ricerca di cui s’è detto, avviene dopo la riunione nazionale del 1997, LA PREVENZIONE DIFFUSA, e matura nel 1998 nel convegno nazionale L'ARTIGIANATO EDUCATIVO. E' l'occasione in cui vengono discusse le tipologie del disagio, sperimentando il Questionario di artigianato educativo e, dopo aver diviso i partecipanti nei gruppi degli avari, ruminanti, deliranti, sballoni, apatici, invisibili ed adesivi, verificando le caratteristiche dei tipi per definire collettivamente i termini con cui i tipi sono descritti. Tutti sentivamo la necessità di un linguaggio, non accademico e nemmeno diagnostico, con cui descrivere i giovani nei loro fondamentali copioni. E tutti sentivamo la necessità di comprenderci nel significato attribuito a tali termini. Inoltre volevamo che, pur se chiarificanti, tali termini non fossero etichettanti ma leggermente ironici, scherzosi. Non pensavamo, comunque, che, proprio sulla base di tali termini, stesse prendendo forma una veraq e propria teoria della personalità, scientificamente fondata e socialmente condivisa.

Il percorso teorico che prende le mosse dalla teoria dei tipi e le sue applicazioni portano ad un proliferare di esperienze di realizzazione di servizi, di formazione e di ricerca. Nel 1999 il convegno viene svolto a Palermo, dove l'Associazione del Cavalieri di San Valentino di Palermo, ha aperto una casa famiglia per bambini da 0 a tre anni. L'incontro si svolge a Villa De Gregorio presso il centro della Comunità Incontro ed i tre giorni hanno come titolo LA LIBERAZIONE DELLA PATERNITA' E DELLA MATERNITA'. E’ in quel convegno che si avverte la necessità di fondare la teoria di Prevenire è Possibile e le sue realizzazioni pratiche su tre versanti: la teoria dei tipi, la teoria delle relazioni e la teoria delle personalità collettive e connettere questi tre diversi livelli tra di loro.  La fase più giovanilista e partecipativa è definitavamente conclusa; ormai non rappresenta più una innovazione riunire tanti ragazzi; da un lato si corre il rischio di confondere la profondità del lavoro educativo con una gita scolastica, dall’altro le energie di socializzazione degli anni ’80 sono del tutto esaurite sul finire del millenio, attraversato dalla confusione di molteplici correnti sociali, anche contraddittorie. Comunque l’incontro del febbraio del 2000 avviene presso la Cascata delle Marmore per vivere insieme il semplice momento della meditazione ed ha come titolo UN MOMENTO DI SILENZIO. L’anno dei Giubilanti è stato comunque oggetto di ricerca: in un recente volume la teoria dei tipi è stata un utilisimo strumento applicativo per descrivere le tipologie di religiosità dei giubilanti ed aprire all’ipotesi che tali modelli di religiosità siano invarianti nelle diverse religioni.

Il Convegno del 2001, svoltosi ad Arezzo, Tregozzano, mostra la maturità della fase di ricerca-azione sull’artigianato educativo. Per due giorni gli operatori di Prevenire è Possibile hanno discusso sul come sia possibile difendersi dagli attentati ai sentimenti. Il titolo AREZZO 2001 DALLE EMOZIONI AI SENTIMENTI riprendeva i temi trattati nel volume omonimo ma la discussione si è avventurata sui vissuti infantili di ciascuno dei partecipanti individuando le ragioni della loro debolezza e della loro forza. Una sintesi ideale tra le riflessioni sulla paternità e sulla maternità di palermo e sull’infanzia ad Arezzo, avviene a Rieti con il tema OPPOSIZIONI & AFFINITA'.  Con la tensione verso la realizzazione di un agire comunicativo mirato all’intesa si sono messe a fuoco le dinamiche relazionali intrafamigliari portando a compimento il modello per la ricognizione delle tipologie famigliari e delle reti relazionali che le caratterizzano.

Ecco perché, in questa storia di pratica e di ricerca, il convegno, di cui presentiamo gli atti rappresenta una terza svolta. IL MIGLIORAMENTO è obiettivo teorico e pratico individuato come direzione del mutamento ma anche come funzione teleologica dell’azione, come fine ultimo della ricerca ma anche come attrazioni desiderante verso la realizzazione nel mondo.

Discutere di miglioramento in un momento in cui sembra che la qualità umana, relazionale e sociale sia peggiorata in modo visibile e preoccupante nei nostri contemporanei modi di vivere, può sembrare un controsenso. Non lo è qualora lo sforzo sia diretto, a tutti i costi, al raggiungimento dell’obbiettivo della semplicità: molti infatti sono capaci di essere complicati, pochi di essere semplici.

La semplicità è punto di arrivo di un lungo viaggio attraverso l’esperienza della vita. La complessità è il luogo dove si gioca la sfida tra ciò che è umano e ciò che umano non è. Il miglioramento educativo, relazionale e sociale sta all’incrocio tra i molti punti di vista con cui si guardano le persone e, in particolare, i giovani: il punto di vista del genitore, del maestro, dell’insegnante, dell’educatore, dello psicologo, dell’amministratore e dello sguardo con cui le persone guardano se stesse.

Al posto di uno schema incentrato sulle strutture e sui ruoli si sente il bisogno di un approccio empatico alla persona centrato sulle sue qualità e sui suoi bisogni: schema su cui possono convergere i tanti diversi punti di vista. Ad esempio, a partire dai punti di vista dei genitori e degli insegnanti: che è centrale se ci si occupa di educazione dei giovani.

Oggi, nonostante la grande sfida della qualità attraverso certificazioni ed accreditamenti delle diverse strutture che erogano servizi, nonostante le complicate procedure richieste per portare i servizi, ed i rapporti tra le persone al loro interno, all’altezza di una nuova concezione di qualità, ci sembra che non avvenga alcun miglioramento reale ma, semmai, si generino e rigenerino, in continuazione, procedure sempre più astratte e lontane dal vissuto quotidiano della gente.

L’esito per le persone, per le famiglie, per gli studenti, per i ragazzi che ne sono usciti, per i giovani in obbligo formativo, per gli adulti, “dopati” e stressati da un mercato del lavoro che chiede sempre di più e che restituisce sempre di meno sul piano della qualità della vita, è un grave disorientamento.

Questo è il motivo per cui, nel nostro 10° convegno nazionale, è necessario parlare del miglioramento educativo e psicologico della persona, del miglioramento sociale e relazionale, del miglioramento spirituale e interiore.

C’è un altro motivo, intimamente connesso al modello di lavoro di “prevenire è possibile”, per affrontare  con semplicità il tema del miglioramento: non si può non migliorare…; l’alternativa è adagiarsi in una accettazione di sé, e degli altri, falsamente tollerante perché passiva e rinunciataria, mistificante perché priva di qualunque anelito alla comprensione e alla condivisione, muta perché incapace di narrare una storia individuale e comune, fredda perché anestetizzata dalle emozioni, vuota perché priva di sentimenti. Il miglioramento è indispensabile nel percorso di vita individuale e collettivo, perché migliorare “fa bene”... Il primo risultato di ogni miglioramento è, infatti, la soddisfazione e il buon umore. E il buon umore si accompagna a quella magnifica esperienza del vivere che è l’autoironia e l’umorismo. Questo è il significato del logo, tenero e temerario, del convegno di quest’anno.

Pubblicazioni in cui si affrontano le tematiche del progetto Prevenire è Possibile:

Proposte  di impegno sociale e di lavoro  per  gli  operatori della  scuola che rifiutano l'inerzia di fronte  alla  crescente diffusione delle tossicodipendenze, Lega contro la droga,  Palermo, 1983

Dalla droga si esce Segno n. 46-47, Palermo, 1984

Comunità Incontro: una proposta di vita , Roma, 1985

Le comunità sono una proposta per il cambiamento della qualità della  vita Atti del Convegno " Modelli di Comunità  Terapeutiche ed  intervento legislativo della Regione Siciliana"  International Association of Lions Clubs, Palermo, 1985

Riformare  la legge 685 Edito dalla  Comunità  Incontro  come supplemento alla rivista "Il Cammino", n.3, 1986 ristampato nella Rivista della Libera Università di Trapani, n. 17, 1987

La  tossicodipendenza è un momento  di  transizione,  Rivista della Libera Università di Trapani, anno V, n. 14, Trapani, 1986, pag. 5-34.

Comunità Terapeutiche e servizi pubblici in Autonomie Locali e Servizi Sociali, Serie Nona, n. 3, Il Mulino, 1986

Dossier  su metadone e psicofarmaci  Università  dell'  Uomo, Comunità Incontro

Cinque tesi sulla droga, in Essere, anno IV, n.1, 1988

Tendenze e linee di sviluppo delle  comunità  residenziali e dei rapporti con gli enti pubblici, Bollettino  Farmacodipendenze e Alcoolismo, Ministero sanità, n. 1-2 , Roma, 1988

La risposta all'emarginazione, al disagio ed alla  solitudine è fare comunità tra gli uomini, Camminiamo Insieme, Aprile, 1988

Informazioni  per  le  famiglie , "  La  famiglia",  n.  146, apr.1991,  ed. La Scuola, Brescia e ristampato a cura  di:  Lions Club  di San Severo, Bari; Associazione Porta Aperta  ,  Foligno; Comune  di  Marino, Roma; Associazione VITA,  Fermo,  Ascoli Piceno;  Commissione Sanità, UIL, Roma; Comune di  Solarino,  SR; Caritas Diocesana di  Siracusa; Gruppo Ascolto Melegnano, Milano; Associazione  Insieme,  Viareggio;  Casa del  Sole,  Benevento  e Napoli;  Gruppo Tre Gabbiani, Salerno; Gruppo  Ascolto  Pozzallo, Ragusa;  Comune di Cava De' Tirreni (SA); Comunità  Mondo  Nuovo, Civitavecchia;  Associazione  AVET, Genova; Ce.M.S.  e  Banco  di Sicilia;  Corriere dell' Umbria - inserto -;  Associazione  Vita; Chianciano;  Associazione Sarzanese di Solidarietà.  Tradotto  in Spagnolo  "Decalogo  de  la droga, Informacion  a  las  familias" Diputacion del Albacete, Espana, in  Inglese e Thailandese a cura della Comunità Incontro sede  di Lamsai, Bangkok, Thailandia e in Croato, Comunità Incontro,  sede di Spalato

Le strategie di recupero nella Comunità Incontro,  Esperienze Sociali, n. 60, Palermo , 1990, pag 64-76

Tossicodipendenza  e  lavoro, in Studi  Sociali,  n.9,  1990, Edizioni Dehoniane, Roma

La prevenzione della tossicodipendenza nella scuola  Comitato Antidroga dell'Unione Commercio di Perugia, PG 1991

L'identità, Orientamenti Pedagogici,  Rivista internazionale di Scienze dell'educazione, n. 221, 1991, Roma

Droga  Disagio Devianza: dalla  comprensione  al  trattamento IFREP, Roma, 1992, pag. 344

La Formazione alla Responsabilità, Scuola Formazione Responsabili, Comunità Incontro, 1991

Le  comunità per tossicodipendenti ( in coll. ) Labos, Edizioni T.E.R., Roma, 1994.

La diversa vita degli ammalati di AIDS Sanare Infirmos,  Rivista quadrimestrale dell'Istituto Scientifico H San Raffaele,  n. 14, marzo 1993, Milano

L'Università dell'Uomo Il Cammino, n.2/93, Roma

Dossier: Prevenire è possibile, Il Cammino, n. 3/93, Roma

L'empatia nel rapporto educativo di orientamento e di  aiuto e  le strategie della prevenzione, La condizione giovanile,  problemi  e prospettive, Provveditorato agli Studi di Terni,  Terni, 1993

Prevenire è Possibile, Edizioni Casa nel Sole, Benevento,1993

Famiglia e Comunità, Comunità e famiglia: attese conflitti  e cooperazione,  Atti della XV Conferenza Mondiale  delle  Comunità Terapeutiche, Federazione Mondiale delle CT, Venezia, 1993

Famiglia  e  tossicodipendenza: il  contributo  delle  teorie relazionali, Orientamenti Pedagogici, Anno XLI, n. 6, Roma, 1994.

"Prevenire è Possibile", in Atti del Corso di formazione  per operatori  pubblici e del volontariato, Edizioni Casa  nel  Sole, 1993, Benevento, seconda edizione in occasione della  istituzione de "I Cavalieri di San Valentino", Centro Stampa Ateneo  Salesiano, Roma, 1995

Responsabilità, Edizioni Comunità Mondo Nuovo, 1994,  Civitavecchia, 1994

La cultura della droga in 1 Meeting Internazionale  "Rainbow", San Patrignano, 1995

Comunità: quale futuro, Il Cammino n.2, Roma, 1995

Dalla classe al gruppo: indagine sulla personalità  collettiva di 207 classi, Provveditorato agli Studi di Terni, Terni, 1995

La sfida educativa internazionale del recupero dalla droga  in  Atti  del Congresso Internazionale "Community  Without  Borders", Nakorn Nayok, (Bankog-Thailand), May, 1995

L'empatia nel gruppo di incontro, Istituto di Sociologia Don luigi Sturzo, Caltagirone, 1996

Il lavoro educativo sul disagio e sulla tossicodipendenza, 16° Convegno Internazionale della Comunità Incontro, “Volontariato Cattolico”, Roma, 1997

Prevenire è possibile in Lo Sport contro la droga, C.O.N.I., Roma, 1997

Voci “Devianza”; “Emarginazione”; “Violenza”; in Prellezo, Nanni, Malizia, Dizionario di Scienze dell’educazione, ELLE DI CI, LAS, SEI , Torino, 1997

 

  1.1 L’educazione come strumento del miglioramento

 Giuliana Aquilanti

L’educazione rappresenta il percorso di maturazione che ciascun essere umano è chiamato a vivere per giungere all’età adulta.

Educare un bambino significa sostanzialmente collaborare con lui perché diventi capace di agire da uomo, di strutturarsi liberamente in rapporto ad un fine ultimo e comprendendo al suo interno un’ideale etico.

Agire da uomo vuole dunque dire imparare a seguire dei riferimenti morali nei confronti di sé stessi, degli altri, del mondo, mettendone al servizio la propria intelligenza ed il proprio cuore.

Ciò che infatti caratterizza l’essere umano, rendendo lo differente da tutti gli altri esseri viventi è la capacità di amare intesa e sviluppata intorno ad un senso etico ed una dimensione di autodeterminazione.

E’ dunque possibile affermare che l’obiettivo di miglioramento di ciascun individuo sia il divenire capace di amare.

 La famiglia educatrice

L’essere umano inizia il suo processo educativo nella famiglia, è in essa che sperimenta le prime forme di relazione e le prime socializzazioni. In quest’ottica ha dunque senso parlare del ruolo della famiglia nel miglioramento dell’uomo.

In effetti essa si caratterizza come l’unica istituzione educativa la cui struttura ed il cui metodo sono guidati da inclinazioni naturali, per questo è possibile definire il sapere educativo genitoriale come un sapere artigianale.

Come istituzione educativa la famiglia si colloca in una posizione di preminenza rispetto ad ogni altra istituzione (la scuola, il gruppo amicale, l’associazione, la squadra di calcio o altri sport ecc.) divenendo, all’interno del processo di crescita dell’essere umano:

·        Insostituibile: oltre infatti al dato percettivo e sensoriale (sia che per famiglia si intenda la famiglia biologica o quella che effettivamente convive e cresce con il bambino) si considerino le ricerche scientifiche e persino il riconoscimento giuridico.

·        Centrale; ogni altra istituzione deve sempre, in qualche modo, esprimere, integrare, continuare la famiglia, agire non contro ma anzi in prospettiva di collaborazione.

·        Esemplare; ogni altra istituzione e forma educativa è tanto più efficace ed efficiente quanto più il suo clima ed i suoi metodi riproducono i modelli dei ruoli e dei rapporti naturali della famiglia.

 Come accompagnare i figli nel cammino di crescita?

L’accompagnamento presuppone la presenza fisica; i figli ne hanno continuo bisogno e non devono mai sentirsi privati del supporto famigliare.

Nella pratica quotidiana della relazione genitori-figli divengono centralmente significative alcune caratteristiche:

·        La presenza; a volte silenziosa, altre dichiarata, soprattutto nei primi anni di vita di un bambino risulta essenziale perché riesca a crescere e a vivere serenamente le prime esperienze (a volte anche frustranti) fuori dal nucleo familiare.

·        La consapevolezza del valore che ha la comunicazione educativa; non esiste non-comunicazione, così come non esiste non-relazione[1].

·        L’affetto; inutile aggiungere spiegazioni!

·        L’esempio; offrire un modello di comportamento, dichiarato e non assoluto, su cui si possa liberamente confrontarsi e su cui si possa dibattere e prendere le proprie decisioni è essenziale per lo sviluppo della propria identità e della propria capacità critica. Far coincidere fatti a dichiarazioni e dare “il buon esempio” trasmettendo coerenza e tranquillità è l’altra faccia di questo punto.

 

Le modalità della comunicazione educativa[1]

Con maggior specificità mi preme affrontare l’argomento della comunicazione educativa. Ho asserito in precedenza l’inesistenza di non-comunicazione, come fondamento della pratica comunicativa. Si comunica comunque qualcosa, perciò dobbiamo chiederci come comunichiamo e che cosa. Ancor di più è secondo me importante cominciare a chiederci, nell’ottica dell’individualizzazione degli interventi educativi, e perché la pratica educativa cominci ad essere non più solamente improvvisazione, ma arte, mestiere e anche un po’ scienza, quali siano le comunicazioni relazionali più importanti e chi ne abbia più bisogno.

In questa sede, mi limiterò a distinguere i modelli di comunicazione educativa quotidiani e a tracciarne le caratteristiche:

 Il rimprovero

E’ una comunicazione ingiuntiva e regolativi che serve a criticare un comportamento negativo già agito; più raramente, a prevenirne uno sul punto di essere attuato.

Richiede fermezza di tono, decisione, autorevolezza che si esprimono in una comunicazione breve, forte, netta e centrata sull’agito più che sulla persona (altrimenti assume valenza negativa). Ad esso deve seguire un silenzio lapidario che permetta al messaggio di arrivare a destinazione, tollerando e gestendo con fermezza le conseguenze su noi stessi (pietà e compassionevolezza devono essere evitate)

L’incoraggiamento

E’ una modalità che richiede energia, impegno e molta forza. Serve a trasmettere motivazione e a dare carica al destinatario. Deve essere preciso e circostanziato e deve continuare fino al moento in cui il destinatario non abbia superato la prova o la difficoltà a cui era sottoposto.

 L’insegnamento

E’ una forma comunicativa finalizzata a porre l’educando alla giusta distanza da sé, dalle relazioni in cui è compreso, dal mondo per far sì che riesca a liberarsi dai propri pregiudizi, a mettere in discussione le proprie convinzioni, impressioni e ad uscire dai suoi condizionamenti. Serve a produrre consapevolezza, a far riflettere e richiede da parte dell’educatore, creatività, autostima  consapevolezza di sé e libertà. Non si può insegnare ciò che non si possiede.

 Coinvolgimento emotivo

Il coinvolgimento è una modalità della comunicazione che serve per far sperimentare emozioni all’educando, per far percepire sensazioni e vissuti, accendere a appassionare ad un’impresa, un’attività. E’ una modalità che richiede di sapersi caricare, entusiasmare prima ancora di coinvolgere gli altri.  Lo si fa creando curiosità, incantando, commovendo  raccontando storie, aneddoti di vita, favole, oppure semplicemente costruendo immagini, proponendo ideali o giochi.

 La tranquillizzazione

Con questo tipo di intervento si ha l’obiettivo di spegnere le tensioni interne dell’educando e di interrompere i processi che alimentano la produzione di energie (che poi divengono, ansie, preoccupazioni, paure) e lo si perpetua trovando in primo luogo una assoluta calma interiore. Occorre non contraddire pur smorzando i toni, non cadere nelle provocazioni che ci verranno lanciate assorbendone la potenza, e rispondere con pace ai colpi di chi volgiamo tranquillizzare. 

Il sostegno

Sostenere un bambino, un ragazzo, un’adolescente o anche semplicemente un partner ed un amico serve a dare fiducia e pertanto richiede umiltà e silenziosa presenza.

Per sollevare si deve possedere discrezione e disponibilità a mettersi in ombra, accettare di sacrificare qualcosa di noi per dare spazio agli altri. Chi sostiene non è mai in vista, sta alle spalle e sceglie di investire la sua fiducia nella capacità dell’altro.

 La gratificazione

E’ questa la capacità di fare i complimenti e serve a mostrare apprezzamento o a riconoscere un merito ad una persona, permettendogli di raggiungere il consolidamento di una scelta o di un modus operandi.

Ha la proprietà di far entrare in contatto le persone con quella parte positiva di sé di cui non sono mai del tutto certe.

 

 

 

  1.2 Associazione Valdarnese di solidarietà: 

migliorare il lavoro dei genitori  

Giovanni Bigi

 

…Nel ringraziarvi di avermi dato l’occasione di parlare ad una platea così importante , approfitterò per dirvi alcune cose sui corsi di formazione che la nostra associazione propone ai genitori di ragazzi in età adolescenziale. Con l’aiuto anche di Vincenzo Masini facciamo fare una esperienza di lavoro di gruppo ai genitori ,dopodiché dei relatori rispondono al lavoro dei piccoli gruppi rimanendo sui temi trattati. Partirò parlando di un concetto a me molto caro cioè la resilienza per commentare poi il disagio e l’uso dei cannabinoidi. Questa resilienza, cioè la capacità di assorbire degli stress o comunque delle situazioni difficili, in modo che questi ritornino come prima, diventa un discorso essenziale, di cui bisognerà tener conto. Nello sport, per es. quando il calciatore dà più di se stesso, dà qualcosa che va oltre la sua normale capacità, quando insomma dà totalmente tutto, ha bisogno che ci sia una squadra dietro…anche in caso di perdita. Dico questo perché spero di poter riuscire a trasmettere il senso di questa resilienza.

I nostri ragazzi, come tutti, ma a quell’età, giovane,  spesso vivono degli stress e delle situazioni che in qualche modo li mettono in crisi, perché non si nasce adulti, perché le difficoltà sono tante, perché i contrasti nel modo in cui siamo strutturati a livello di società, sono alti, a volte sono anche davvero dolorosi, pertanto è facile che un ragazzo subisca una sorta di sforzo, di violenza, di pressione. Se non siamo capaci di riassorbire questo stress, queste sollecitazioni, queste esplosioni in famiglia, diventa tutto più complicato. Se non si riesce ad accogliere e a contenere lo sforzo, violento, sia in senso positivo che in senso negativo, se non si riesce a raccogliere in famiglia e in casa questo stress in modo pieno affinché la persona ritrovi il suo equilibrio e la sua stabilità, diventa una situazione tragica.

 “Come stai?”  Questo gesto veramente di amore, responsabilità, di fiducia, di rispetto… Perché tanto se un ragazzo ha combinato qualcosa, non importa andare a chiederglielo, lo si vede quando entra dalla porta. Non occorre parlare. Occorre imparare a fidarsi che una comunicazione di tipo emotivo, emozionale è più efficace di qualsiasi comunicazione verbale. E quella non si cancella! È inutile, la comunicazione non verbale è fondamentale.

Quindi, ritornando all’essenza del nostro argomento di oggi, è importante accogliere i nostri ragazzi, perché vuol dire dare fiducia, dare fiato, dare speranza, e accoglierli vuol dire essere pronti ad accoglierli anche in un  momento difficile, anche in momenti di crisi, quando ci sono situazioni imbarazzanti, perché sapeste come è facile disorientarsi, scappare, perché il dolore non è solo degli adulti, ma è anche dei ragazzi, eccome!

Il disagio non è tutto quel qualcosa che è devastante, un disastro, lo star male a volte non è negativo, perché quando c’è disagio, non solo i ragazzi ma anche gli adulti attivano le risorse psicologiche per rimuovere il disagio; se c’è una situazione che non va, ci si attiva perché questa situazione cambi, migliori, si va a trovare soluzioni….e questo vuol dire fare ricorso al senso comune della famiglia….è un momento di crescita straordinaria. La grande formazione avviene proprio quando ci sono delle batoste, dei momenti difficili, è lì che ci si irrobustisce, che ci si fortifica. Lasciamo che soffrano un po’, troveranno delle risorse dentro di loro.

Il problema è invece quando il disagio produce altro disagio e si comincia ad in una situazione che non dà la possibilità di vedere oltre, di vedere avanti, perché non abbiamo soluzioni, non abbiamo capacità, non ci sono risorse nel momento, o si chiede di non averne. E qui, se non c’è stata una formazione responsabile, questa soglia di sofferenza è molto più bassa. Ad un ragazzino che non va fuori da sé, a cui non è è stato insegnato a risolvere i problemi, che non è stato mandato a scuola con lo zaino sulle spalle, che non è abituato a vivere le sofferenze e a gestirle anche per conto suo, questa soglia si abbassa. Abbassandosi, purtroppo, si entra in quel meccanismo di disorientamento, che, se poi non siamo accorti ed equilibrati, si va sempre in più in confusione, fino ad arrivare veramente a sentire il senso di paura. E quando un ragazzo ha paura è aggressivo. Ma non solo il ragazzo, anche noi adulti. O si scappa o si aggredisce. Allora, vi troverete con delle aggressioni, io spero di no, ma può capitare, da parte dei vostri ragazzi, scenate ingiustificate, atteggiamenti isterici incredibili….Li potete anche contrastare, ma quando c’è rabbia ed aggressività vuol dire che dietro c’è insicurezza e paura, perché anche io quando mi arrabbio, perdo il controllo perché ho paura, altrimenti  rimango calmo, fermo. A differenza dall’ira che è un’altra spinta di tipo emotivo-violento. La rabbia è un qualcosa di diverso. La rabbia da paura è proprio questa esasperazione che viene fuori.

L’altro atteggiamento è la fuga, una fuga in senso psicologico. E che c’è di meglio che farsi una canna? Uno si rilassa.  Non sono contento, non riesco a…, le cose non funzionano bene? Meglio farsi una canna! La canna, di per sé, è un calmante eccezionale. Lo fanno tutti! Dà questo senso di appagamento, di calma, di benessere. La canna è un anestetico, quindi di fronte ad uno stato di scontentezza, di disagio, se mi faccio una canna, questo sentimento di disagio lo anestetizzo. Allora, ci facciamo le canne? Certo che si possono fare le canne, però bisogna tenerne conto. Perché come anestetizzo questo sentimento di malessere, anestetizzo anche la parte propositiva della mia intelligenza, della mia storia emozionale. È vero che anestetizzo la parte negativa, ma anche quella propositiva, cioè l’effervescenza, di cui un ragazzo può essere dotato! Allora, va a finire, che le iniziative per andare a ritrovare delle situazioni che contrastano un determinato stato, si indeboliscono. Sta di fatto che ci si anestetizza, si rimane lì….si ride, si sta su un piano di sufficienza. E questo fatto è devastante, perché va ad interferire anche sulla memoria breve,  sulla capacità di studiare. Un ragazzo che si fa le canne, poi abbandona anche gli studi….può arrivare anche alla quinta, ma che fatica! E pensare magari di un ragazzo che fino alle medie andava bene. E l’intelligenza, il paragone, il metro di misura è la stesso. Perché se un ragazzo va bene alle elementari, alle medie, sicuramente farà bene anche le superiori.

Quindi, attenzione! Con questo tipo di meccanismo se ne va anche la memoria breve: si arriva in fondo alla pagina e non ci si ricorda neanche mezza parola del testo.

Poi si dà la colpa agli insegnanti! Quante colpe si danno agli insegnanti. Per l’amor di Dio, ognuno ha le sue, ma se un ragazzo non studia, non si può dare  la colpa agli insegnanti. Se un ragazzo non si applica, non si può dare colpa agli insegnanti; se un ragazzo non riesce ad acquisire intellettivamente delle pagine perché è anestetizzato da un punto di vista psicologico, non si può dare la colpa agli insegnanti. E questo avviene con una facilità estrema, ed è devastante questo, perché noi siamo tutto quello che gli altri vedono di noi. Ossia, la nostra autovalutazione è fatta in funzione del ritorno, da un punto di vista di immagine, da parte degli altri. Lo specchio oggi ci fa vedere come siamo esteriormente, fisicamente, ma lo specchio psicologico sono gli altri, sono le persone che ci stanno incontro. Dico questo perché può essere un motivo di gratificazione nella fase in cui riesco a fregarmi degli insegnanti e riesco a far loro anche delle pernacchie e questi mi buttano fuori, e sono anche contento perché sono fuori della porta, mi sento importante, ganzo….E’ un grosso ritorno di immagine, al momento, però quando poi si arriva alla fine dell’anno e uno viene bocciato…..colpa degli insegnanti!

Primo anno, poi il secondo, poi tocca cambiare scuola! E si può anche cambiare scuola, ma di fatto quel ragazzo acquisisce l’idea di sé di essere un incapace. Magari, un ragazzo che ha un’intelligenza straordinaria…..Ne conosco proprio alcuni. Ce n’è una per esempio che ha un’intelligenza sfacciata. Lei voleva fare l’università….ma che dico, di più! Eppure si è lasciata andare, perché ha avuto un ritorno di immagine di sé non in funzione delle sue vere capacità. Questo è devastante, perché in Italia, dal 28% che erano i ragazzi che prendevano il diploma superiore siamo passati al 24%, in un paese civile! Gli universitari sono il 4%! Ma ce ne sono di più al sud che al nord. Questo è devastante! Si ritorna a delle forme di analfabetismo! Ci sono ragazzi in Associazione con una creatività straordinaria, eppure quando si arrivava a scrivere il verbale del gruppo, qualcuno doveva scrivere in stampatello perché non sa scrivere in corsivo….lasciamo perdere le “h”, ma errori di doppie!!! Scolarizzazione zero!

Se in casa si continua a dire “ma che vuoi che sia, lo fanno tutti!” cosa volete sperare? E si entra in quel clima che diventa devastante.

Ormai ci sono tantissime forme di disagio e devianza. Non è solo la droga. Le depressioni, i disturbi dell’alimentazione, il non piacersi….

Ragazzi con disturbi della personalità, tic nervosi, che non vengono in Associazione perché hanno anche paura di uscire….

I disturbi a volte sono indipendenti dalla volontà di commettere illeciti da parte dei nostri ragazzi e a volte ci sono dei ragazzi che vivono in famiglie straordinarie…..Famiglie che hanno voluto un bene incredibile ai loro ragazzi. Ragazzi superprotetti, che hanno avuto tutto. Famiglie, che in presenza di forme di disagio, hanno cercato di ovviare a questo con un’attenzione e una premura che va oltre qualsiasi normale normalità.

E poi ci sono le mode, c’è la cultura…si  va al Fitzcarraldo (ndr. nota discoteca della zona) …..20 € a volta per entrare…..tutti in fila per bere…..per trovare una pasticca…..(ci sono stato una serata intera come osservatore)

Ripensando a questa esperienza, la cosa che mi ha sconvolto per la mia mentalità, è stata che fra tutti quei ragazzi e ragazze, ci fosse stata un bacino, una carezza, atteggiamenti amorosi….

Con la musica a tutto volume in quel modo, come si fa anche a sussurrare una parolina….

Cosa c’è di più bello a vedere due ragazzini che si baciano su una panchina?

Ma vedere dei ragazzi che si perdono dentro a questo contesto! Ma lo fanno tutti….bisogna farlo!

Questa incapacità di essere persone capaci  di trasmettere valori e sentimenti, è una cosa grave. Perché gli educatori di questi ragazzi siamo noi! Non c’è niente da fare. Non  possiamo lamentarci dei nostri ragazzi, perché gli educatori siamo noi, me e voi, quindi attenzione a parlar male dei nostri ragazzi.

Io credo che debbano essere rispettati, perché il modello siamo noi.

In Associazione puntiamo molto sui genitori, sulle famiglie, perché indipendentemente da come andrà il futuro dei nostri ragazzi, non dobbiamo mai dimenticare che gli educatori siamo noi, mondo degli adulti, che lo si voglia o no. Quindi credo che sia nostro compito, stare in ascolto reciproco e confrontarsi per crescere, per poter dare delle risposte e dei modi più certi affinché i nostri ragazzi possano crescere bene e vivere in un contesto sereno. Occorre riflettere e discutere per quello che siamo, senza svalutarsi, perché credo che ognuno di noi abbia cercato di dare il meglio di sé. Smettiamola di svalutarci come persone, come genitori e come educatori. Accettiamo i nostri limiti, impariamo a confrontarci, più che fare gli psicologi! Portiamo i nostri sentimenti, in modo pulito, schietto, senza paura di esprimersi, senza vergognarsi di quello che il nostro bagaglio culturale ci ha permesso di avere.

  

 

  1.3 Cosa è il miglioramento e l‘artigianato educativo? 

Giuseppe Citti

 Riportiamo direttamente le parole dell’interventore:

 “Non essere un insegnante, ma un artigiano mi pone inevitabilmente in simpatia verso il concetto di artigianato educativo.

Vincenzo Masini mi ha “incastrato” chiedendomi di raccontare la mia esperienza, nonostante che l’attenzione della giornata fosse rivolta in maggior misura al mondo della scuola.

Nel mio intervento vorrei partire non dalla parola miglioramento (che può essere inteso in vari modi: nella malavita o nella mafia migliora chi uccide di più o perpetua le peggiori efferratezze…) ma dalla parola cambiamento, perché se capiamo che questo è possibile, il miglioramento diventerà una questione di valutazioni e scelte personali.

Dove ha origine il cambiamento? Dalla lettura che possiamo costruire di noi stessi attraverso il confronto con gli altri.

Per raggiungere il miglioramento il percorso non è indubbiamente breve, specialmente per noi adulti, che siamo invece così capaci di pretendere grandi miglioramenti dai nostri figli e in poco tempo.

Abbiamo paura del cambiamento perché non sappiamo dove ci porta. Preferiamo restare spesso nella nostra sofferenza perché la conosciamo e - tutto sommato - ci fa meno paura. Viviamo come in un limbo che ci paralizza e ci difendiamo affermando: “tanto sono fatto così! Ho queste abitudini…”

Per stare meglio, per quieto vivere, e a volte per non essere disturbati interiormente non diamo spazio alla possibilità che altri concepiscano la vita in maniera profondamente diversa dalla nostra o che non condividano i valori che ci animano…

SONO LE NOSTRE DIFESE! La gabbia che ci costruiamo attorno e di cui restiamo prigionieri, talvolta volentieri, per poter dire: “io non posso cambiare!”.

Ma non può esistere una situazione statica. Se riusciamo a comprendere questo, allora dobbiamo sviluppare la capacità all’ascolto e la nostra pazienza (ce ne vuole tanta per assorbire gli insuccessi del cambiamento!). Perché cambiare implica dei fatti e non solo delle parole. E qui casca il miccio!

Non solo. Una volta acquisiti e fatti nostri alcuni cambiamenti, dobbiamo stare attenti a non erigere attorno nuovi steccati a difesa di quanto trovato, perché troppo spesso succede proprio così: demoliti alcuni valori - perché superati - li sostituiamo con altri e ci gratifichiamo con noi stessi per averli raggiunti e cominciamo a vivere di ricordi…

…allora non siamo cambiati, ma solo invecchiati!

 

D’altro canto dobbiamo considerare anche l’esistenza del peggioramento. Ho notato alcuni giorni fa una signora impellicciata con uno sguardo lontano e superiore, e mi sono chiesto come doveva essere da piccola, senza il suo ruolo di signora importante.

Oggi è persa dietro finti valori. Quanto male si è fatto…

In un mondo che mercifica tutto, il miglioramento non si può acquistare, né dipende dall’età, ma da un attento lavoro su noi stessi con la volontà di accumulare dentro ciascuno quei cambiamenti che nascono dal confronto… con il mettersi in discussione… con l’accogliere i diversi.

Che c’entra tutto questo con l’ANFAA?

C’entra appieno, perché tentiamo da 15 anni di fare questo. E allora, andando contro all’idea di Vincenzo che voleva che raccontassi il mio percorso (che non è più interessante di mille altre storie di persone) preferisco dare appuntamento a chi è interessato ad incontrarci, nella nostra sede, in via San Nicolao 59, dove ci riuniamo tutti i martedì sera dopo cena.

Forse è più facile raccontarci per crescere e migliorare insieme…

Grazie”

 

  2.1 Miglioramento e apprendimento scolastico: Progetto “Gestione delle classi” 

Presso la scuola elementare e dell’infanzia del V Circolo di Lucca e degli Istituti comprensivi di Borgo a Mozzano e Massarosa 1

Carla Reggianini

 Miglioramento e scuola sono un binomio inscindibile; la scuola è l’istituzione educativa per eccellenza, luogo cioè di necessario cambiamento, di crescita, di sviluppo, recupero e potenziamento di capacità e competenze.

Miglioramento, in prospettiva scolastica, è sinonimo di apprendimento: anche l’apprendimento avviene infatti secondo un percorso di riflessione e formazione scandito in fasi di consapevolezza, determinazione, azione e mantenimento[1].

Se apprendere significa cambiare migliorando, è necessario che il cambiamento, per essere significativo ed effettivo, investa la persona nella sua totalità, ossia nella complessità delle sue dimensioni, cognitiva logica intellettiva da un lato, emotiva affettiva socio-relazionale dall’altro.

A tal riguardo la letteratura psico-pedagogica è nutrita di ricerche ed autorevoli elaborazioni: ricordiamo Erikson e la gradualità stadiale dello sviluppo socio-affettivo; le teorie psico-analitiche più accreditate; lo stesso Piaget che, in un ambito di ricerca psico-cognitivo, fonda ogni operazione mentale su motivazioni e dinamiche affettive; Maslow e la “psicologia della salute” per un pieno sviluppo della personalità nell’intera gamma dei suoi bisogni; Rogers e il gruppo collaborativo quale strumento di “facilitazione dell’apprendimento” al cui interno fondamentale importanza assume la relazione insegnante – allievo; in tempi più recenti ricordiamo la pedagogia del “cooperative learning” e del “learning together”, ultimi significativi sviluppi di metodologie cooperativistiche che hanno avuto in Dewey, Freinet illustri predecessori.

Diviene indispensabile, sottolineare il ruolo rivestito, dall’educazione affettivo-relazionale, quale strumento di prevenzione del disagio e della devianza, ma anche mezzo  e fine di ogni processo di insegnamento/apprendimento, tanto da “insegnare” agli alunni le abilità interpersonali e di gestione del piccolo gruppo, per favorire un‘alta qualità relazionale.

Alla ricerca di un quadro di riferimento sintetico possiamo indicare nelle caratteristiche di conoscenza e fiducia, comunicazione chiara e non ambigua, accettazione e sostegno, risoluzione costruttiva del conflitto, le capacità cui pervenire nell’ottica di un’integrazione collaborativa.

Non solo l’alunno ha una propria personalità, afferibile a tipizzazioni di vario genere (in tal senso le tipologie di Prevenire è possibile si rivelano come una delle ultime e più calzanti analisi e rappresentazioni della personalità); è altrettanto proficuamente possibile delineare una “personalità collettiva di classe”, quale connotato complessivo caratterizzante le relazioni di un determinato gruppo – classe.

Sulla base della conoscenza della specifica personalità di classe si programma un idoneo intervento educativo-didattico; proprio in virtù di tale individualizzazione ciò che è positivo in una classe  può risultare negativo in un’altra e viceversa: non è cioè opportuna un’attività di motivazione e di incoraggiamento a una relativa competitività in una classe  conflittuale, dove è invece necessario tranquillizzare; ma un analogo intervento di tranquillizzazione non è produttivo in una classe amorfa e inconcludente, dove è necessario agire incentivando motivazione e concorrenza; nella stessa classe amorfa e spenta non è opportuno proporre un’autoanalisi e discussione di problematiche interne, intervento che rappresenta invece il primo passo di un processo di consapevolezza adatto ad una classe rigida, oppressa, bloccata.

Il frutto di questo modello di ricerca[1] e sperimentazioni svolte nell’ambito di Prevenire è possibile nell’ultimo decennio, si può riassumere in quattro tipologie di personalità collettive:

-         classe conflittuale (a struttura competitiva)

-         classe amorfa (a struttura individualista)

-         classe fallita (a struttura rigida)

-         classe costruttiva (a struttura collaborativa).

Si tratta di una classificazione di riferimento, da tener presente con la consapevolezza che, come la personalità individuale è il risultato di più componenti emozionali e temperamentali, così la personalità collettiva di classe è il frutto delle relazioni di opposizione e di affinità che maggiormente la caratterizzano.

Si può rappresentare tale personalità quantificando e tabulando i dati emersi da un semplice questionario rivolto collettivamente alla classe.

La raccolta dei dati dà origine ad un “grafo di classe”: lo sbilanciamento del baricentro verso una delle tipologie prevalenti descritte permette di inquadrare, con una certa approssimazione, la classe nell’ambito della classe fallita, amorfa o conflittuale.

Quando il baricentro si situa al centro, dando origine ad un grafo armonico di forma circolare, siamo in presenza di  una classe equilibrata nelle relazioni di affinità e opposizione, di tipo costruttivo: è la classe, per così dire, ideale, quella a cui fanno riferimento programmi e disposizioni ministeriali, non già tuttavia punto di partenza del progetto formativo complessivo, bensì meta a cui tendere per una effettiva ed efficace interazione collaborativa.

Non esistono dunque modalità gestionali sempre valide e produttive, ma interventi mirati alla classe specifica secondo la propria personalità collettiva.

Dall’elaborazione dei dati raccolti con i questionari, sono risultati i grafi delle classi, la cui analisi ha permesso di migliorare la consapevolezza delle dinamiche di classe relazionali (spesso già intuite dai docenti) ma anche di costruire percorsi ad hoc.

Seguono alcune efficaci descrizioni di casi incontrati nel progetto, per meglio rappresentare le modalità di intervento adottate per raggiungere il miglioramento.

 

CLASSE A

La classe amorfa, con forti livelli di pacifica demotivazione; è una classe con scarsi scambi affettivi, molto debole sul piano dell’ unità interna, con bassi indici di sensibilità e indipendenza; incomprensione, logoramento ed evitamento sono le modalità relazionali oppositive più frequenti, bassi i coefficienti di riconoscimento e incontro.

E’ una classe che  non ha ancora maturato un’ identità ben strutturata: si tratta infatti di una II elementare, classe di relativa recente formazione.

Il percorso educativo proposto mira a potenziare le relazioni interpersonali, creando situazioni di gruppo e incentivando disciplina e motivazione.

La mobilità interna, qui intesa concretamente come disposizione dei banchi e relativi occupanti, deve essere tenuta rigidamente stabile: è una classe che, anche fisicamente e spazialmente, ha bisogno di solidi e precisi punti di riferimento.

Per questo la comunicazione educativa al suo interno, per risultare persuasiva, deve essere da un lato autorevole, dall‘altro motivante: ordinata, penetrante, ripetitiva e sistematica, volta a proporre obiettivi chiari e di volta in volta agevolmente raggiungibili.

Il lavoro didattico può essere organizzato attraverso attività che responsabilizzino individualmente, ma il cui fine sia il successo di gruppo, e attraverso giochi a carattere relativamente competitivo tra sottogruppi. Sono opportuni frequenti ricompense e incoraggiamenti di fronte ai successi e ai miglioramenti, ma anche azioni di messa al bando degli eventuali demotivatori: la classe amorfa ha infatti bisogno di misurarsi con sfide concrete, con obiettivi chiari e da raggiungersi con modalità cooperative che aumentino la motivazione, continuamente insidiata dalla tendenza al vivere situazioni di impegno con atteggiamenti scanzonati, rassegnati o, nel peggiore dei casi, squalificanti.

 

CLASSE B

E’ una classe a struttura rigida/organizzata, ma con elementi di demotivazione e divisione. Caratterizzata da alti coefficienti di dialogicità e integrazione (è una IV elementare), risulta carente in sensibilità e disponibilità affettiva, non casualmente con alti indici di logoramento e, sia pur in misura minore, di incomprensione.

La carenza sul piano della sensibilità e della disponibilità affettiva, presente nel grafo, si è peraltro rivelata una costante nei grafi delle classi coinvolte nel progetto: l’indicazione che se ne può trarre, è quella di una maggiore attenzione all’educazione di emozioni ed affetti.

Sul piano didattico, si tratta piuttosto di proporre situazioni, ad esempio di tipo poetico - letterario, con forti connotazioni sentimentali, suscitando vissuti di coinvolgimento emotivo-affettivo che, quanto più divengono consapevoli, tanto più costituiscono arricchimento e sviluppo.

Sul piano più estesamente formativo, il gruppo di incontro dell’artigianato educativo, simile per concezione e forma al circle-time di Gordon, favorisce indubbiamente la socializzazione di emozioni e sentimenti e lo sviluppo di abilità di ascolto e accoglienza. Questo appare particolarmente necessario nella classe in questione, dove una carente unità interna può derivare da istigazioni ed oppressioni da parte di leader negativi; in questa classe più che altrove diventano efficaci strumenti formativi il raccoglimento interiore (come ascolto di sé e dei propri vissuti) e l’ascolto empatico (come interscambio e condivisione dei vissuti).

Far emergere i sentimenti negativi permette all’insegnante di riconoscere le situazione di conflittualità latente che rendono il clima spento ed oppresso: azioni di incoraggiamento e gratificazione verso le “vittime” e, al contempo, di rimprovero e sanzione verso gli istigatori-oppressori, facilita un processo di distensione e risulta utile al fine di ridurre e prevenire quel bullismo che ha le sue premesse negli anni dell’infanzia.

 

CLASSE C

L’ultima classe problematica che esaminiamo si presenta a struttura amorfa-conflittuale, con scarse motivazioni, un’accentuata divisione e ad alta organizzazione interna.

L’alto coefficiente di logoramento sembra contrastare con l’ancor più elevato valore di dialogicità. Si tratta del potenziamento degli spazi carenti, in questo caso dell’incontro, determinando condizioni di maggior serenità, legate ad un rapporto più vivo ed armonico tra i soggetti appassionati ed energici e quelli più sensibili, timidi, riservati.

Si può verosimilmente ipotizzare che il basso indice di incontro, sia dovuto alla recente unione forzata di una III e una IV elementare che ha dato origine a questa nuova classe. Nello specifico di questo gruppo l’itinerario educativo-didattico dovrebbe tendere alla liberazione dei vissuti emozionali, con una condivisione che è premessa indispensabile per potenziare unità e motivazione, conferendo al gruppo una sua più delineata identità di classe: gruppo d’incontro dunque, ma affiancato da una serie di attività che motivino alla responsabilità, all’organizzazione e alla gestione controllata delle azioni in vista delle mete cui pervenire.

 

CLASSE D

La quarta ed ultima classe è ascrivibile, almeno per il grafo di sintesi, alla tipologia costruttiva, l’intervento di miglioramento dovrebbe semmai provvedere a colmare alcune carenze nell’ambito della motivazione e della sensibilità.

Un buon equilibrio si rileva dal confronto delle opposizioni e relativi antidoti: il logoramento presenta il coefficiente maggiore e può essere ridimensionato con interventi che suscitino incontro.

L’insegnante di una classe costruttiva deve mantenere, un clima ed un ambiente comunicativi, adottando metodologie fondate su responsabilizzazione e partecipazione; può produttivamente realizzare lavori di gruppo, con suddivisioni di compiti e di ruoli; può realizzare gruppi di incontro con elevati livelli di ascolto empatico e di condivisione.

D’altronde la classe in questione è una V elementare, dunque classe finale, in cui più facilmente si è pervenuti ad una struttura solida ed armonica di personalità collettiva: dove si è capaci di fare gruppo perché ci si sente parte del gruppo, dove si è capaci di autovalutazione e dove si diviene progressivamente sempre più consapevoli circa le diverse modulazioni della personalità, collettiva ed individuale.

 

Aver lasciato questo tipo di classe alla fine della relazione ha, nelle intenzioni della scrivente, un preciso scopo: quello di delineare, anche nell’esposizione del Progetto “Gestione delle classi”,  un ideale percorso teorico-pratico in cui la classe costruttiva si pone come traguardo possibile e necessario.

 

  2.2 Portfolio: l’orientamento in Casentino,

Storia del progetto 

Giorgio Renzi

 

Con il mio intervento sono costretto a rompere il clima di serena ed intima complicità che chi mi ha preceduto è riuscito a creare in questa sala. Ma il mio compito è quello di calarmi in un contesto reale, insomma, come concludeva la storiella hyddish citata dall’amica del MCE, raccontare che cosa è successo quando “mi ci sono trovato”.

Lascerò a Lorenzo Barbagli l’illustrazione dei dettagli tecnici del progetto e dei suoi risultati. Io cercherò di raccontarvi come abbiamo avviato questa esperienza di prevenzione della dispersione, quali e quanti problemi abbiamo incontrato, e qual è lo stato dell’arte.

 Nel 1999 sono rientrato a scuola, dopo oltre dieci anni di assenza per impegni amministrativi. Gli anni di lontananza dall’insegnamento non erano stati lontananza dalla scuola, che in un modo o nell’altro era rimasta al centro delle mie attenzioni ed interessi, se non altro perché era il mio mondo professionale, quello in cui era stata impegnata gran parte della mia vita.

Tornavo, quindi, nella convinzione, poi rivelatasi illusione, di conoscere la scuola ed i suoi problemi.

In realtà ho subìto una specie di shock, trovandomi di fronte ad una realtà irriconoscibile, ad una generazione di giovani talmente distante da rendere difficile trovare un punto di contatto, un elemento o uno strumento di comunicazione.

C’era rimasto qualcosa di riconoscibile: gli stessi insegnanti,  il Preside, che ora si chiana Dirigente Scolastico, ma sempre in  attesa delle circolari ministeriali, c’era la stessa  sala insegnanti, con gli stessi discorsi, solo un po’ più cupi e demotivati, sempre più frustrati dalla presa di coscienza di un impotenza ad agire ed a svolgere il proprio ruolo.

C’era in discussione la riforma Berlinguer, che scaldava gli animi solo per dire che si sfasciava la scuola, che non andava fatto il concorsone,  ecc, ma raramente ho sentito entrare in merito ai problemi posti dalla esigenza di una scuola rinnovata e all’altezza dei tempi. La conclamata autonomia sembrava essere una parola riservata ai politici ed a qualche preside/dirigente in vena di protagonismo, ma che sembrava non suscitare particolari entusiasmi e, soprattutto, cambiamenti nelle modalità effettive di gestione della scuola.

Nella mia abitudine, a non rassegnarmi, portandomi un po’ dietro l’esperienza di amministratore locale, ho cominciato a studiare come buttare qualche sasso nello stagno,. Tanto per non lasciare le acque tranquille.

Così quando è uscito il bando della Provincia di Arezzo, sulle misure C.2 e A.2 del FSE, per progetti per la prevenzione della dispersione scolastica e l’attuazione dell’obbligo formativo, ho colto al volo una proposta dell’Enaip Toscana (che era nostra parte in un corso IFTS) per attivare un progetto proprio per la prevenzione della dispersione e l’OF.

Ed è cominciata, (essendo stato finanziato) la collaborazione con Prevenire è possibile, con l’amico prof. Vincenzo Masini ed il gruppo di suoi collaboratori aretini

Devo dire che nel momento della progettazione era prevalsa ancora in me la cultura dell’amministratore locale che aveva visto nel bando una occasione di finanziamento, di risorse aggiuntive per risolvere alcuni problemi della scuola. E’ stato nella gestione del progetto, nei rapporti con Masini e suoi collaboratori, ed in particolare nei rapporti attivati con le scuole, gli operatori e genitori che ho potuto io stesso scoprire l’importanza del lavoro e, soprattutto, l’urgenza di un tale lavoro per recuperare serietà e dignità alla scuola, cioè per permettere alla scuola di svolgere la sua funzione in una realtà sociale e culturale profondamente modificata.

Ricordo che c’era un altro aspetto importante che per certi aspetti aggravava i problemi della scuola, soprattutto quella superiore: era l’estensione dell’obbligo scolastico a 15 anni, quindi alla prima superiore  (in attesa della riforma dei cicli) e l’attuazione dell’obbligo formativo fino a 15 anni, e dell’Obbligo Formativo fino a 18 anni.

Il fatto che la prima superiore rientrasse nell’obbligo scolastico comportava non solo un aumento numerico degli allievi, ma portava inesorabilmente ad aggravare i problemi di gestione delle classi, abbassava il livello, proprio perché veniva meno (giustamente) quella selezione che in precedenza, sia pure numericamente limitata, c’era, per cui chi proprio non voleva studiare, abbandonava e si inseriva nel mondo del lavoro. Quindi abbiamo cominciato a trovarci di fronte ad allievi che si iscrivevano solo perché obbligati, ma già pronti a lasciare non appena soddisfatto l’obbligo di legge.  Se a questo si aggiunge l’aumentato disorientamento degli allievi nello scegliere il tipo di scuola superiore, possiamo capire il disagio e il disorientamento delle scuole superiori, degli insegnanti delle prime classi, trovatisi ad affrontare questa nuova situazione del tutto impreparati, senza strumenti metodologici/culturali per affrontarli. Purtroppo uno dei limiti di tutti coloro che hanno cercato di riformare la scuola è stata quella di dimenticare che non bastano le leggi; la scuola, alla fine, la fanno gli insegnanti e se non ci si pone il problema serio della loro preparazione, non sui contenuti delle singole discipline, ma sulle metodologie didattiche, sulle modalità di approccio psicologico agli allievi, di gestione del gruppo classe, nessuna riforma è possibile. E, mi permetto di dire all’attuale ministro Moratti, non è un problema di tecnologie informatiche, la cui conoscenza è sicuramente importante, ma non altrettanto quanto quella di dare ai docenti, assieme alle competenze tecniche specifiche di questa professione, quelle psicopedagogiche, in modo che oltre ad essere ottimi ingegneri, avvocati, professionisti di vario genere, siano anche degli educatori, che è qualcosa di diverso e di più..

Queste considerazioni ci hanno portato ad individuare nel progetto, per la parte relativa alla prevenzione della dispersione scolastica,  tre direttive fondamentali di azione:

-                    Orientamento degli allievi soprattutto delle terze medie

-                    Sensibilizzazione dei genitori alle problematiche della scuola ed in particolare dell’orientamento

-                    Formazione dei docenti, non fatta in modo teorico e astratto, ma attraverso un loro diretto coinvolgimento nelle attività, dopo, ovviamente, un illustrazione delle metodologie e, quindi, l’approfondimento delle  modalità d’intervento  nelle classi, soprattutto sulle modalità di gestione del gruppo classe

 

C’era da compiere una scelta preliminare: puntare su una esperienza pilota, prendendo una/due classi campione e seguendole in tutto il corso dell’anno, oppure fare un lavoro su tutto il territorio, una prima analisi della situazione della scolarizzazione in Casentino, dello status degli allievi, dello loro livello di consapevolezza delle scelte?

In accordo con i Presidi, pardon Dirigenti, abbiamo scelto la seconda strada, anche perché ritenevamo importante un lavoro di sensibilizzazione complessiva di insegnanti e genitori sulle nuove problematiche dell’obbligo scolastico e formativo, e, soprattutto sulla esigenza nuova e urgente di un serio lavoro di orientamento.

Avevamo già verificato infatti, con l’aumento degli abbandoni e della dispersione, che spesso alla base dei fallimenti vi erano errori di scelta. Sempre più la scelta della scuola superiore avveniva con motivazioni casuali, in molti casi legata alle amicizie, altre volte ai desideri dei genitori, sempre meno era dovuta a convinzioni precise degli interessati

Che l’orientamento dovesse diventare un tema ed un impegno centrale della scuola era teorizzato da tanti. E devo dire che la provincia di Arezzo si era  mossa in questa direzione cercando di attivare per ogni vallata un coordinamento delle scuole per l’orientamento. E’ riuscita a far convocare, mi sembra, due riunioni dei dirigenti per formalizzare il coordinamento per l’orientamento. Devo confessare che l’unica proposta concreta fatta dai dirigenti in quella occasione è stata quella di chiedere il gettone di presenza per le riunioni del comitato. Dopo di che non se ne è più parlato.

Ho ricordato questo perché spiega le difficoltà che abbiamo incontrato nella gestione e nella attuazione del progetto, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con le singole scuole.

Abbiamo, infatti, programmato colloqui individuali con tutti gli alunni delle terze medie del Casentino (5 istituti comprensivi, con una quindicina di sezioni) e con tutti gli alunni delle prime superiori (altre 12 classi).. Un lavoro immane, anche da un punto di vista organizzativo. Prima dei colloqui abbiamo effettuato degli incontri con i docenti delle singole scuole per illustrare il progetto e le metodologie adottate.  E qui vengono subito fuori i problemi organizzativi, ma anche culturali delle scuole. Agli incontri in genere partecipano solo alcuni insegnanti, i referenti, poi le informazioni fanno fatica a circolare, poi c’è la tradizionale diffidenza dei docenti per tutto quello che viene da fuori, (nessuno  metta il becco nella tua classe, che è tua e di nessun altro, che solo te conosci bene ecc., che solo te può orientare….)

Sì, perché anche noi insegnanti siamo degli strani soggetti: in fondo abbiamo sempre paura che qualcuno metta in discussione il nostro ruolo. La cosa che ritengo più deleteria, in questo caso, è la convinzione che sia l’insegnante della classe che possa fare il migliore e il solo orientamento dell’alunno per la scelta della scuola superiore.

Non voglio dare un quadro troppo negativo e pessimistico, ma ho sottolineato certe problematiche, per rafforzare da una parte l’importanza del lavoro fatto e dei suoi risultati, dall’altra l’urgenza di fare dell’orientamento una priorità per tutta la scuola, perché è il presupposto per un impegno serio per prevenire la dispersione.

Avendo io dovuto occuparmi della gestione, e quindi  fare da mediatore tra l’equipe degli esperti, le scuole, i docenti, è evidente che sono anche portato a raccontare le fatiche di un lavoro che tende a cambiare un modo di pensare e di lavorare, che è sempre improbo.

Ma devo anche dirvi qualche soddisfazione, per aver gettato un bel sasso nello stagno.

Completato, infatti, il progetto di orientamento per tutto il Casentino, l’anno successivo, sia perché erano dimezzati i fondi, ma anche perché volevamo passare dall’analisi della situazione di un territorio  e dalla sensibilizzazione ad una fase più operativa, abbiamo redatto un progetto di prevenzione della dispersione rivolto alle nostre prime classi. Il progetto è in corso.

La cosa interessante è che quando abbiamo effettuato le prime giornate di formazione dei docenti della nostra scuola con Masini per il secondo anno di attività,  nei giorni successivi siamo stati ricercati da docenti delle scuole medie che si lamentavano perché non erano stati invitati……Il sasso nello stagno sta dando i suoi frutti.

Intanto nella nostra scuola si è formato un bel gruppo di docenti motivati che è stato coinvolto attivamente nel progetto. E questo è il presupposto per la una reale politica di prevenzione della dispersione e per la riqualificazione del lavoro educativo di un Istituto.

Ciò ci ha permesso di affrontare i problemi subito con l’inizio dell’anno scolastico, con l’analisi  delle caratteristiche delle classi ed i colloqui individuali, attraverso  cui sono state di individuate le situazioni più critiche. Su di esse abbiamo iniziato le attività di sostegno, di counselling individuale e di gruppo. Per ogni classi abbiamo tentato di individuare, con il supporto degli esperti esterni (Masini e collaboratori) le terapie da adottare di cui convincere tutti i docenti: obbiettivo non facilmente raggiungibile, ma, potremmo dire con Galileo, eppur si muove”.

Lo sviluppo delle attività (che sarà illustrato da Barbagli), ha seguito questo percorso: formazione dei docenti, analisi del gruppo classe, colloqui individuali, individuazione delle situazioni critiche e delle terapie da adottare. Secondo colloquio individuale con i soggetti “a rischio” e individuazione di una azione di sostegno personalizzata concordata anche con i genitori. Insomma un patto educativo che coinvolge la scuola, l’alunno, la famiglia.

In contemporanea con il progetto PORTFOLIO, sempre sul FSE abbiamo attivato anche un progetto per il sostegno degli allievi non del tutto autonomi (FREE ENTRY), che di fatto è stato attuato in stretta integrazione e complementarietà con quello sulla prevenzione della dispersione.

Ho tralasciato di parlare della seconda parte del progetto PORTFOLIO iniziale quella sull’OF., non perché sia meno importante, né perché sia separata dalla prima. Ma apre un altro capitolo su cui bisognerebbe discutere a lungo.

Anche in questo caso la legge, importantissima, è stata calata a freddo nelle istituzioni, non solo nella scuola, ma anche sugli enti locali, in particolare sulle province, cui spetta la competenza principale tramite i centri per l’impiego.  Quando siamo andati a realizzare questo primo corso sulle competenze di base e trasversali per allievi in OF. Ci siamo trovato in una situazione scioccante e drammatica. Ma anche in questo caso non à stata fatica inutile. Siamo diventati interlocutori attivi della provincia, mettendo a frutto l’esperienza acquisita.

 

Nonostante i ministri, la scuola pubblica ha ancora risorse umane motivate, che credono nel loro ruolo, ma che stanno vivendo il dramma di un progressivo isolamento nella sensazione di essere considerati dei residui di un mondo vecchio da superare, nell’ottica di un efficientismo imprenditoriale che dimentica l’uomo e i suoi problemi, in una visione del mondo da evoluzionismo darwiniano, in cui solo i forti (i più fortunati) vivono felici, mentre per gli altri non resta che la mera sopravvivenza. Non basta più la buona volontà di pochi. Non si può pensare che il problema della scuola e della sua qualità sia il risparmio di un mese all’anno di stipendio degli insegnati, trasformando tutti in precari di ruolo, in barba alle belle teorie sull’orientamento e sulla considerazione dell’uomo, della persona, prima che dell’allievo..

Spero ancora che il lavoro egregio del prof. Masini e dei suoi collaboratori non resti una esercitazione accademica né lo strumento di una occasionale esperienza pilota, ma diventi prassi quotidiana della scuola, almeno di quella pubblica (quella che per me à l’obbiettivo prioritario), perché solo così prevenire sarà veramente possibile.

 

    2.3 Il Progetto “Porfolio”:

migliorare l’orientamento e la dispersione 

Lorenzo Barbagli

 

Le fasi del progetto e gli obiettivi

Il progetto portfolio si è articolato lungo l’anno accademico 2001/02 e 2002/2003 con l’obiettivo di offrire un servizio orientativo alla quasi totalità degli studenti della vallata del Casentino e di dimostrare che un buon orientamento è un ottimo antidoto ai problemi di dispersione e drop-out.

Ventinove classi da orientare per un totale di 520 studenti tra terze medie e prime superiori, con un monte orario complessivo piuttosto basso che ci obbligava a considerare mediamente per ogni studente, tra attività di gruppo e individuali, un massimo di circa cinque ore.

Poche se consideriamo la “normale” progettazione orientativa all’interno della quale cinque ore vengono utilizzate solamente per la formazione di gruppo.

Si prospettava dunque di fronte a noi una ricerca-azione molto ambiziosa e contenente un certo rischio. Dovevamo far quadrare il cerchio delle poche risorse economiche e del poco tempo con i bisogni formativi, educativi e cognitivi di moltissimi studenti residenti in paesi differenti, un buon numero di immigrati e con le specifiche problematicità di ogni istituto (Liceo scientifico e classico, Scuole Medie, Ragioneria, Itis e Istituti Professionali) e, non ultime le necessarie distinzioni e le interconnessioni tra orientamento e dispersione scolastica.

Abbiamo accettato la sfida.

Le fasi dell’attività, con il supporto di un gruppo di docenti interessati, possono essere racchiuse in sette momenti, contenenti al loro interno ulteriori differenziazioni:

 

Gli strumenti utilizzati

Senza poter entrare in merito a tutte le questioni legate alla costruzione e all’utilizzo dei questionari somministrati per ragioni di spazio mi limito a descrivere brevemente gli strumenti ed il senso del loro utilizzo.

Il questionario di analisi del clima relazionale si compone di 14 items volti a rilevare le dimensioni prevalenti della relazionalità distinte in affinità (dialogicità, complementarità, integrazione, riconoscimento, incontro, disponibilità, mediazione) e opposizioni (fastidio, insofferenza, equivoco, logoramento, evitamento, delusione, incomprensione) permettendo agli operatori di comprendere a fondo le dinamiche di gruppo. Utile all’orientamento per evidenziare condizionamenti e simili; utile per la dispersione per proporre ai consigli di classe o agli studenti strategie di miglioramento della qualità relazionale.

Il questionario di analisi di personalità si è invece utilizzato per individuare le disposizioni individuali e le personali debolezze, oltrechè i modelli di comunicazione e relazione interni[1]. Utile nell’orientamento per l’individuazione dei percorsi elettivi e nella dispersione per l’analisi della relazionalità individuale e del metodo di studio (per risolvere i problemi di apprendimento).

I questionari di analisi delle abilità e delle preferenze professionali sono stati invece utilizzati come supporto al questionario di personalità solamente per i colloqui individuali di orientamento e di gruppo, nell’individuazione dei progetti di vita e dei elettivi campi di applicazione.

Infine, il rapporto con gli studenti è stato condotto mediante i colloqui individuali e i colloqui di gruppo, sia per ciò che riguardava la dispersione che l’orientamento. In entrambi i casi infatti, mediante il colloquio individuale si proponevano in termini di autorevolezza concetti che poi venivano affrontati in gruppo con le parole degli studenti ed i loro codici comunicativi, in maniera da facilitarne il passaggio e l’assorbimento[1].

 

Che cosa è emerso?

 

A seguito, ho deciso di riportare alcune constatazioni che considero molto importanti emerse dall’elaborazione dei dati, dalle dichiarazioni degli studenti, e dall’osservazione e l’analisi dei dati percettivi raccolti.

 

  • 500 colloqui su 520 risultano essere stati momenti importanti secondo l’opinione degli studenti stessi.
  • Pochi studenti hanno seguito le indicazioni proposte nella fase orientativa.
  • Le classi con un clima relazionale meno equilibrato sono quelle in cui è più alto il numero degli studenti che non hanno seguito le indicazioni orientative.
  • Le classi con clima relazionale peggiore hanno anche peggiori risultati nell’apprendimento e nel rendimento scolastico.
  • Gli studenti che pagano maggiormente il peso di simili situazioni sono i ragazzi che in partenza, per più motivi, vivevano situazioni di maggior disagio.
  • I fattori di demotivazione allo studio, soprattutto in zone con forte sviluppo industriale, sono molto numerosi.
  • Scelte “sbagliate” accendono dinamo di disagio e peggiorano la qualità della vita degli studenti e la qualità dell’apprendimento.
  • Spesso, i processi decisionali avvengono a seguito di condizionamenti e manipolazioni provenienti dal gruppo amicale, dalle scuole di provenienza e in alcuni casi dalle famiglie, rarissimi sono in casi in cui uno studente riesca a scegliere liberamente il suo percorso.
  • Scelte “sbagliate” o poco consapevoli riguardo alle scuole superiori, condizionano pesantemente, soprattutto quando sono scelte di demotivazione, il futuro degli studenti.
  • Se anche cambiassero le scelte scolastiche, sulla base di una maggior consapevolezza e libertà degli studenti, il rapporto delle iscrizioni tra istituti diversi resterebbe invariato.

 

 Spunti per il miglioramento.

La prima riflessione da proporre è che l’orientamento e la dispersione possono essere considerate facce della stessa medaglia, cioè quella della qualità relazionale e del personale progetto di vita. All’orientamento si legano inestricabilmente le tematiche della dispersione: ove uno studente abbia “sbagliato[1]” la scelta scolastica, aumenta la probabilità che si inneschino dinamiche di motivazione che porteranno poi all’insuccesso scolastico. D’altro canto, la qualità relazionale all’interno di un gruppo classe, e dunque l’assenza di dinamiche oppressive, di condizionamento o deduttive favorisce la libera espressione delle proprie volontà e aspettative.

In secondo luogo, si deve riflettere sul bisogno dell’orientamento di diventare consapevolmente e dichiaratamente pratica educativa. Non tanto perché si voglia affermare la superiorità di una visione pedagogica delle relazioni, quanto perché ogni atto, ogni incontro e dunque ogni relazione hanno un peso educativo[1].

Infine, fare orientamento è nella maggioranza dei casi destrutturare (o quantomeno provarci!) situazioni condizionanti per gli studenti; offrire cioè al ragazzo una dimensione decisionale libera e nella quale possa serenamente scegliere ciò che preferisce.

Riuscire nell’orientamento, per quanto difficile, equivale ad offrire un momento di scelta e un’occasione di riflessione consapevole sul proprio futuro.

Migliorare l’orientamento è la necessaria base per affondare i problemi della dispersione scolastica e della qualità dell’apprendimento nella scuola.

 Bibliografia essenziale

AA.VV. (a cura di R. NARDELLI e L. DUDINE), IV° Congresso Nazionale Orientamento alla scelta: ricerche, formazione, applicazioni, Preatti, Università degli studi di Padova – Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione, Padova, 2002.

BARBAGLI L., “Orientamento semplice ed efficace”, Prevenire è Possibile, in pubblicazione.

BARBAGLI L., Verso un’etica dell’educazione, consultabile in internet, www.prepos.it

Magellano, rivista per l’orientamento, bimestrale edito da ITER- Institute for Training Education and Research, Firenze, n° 1- 7 ed alcuni articoli  attualmente in uscita.

MASINI V., La qualità educativa, relazionale e dell’apprendimento, Prevenire è Possibile, Isernia, 2001.

SIGHINOLFI M.  (a cura di), Saper minimo sull’orientamento,Milano, Franco Angeli, 1998.

SORESI S. (a cura di), Orientamenti per l’orientamento. Ricerche ed applicazioni dell’orientamento scolastico professionale, Organizzazioni Speciali, Firenze, 2000.

  2.4 Le Consulte degli studenti nella prevenzione dei comportamenti a rischio 

Loreto Tizzani

 

Il lavoro che  ha consentito di riflettere sui dati e sui risultati che saranno illustrati inizia con un progetto Nazionale del Ministero della Pubblica Istruzione (anno scolastico 99 - 2000) affidato ad alcune consulte degli studenti con lo scopo di proporre e diffondere attività di prevenzione alla devianza giovanile e alla dispersione scolastica.

 Le consulte degli studenti sono organismi elettivi, a durata annuale, di carattere provinciale  costituite da due rappresentanti di ogni scuola superiore. Esse eleggono un presidente che le rappresenta territorialmente e nazionalmente e hanno a disposizione un budget per svolgere attività culturali e ricreative anche in raccordo con le scuole.

Sono stato docente referente provinciale per la consulta degli studenti di Campobasso  per due anni ed in quel periodo ho vissuto una delle esperienze lavorative più simpatiche della mia carriera di docente.

Ho potuto osservare aspetti della realtà studentesca che spesso sfuggono a molti docenti e ai vari operatori scolastici. Ho lavorato con studenti che anelano a diventare persone mature, che nutrono speranze e ideali, che lottano costantemente con le loro contraddizioni, che vivono forti emozioni; studenti dal pensiero vivo, a volte semplice quasi puro, creativo e rivendicativo.

 Le tappe

Una commissione della consulta che si è occupata del progetto ha individuato nell'agenzia " Prevenire è Possibile"  del dott. Vincenzo Masini, il partner per svolgere le attività. Nei primi incontri gli studenti, hanno manifestato l'esigenza di conoscere le cause che determinano atteggiamenti e comportamenti di devianza giovanile e le strategie idonee a  prevenirli. Tematiche ricorrenti sono state: la conoscenza del sé, il rapporto con i pari e con gli adulti, l'accoglienza, l'amicizia, l'orientamento, la gestione delle assemblee di classe e di istituto.

Le attività, opportunamente calendarizzate, hanno previsto fasi di preparazione e di approfondimento dedicate agli studenti e ai docenti referenti di scuola, e fasi operative di dibattito di diffusione nelle scuole del territorio.

Ciascuno dei temi su richiamati è stato articolato in progetto che, oltre ai ragazzi della consulta di Campobasso e di Isernia ha coinvolto moltissimi studenti, i genitori, i docenti, operatori delle ASL e del volontariato.

 Il progetto - Amicizia -

L'esigenza degli studenti di parlare di amicizia, di conoscere amici, di sapere come si diventa e si rimane amici ha consentito, all'interno del percorso, di dare una rilevanza  al progetto "Amicizia" che è stato seguito dall'équipe  del dott. Masini  con particolare attenzione individuando delle scuole pilota dove sono stati allestiti dei laboratori per approfondire le conoscenze sul fenomeno dell'amicizia.

 Sei mesi di attività.

Gli studenti hanno discusso in gruppi di lavoro, sono stati organizzati questionari interviste a studenti e docenti sulla tematica dell'amicizia, sono state attivate conferenze e dibattiti che hanno coinvolto anche i genitori.

Nelle scuole si è parlato e si parla di amicizia; l'amicizia si diffonde …diventa contagiosa…. modifica il gruppo classe. Un primo risultato …? Il lavoro proposto ed illustrato di seguito.

Forse bisognerebbe parlare di amicizia anche tra gli adulti, tra i docenti, tra i genitori.

 Ho incontrato tante persone in questo percorso, con molte di esse siamo diventati amici.

  

 

  2.5 Il progetto “Amicizia” in Molise: 

Perché lo sviluppo di relazioni amicali autentiche, può prevenire la dispersione!

Emanuela Mazzoni

 Gli obiettivi che ci siamo prefissati nella ricerca-azione, fanno capo principalmente ai tre criteri di costruzione di relazioni autentiche tra studenti e tra studenti e docenti, all‘analisi delle diverse visioni dell’amicizia (per uno studente e per un professore), ed alla produzione di un cambiamento nelle relazioni tra studenti e professori attraverso la collaborazione ad un progetto che si riveli momento di crescita per ognuno. L’autenticità dell‘incontro, la discussione che porta la confronto e il cambiamento inteso come ampliamento dei propri modi stereotipici di relazione sono le dimensioni essenziali da cui prende le mosse il progetto.

Abbiamo acceso gruppi d‘incontro per l‘emersione dei vissuti, gruppi di formazione per la comprensione e l‘assegnazione dei significati, gruppi di lavoro per l’organizzazione, questionari ad hoc sull‘amicizia e simulazioni per imparare sperimentando.[1]

Il progetto ha compreso 4 fasi: un primo momento di costruzione dei gruppi di lavoro, in secondo luogo accensione dei gruppi di incontro e formazione sulle modulazioni dell’amicizia, somministrazione del questionario sull’amicizia, elaborazione dei dati raccolti.

Calandoci nella realtà molisana e in tutte le principali città, abbiamo innescato l‘esperienza e la riflessione sull‘amicizia.

A Termoli:

“Giuseppe non era informato del nostro arrivo. Riusciamo comunque a riunire tutti i rappresentanti di classe e a lavorare con loro sul funzionamento delle assemblee di classe. Siamo seduti in cerchio, in una stanza vicino all'ingresso della scuola. Nonostante le difficoltà e la confusione è una mattinata che da' i suoi frutti…

Nasce, quasi casualmente una bella discussione: "Io sono stato bocciato per colpa della mia classe, se lo scorso anno fossi stato in una classe come quella in cui ora sto sarei stato promosso perché mi sento di avere degli amici intorno che si danno una mano".

E allora un bel giro di opinioni prende forma: ciascuno prova a fare una correlazione tra il numero dei bocciati e l'unità della classe. Esce un quadro davvero difficile in una sezione…

Intanto, senza che nessuno ne fosse direttamente consapevole, è stata costruita la prima assemblea che ha davvero funzionato.”

Il senso del progetto diviene chiaro e la domanda implicita all‘intervento di quel ragazzo, resa operativa: è vero che se la classe fosse stata più unita, ci sarebbero stati meno bocciati? L‘amicizia può avere questo potere di lotta alla dispersione scolastica?

Continuiamo il percorso a Campo Basso concretizzando le proposte:

“Il tema dell'amicizia ha caratterizzato l'intervento presso tutte le scuole. Il progetto ha preso il via presso il Liceo Scientifico Romita ed ha dato luogo ad una assemblea partecipata sui temi dell'amicizia e dell'innamoramento.

Nel pomeriggio dall‘accensione dei gruppi d‘incontro, nasce il desiderio di partecipare attivamente alla ricerca-intervento. Così la mattina successiva dopo la necessaria formazione, gli studenti hanno intervistato le classi e i docenti sull‘amicizia tra studenti e docenti.

Nei giorni seguenti si é riproposta la stessa ricerca nelle altre scuole della città.”

Il questionario costruito ad hoc, proposto nelle scuole, si muove lungo le sette dimensioni relazionali positive teorizzate da Prevenire è Possibile[2]: integrazione, complementaritá, incontro, mediazione, riconoscimento, dialogicitá, disponibilità.

Si compone di domande strutturali e processuali, a risposta chiusa e a risposta aperta è facilmente somministrabile, affinché gli alunni possano promuovere la ricarca-azione nella propria scuola. Richiede circa 20 minuti. Un‘ulteriore risultato è che gli alunni così coinvolti, divengono leader visibili e positivi nella scuola, per questo, tale ricerca potrebbe essere collegabile ad un progetto di accoglienza e formazione tutor.

I dati raccolti rispetto alle risposte dei professori sull‘amicizia tra professori e studenti sono stati rielaborati lungo le sette relazioni di affinità e riportati in altrettante considerazioni:

RICONOSCIMENTO

Essere modello per l’alunno tale da trasmettere equilibrio, sensibilità, professionalità

DISPONIBILITA’

Sapersi mettere al posto dei propri alunni, rimanendo un punto di riferimento per loro, instaurando un rapporto di sintonia e fiducia

COMPLEMENTARIETA’

L’amicizia dovrebbe essere improntata sulla correttezza e stima reciproca, in modo che sia possibile stabilire un dialogo democratico e paritario

INCONTRO

Correttezza, sincerità, condivisione, apertura, sono gli ingredienti per un rapporto schietto senza autoritarismi, per permettere un dialogo spontaneo, non formale e per non creare muri

DIALOGICITA’

Amore razionale e sentimentale saper dialogare e cogliere i significati profondi

INTEGRAZIONE

Amicizia è saper accettare le critiche nel rispetto dei ruoli: saper ascoltare e farsi ascoltare, rispettando i compiti, e le diverse maturità

MEDIAZIONE

Occorre rapportarsi gli uni gli altri senza pregiudizi ed anzi con fiduciosa aspettativa, nello stato d’animo di stare vivendo una preziosa ed irripetibile esperienza ,il fine è la costruzione di una società privilegiata non chiusa all’esterno.

 Di seguito, le considerazioni evinte dalla realtà quotidiana degli studenti:

RICONOSCIMENTO

Il Professore valuta proponendo domande articolate alla classe di modo che anche quelli che non sono considerati “bravi” possano dare risposte articolate ed efficaci rispetto a problemi che non riguardano solo la lezione.

DISPONIBILITA’

Il Prof. è disponibile all’ascolto di come ho capito io la lezione e alla fine del discorso dice se c’è qualcosa che oggettivamente non va.

COMPLEMENTARIETA’

La prof. prende in considerazione la richiesta, senza liquidarla e se non è il momento dice “Ora non ho tempo, ne parliamo sabato all’ultima ora”.

INCONTRO

Di fronte ad una classe divisa a metà il professore invita la classe ad essere coerente ed a riconciliarsi.

DIALOGICITA’

Se sei assente da 10 giorni ti telefona a casa per sapere come stai.

INTEGRAZIONE

Il prof. favorisce l’amicizia e il rispetto tra gli studenti.

MEDIAZIONE

Di fronte ad un genitore preoccupato perché la figlia va in gita con la classe nella quale c’è un ragazzo “rasta” ne prende le difese e tranquillizza il genitore.

 Le conclusioni del progetto sono state tirate nell‘incontro finale di Vinchiaturo, che si è svolto con i docenti e con gli studenti che hanno seguito più da vicino lo snodarsi delle varie fasi.

 


Abbiamo scoperto (con un campione di 607 studenti più 29 docenti) che nuove amicizie nascono se si condivide un progetto e che la dimensione di affinità più importante sia per gli alunni che per i docenti è il rispetto reciproco. Infatti i dati indicano che nella relazione alunno-alunno (tra pari) il rispetto è considerato primario dal 52% degli intervistati mentre nella relazione alunno-docente si arriva addirittura al 63%. Al secondo posto troviamo nel rapporto alunno-alunno la fedeltà con il 17% mentre nel rapporto alunno-docente la relazione individuata è la collaborazione al 20%.

Inoltre abbiamo dato risposta alla domanda “l‘amicizia può prevenire la dispersione?”. Tramite la correlazione tra il numero dei bocciati e l‘indice di amicalitá (numero delle relazioni di amicizia presenti / numero delle relazioni possibili tra studenti nella classe studenti), si è verificato che:

le classi in cui l‘indice di amicalitá era più basso avevano un maggior numero di bocciati, mentre quelle con l‘indicatore più alto avevano un numero minimo di bocciati.
Dunque, in una classe più aumenta l‘amicizia e minore è il numero dei bocciati, ovvero più amici sono gli alunni tra loro e più diminuisce la dispersione.[3]
 

  

2.6 L’approccio della consulenza per le scuole dell’Umbria

Franco Lo Maglio

 Prima di tutto vorrei presentare ISMEDA.

ISMEDA è una società che opera sul mercato Italiano da più di 20 anni. Fino a 5 anni fa, noi non avevamo nessun rapporto con le scuole, siamo stati chiamati dall’Università Cattolica per partecipare al progetto “Master per i Presidi”, l’abbiamo vinto, poi da soli abbiamo vinto il Progetto “Direttori Amministrativi” e ad un certo momento, mentre uno stava finendo e l’altro iniziando, gestivamo 51 Masters in tutta Italia con 250 consulenti impegnati nelle docenze. In Toscana eravamo proprio qui a Lucca e ad Arezzo con tutti i 120 Presidi di queste due città.

Devo dire che il progetto era talmente vasto che avevamo molte paure e molti timori ma abbiamo approcciato la cosa come siamo abituati a fare, cioè con un metodo molto artigianale che significa costantemente andare a chiedere alle persone come stiamo lavorando e se funziona o meno il nostro metodo di trasferimento di Know-how e la nostra capacità di far acquisire competenze.

In questo modo avevamo molti gruppi di monitoraggio interno oltre a quelli che aveva il Ministero dell’Istruzione, che decisamente erano piuttosto attenti e severi. Abbiamo visto progredire sempre di più il consenso e poi alla fine dei progetti, soprattutto in quello Presidi, abbiamo avuto anche un fortissimo consenso da parte del Ministero.

Dall‘esperienza dei Masters è nato il nostro rapporto con il mondo della scuola. Piano piano con estrema modestia siamo entrati mettendo a punto alcuni programmi di "formazione manageriale" che noi eravamo abituati a svolgere nel mondo delle aziende prima private, poi pubbliche e abbiamo incominciato a proporre ed effettuare alcuni progetti in quello che era l'aggiornamento degli insegnanti nelle scuole.

Penso che molti tra gli insegnanti ricevano le nostre "news letter" periodicamente, infatti, ne inviamo a 12.700 scuole in Italia più quelle che mandiamo ai contatti formati da 4 anni di corsi di aggiornamento in tutta Italia: da Sciacca a Trento.

Tra le missioni istituzionali di ISMEDA si annoverano la qualità e la sicurezza. Ricerche che procedono da molti anni e in particolare nel campo della qualità ci affiancano un gruppo specifico di consulenti.

Nel mondo della scuola abbiamo iniziato a proporre la qualità offrendo quindi la nostra esperienza di circa 70 certificazioni in aziende.

Il nostro approccio è stato particolarmente attento a quello che era il mondo della scuola e fin dall'inizio ci siamo resi conto che era molto più complesso che non il mondo aziendale.

Le ISO sono un qualcosa di estremamente tecnico, normativo, procedurale: ma se vengono applicate con molta attenzione e con molto rispetto di quelli che sono i processi all'interno, possono andar bene per qualsiasi tipo di organizzazione: sia un industria filiera della Fiat sia un'azienda come ISMEDA e perfino ad una scuola.

Non ci sono problemi specifici, l'importante è che il consulente abbia l'attenzione massima per quello che è il processo che sta analizzando e che aiuti il "consulenziato" a prodursi le proprie ISO, quelle che sono perfettamente rispondenti al proprio sistema di processo. Un esempio: ci sono state affidate le Scuole dell’Umbria per accompagnarle verso la Certificazione di Qualità e le 4 scuole che si sono certificate in questi giorni hanno ognuna un proprio sistema costruito su misura. Noi abbiamo fatto il possibile dall'esterno, perché queste 4 scuole facessero e producessero il loro sistema e mi sembra che il risultato sia stato valido ed i feedback abbastanza positivi. Riporto un  dato statistico significativo: in ISMEDA mediamente succede che una società su 20 si certifichi con zero non conformità, le 4 scuole si sono certificate tutte con zero non conformità. Decisamente qualcosa di piuttosto particolare. Questo è per meriti interni delle scuole che evidentemente hanno creduto moltissimo nella cosa che stavano facendo.

Una cosa che mi piace molto è il binomio "qualità - sicurezza" . Noi portiamo avanti la sicurezza da moltissimi anni nelle aziende e nelle scuole più o meno da 5 anni e l'abbiamo portata in tutta Italia: il nostro concetto di sicurezza è analogo a quello sulla qualità; il nostro approccio ci porta realmente a muoverci nella direzione di una scuola sicura.

Siamo orgogliosi se una scuola vuole certificare la propria sicurezza con noi. È qualcosa di ben diverso dal preparare il libretto. Vuol dire che un Ente esterno di Certificazione, alla fine delle verifiche rilascia un attestato che la scuola è una scuola sicura. ISMEDA si comporta così perché cerca assolutamente e professionalmente di arrivare a certi presupposti che si concretizzano in un reale aiuto a soddisfare quelle che sono le necessità delle scuole, in questo caso del nostro cliente.

Un'altra cosa che vorrei aggiungere è che, per ciò che attiene alla Certificazione di qualità in Italia fino ad oggi abbiamo assistito a tutta una serie di certificazioni di scuole avvenute in un modo che io oserei chiamare spontaneistico. Mi spiego meglio: le circa centocinquanta scuole che sono certificate in Italia fino ad oggi sono molto sparpagliate sul territorio, e la Certificazione è dovuta generalmente all’orgoglio della scuola che dice: ho fatto un certo percorso e alla fine desidero avere questo certificato. Benissimo, è molto ammirevole.

Noi in Umbria abbiamo cercato di fare una cosa che può apparire molto brutta ma che secondo me non lo è: si tratta di un processo di industrializzazione; cioè, ci siamo presentati e abbiamo detto: "perché non certifichiamo tutte le scuole dell'Umbria?" .E questo è quello che cerchiamo di fare con l'Umbria: 4 sono state certificate , 6 sono in certificazione in questi giorni, 5 sono sotto contratto da un paio di giorni e quindi stiamo parlando delle prime 15 delle 135 che era il numero che aveva aderito due anni fa al progetto. Io mi auguro che una volta che si è mosso questo volano iniziale le 190 scuole dell'Umbria, se questo è il numero giusto, aderiscano tutte.

Sarà soltanto una questione di accelerare il numero per anno perché non occorrano 15 anni!

Credo che possa essere molto bello e molto interessante che Voi diate corpo a quello che è da una parte tutto il progetto dell'autonomia per cui in qualche modo avete lavorato in maniera estremamente seria da 4-5 anni a questa parte e d'altra parte avere l'orgoglio di dire “la mia scuola è certificata”. State attenti perché io nell'ambito della certificazione sono sempre anche leggermente "terrorista", asserendo che: "prendere una certificazione anche con il massimo dei voti è una condanna a vita perché ci sarà il certificatore che tutti gli anni viene e vi alza la stecca". Cosa vuol dire? Vuol dire che ogni anno la scuola riparte da capo. Piccolo particolare: quando si arriva al secondo o terzo anno ci si prende gusto ed è talmente bello vedere i risultati del proprio lavoro, che significano mille e una cosa nell'ambito del processo scolastico, che si ama molto di più il proprio lavoro, si ama di più la propria scuola, si ama molto di più tutto l'insieme.

Quindi per quelle 4 scuole Umbre che ora hanno raggiunto anche con un certo sforzo personale e individuale e parecchi sacrifici di chi ha fatto parte del "Polo Qualità" dico di stare tranquilli che fra 6 mesi le fatiche saranno passate e inizierà la parte più in discesa e sarà più piacevole tutto quanto.

La Certificazione di Qualità è un obiettivo della scuola che ha origine da tutta una serie di azioni portate avanti dalla scuola stessa: il POF, il modo di costruirlo e l’AUTOVALUTAZIONE D’ISTITUTO che significa mettersi in discussione al fine di un miglioramento continuo e questo aspetto sarà affrontato dalla D.ssa Berardi.

 

 2.7 L’Autovalutazione d’Istituto 

Patrizia Berardi

 L’autovalutazione di Istituto è una modalità per verificare la qualità dell’azione formativa di un singola scuola; l’attenzione ai risultati formativi e ai processi per garantirli si è intensificata con l’introduzione della normativa sull’autonomia.

Perché bisogna occuparsi di autovalutazione di istituto?

q       La qualità dell’istruzione non e’ più garantita dall’interno del sistema.

q       Occorre adeguare il sistema dell’istruzione ai mutamenti storici, culturali, sociali, tecnologici in atto

q       Il sistema di valutazione nazionale valuterà le scuole sulla base di una documentata qualità dell’offerta formativa.

In cosa consiste la qualità di un istituto scolastico?

 

q       Efficienza delle strutture organizzative

q       Efficacia del processo di insegnamento/apprendimento

q       Una “Mission” della scuola (POF) centrata sulla formazione dell’alunno

q       Un sistema di valori coerente con la cultura della qualità

q       Una leadership educativa diffusa e consolidata

q       Competenze presenti o da sviluppare in linea con i risultati da raggiungere

q       Processi che contribuiscono del successo     scolastico

q       Autovalutazione delle prestazioni del corpo docente

q       Etero valutazione delle prestazioni dei docenti

q       Misurazione dei risultati di processo e di prodotto

 

Come pratica consiste nel migliorare qualsiasi situazione, comportamento, processo che presentino problematicità, esiti insoddisfacenti, carenze qualitative da sottoporre a un esame razionale approfondito per trovarne le cause e introdurre le soluzioni ottimali individuate.

Particolare rilevanza ha dunque tale argomento in un convegno sul miglioramento, dato che qualsiasi intervento si voglia fare, se contestualizzato in una visione globale che l’autovalutazione presuppone, assume la logica di un progetto sistemicamente inserito in un programma più vasto di sviluppo della qualità.

Molto spesso le scuole nell’ansia di fare meglio decidono interventi formativi o organizzativi parziali o molto settoriali; la conseguenza, anche qualora si abbiano esiti positivi, è che rimangono inalterati problemi più scottanti e a volte prioritari.

Qualsiasi miglioramento per essere duraturo nel tempo e mirato a validi obiettivi deve essere inserito in una pianificazione di miglioramento che abbia gia analizzato la natura dei problemi di tutto il contesto scolastico e ne abbia definito l’ordine di priorità di attenzione.

Tuttavia l’applicazione dell’autovalutazione è presente in un numero irrisorio di scuole italiane; le ragioni probabilmente sono da ricercare in:

 L’autovalutazione è prima di tutto una filosofia, ossia credere che ci sia sempre da migliorare e accettare che per fare ciò sia necessario correggere ciò che si è sempre fatto. Per iniziare quindi una politica di autovalutazione bisogna che vi sia un terreno fertile, che vi sia l’umiltà di mettersi in discussione e prendere atto dei propri punti di debolezza, la volontà di renderli palese e di migliorare sostanzialmente.

 Quando le opinioni che serpeggiano sono ostacoli alla de-responsabilizzazione personale, non si può iniziare un percorso di cambiamento ma è indispensabile creare prima la cultura della qualità.

Quando la maggior parte degli insegnanti pensa:

-         Il mio ruolo non viene considerato…

-         ma chi me lo fa fare…

-         se vogliono di più, che ci paghino…

-         tutto si fa sul volontariato o per la gloria…

-         non vale la pena di cambiare, con tutto questo  impazzare di cambiamenti…

-         la classe non segue…

-         gli studenti sono veramente indisciplinati…

-         non c’è niente da fare, non hanno volontà di apprendere, sono troppo distratti…

-         ci sono i programmi del ministero da rispettare…

-         ho sempre insegnato con il mio metodo, tutte queste nuove tecnologie sviano l’attenzione…

-         non posso proporre innovazioni, i colleghi si opporranno sicuramente…

-         i genitori sono assenti, non si interessano…

-         non c’è tempo…;

 e quando inoltre il dirigente scolastico pensa:

-         il collegio blocca per partito preso le nuove iniziative che   propongo…

-         se avessi dei collaboratori capaci…

-         figuriamoci se le figure obiettivo sono in grado di cambiare il sistema, hanno accettato controvoglia l’incarico…

-         bisognerebbe cambiare la mentalità degli insegnanti…

-         manca il personale, e quello che c’è… bisogna formarlo…

-         c’è una quantità immensa di carte da firmare, di impicci di cui occuparmi…

-         devo prendere provvedimenti perché gli alunni non si permettano di…

-         troppe le cose da fare, vorrei… ma non posso…

-         mancano i soldi, con queste due lire che ci danno…

-         anche i miei colleghi di altre scuole non stanno messi meglio…

 è meglio non iniziare a parlare di autovalutazione, perché sarebbe a mala pena tollerata e la commissione di autovalutazione non troverebbe legittimazione.

Per poter affrontare un percorso di autovalutazione di istituto bisogna creare o consolidare una cultura della qualità, ossia un contesto dove le persone condividono gli scopi del loro lavoro e i valori che lo sottendono.

Per capire il significato di tale affermazione basta pensare al forte individualismo e pluralità di vedute che caratterizza il modo di vivere e affrontare il ruolo docente da parte degli stessi insegnanti:

·        alcuni ritengono che la responsabilità degli esiti scolastici di uno studente sia in massima parte dovuta al suo percorso scolastico, alla relazione che ha avuto e che ha con i suoi insegnanti, a quanto si senta compreso e aiutato, a come sia messo in condizione di vivere la crescita, la socializzazione, l’ apprendimento, l’ essere valutato. Quindi alla responsabilità che gli insegnanti si sono prese per assicurargli un percorso rassicurante e produttivo.

·        Altri, parecchi, al contrario sono convinti che gli scarsi esiti formativi del sistema scolastico italiano siano da ricondursi alla caduta di valori, ai media, all’incuranza dei genitori, alla scarsa importanza data allo studio e alla cultura. Quindi la responsabilità degli insegnanti è vanificata da tutto l’ambiente che circonda i giovani d’ oggi.

·        Tra le due posizioni estreme esistono un misto di vedute con accenti diversi sulle cause del disimpegno degli alunni verso la scuola.

 All’ interno di un qualsiasi istituto scolastico si rileva una polverizzazione di visioni che peraltro non vengono messe alla ribalta, tanto ognuno rimane della stessa idea, l’ importante è lavorare in classe secondo le proprie capacità e incontrarsi nei consigli di classe, unici momenti in cui ci si scontra un po’, educatamente però, sui modi diversi di concepire il ruolo docente e i doveri e diritti del corpo insegnante.

E’ indubbio che in ogni intervento di autovalutazione di istituto si faccia riferimento alle competenze degli insegnanti e al processo di insegnamento apprendimento, e si metta in discussione qualche aspetto ad essi inerente.

Il modo di concepire le finalità e le responsabilità del ruolo docente costituisce dunque il principale paradigma culturale da approfondire, per verificare se congruente con un percorso di attuazione di autovalutazione di d’ istituto.

 Un modello del “giuramento di Ippocrate” dell’insegnante, disponibile a essere valutato e a far parte di un sistema dove si devono garantire quei risultati che la scuola si è impegnata a raggiungere tenendo conto delle sue risorse e delle aspettative dell’utenza, potrebbe suonare così:

Ø      Sono un insegnante e un educatore

Ø      Sono anch’io responsabile del miglioramento della società

Ø      Importante è saper far apprendere

Ø      Doveroso è dare un esempio di dignità umana

Ø      Sono responsabile del comportamento degli altri insegnanti della mia scuola

Ø      Impegno ed entusiasmo nel lavoro sono i requisiti per trarne soddisfazione

Ø      Saper insegnare significa innovarsi

Ø      Gli alunni hanno bisogno di essere capiti, accettati, sostenuti, guidati

Ø      Gli alunni hanno bisogno di provare piacere nell’apprendere

Ø      Se un alunno non apprende, il problema è mio

Ø      Lavorare insieme agli altri insegnanti significa:

-         mettere in comune le proprie esperienze,

-         cedere know-how,

-         condividere obiettivi etici,

-         condividere percorsi di lavoro,

-         operare per migliorare e crescere insieme,

-         far crescere gli alunni

Ø      Il clima di collaborazione dipende anche da me

Ø      Devo adoperarmi per rendere la mia scuola un ambiente migliore

Ø      Bisogna lavorare in sinergia con i genitori

Ø      Bisogna capire dove si sbaglia, dove servono competenze di professionisti che affianchino gli insegnanti

Ø      Sono un buon insegnante e un eccellente educatore, e un buon collega?

 Altri capisaldi di una cultura coerente con l’autovalutazione sono:

Ø      la visione della funzione dirigenziale come managerialità nel settore educativo

Ø      la condivisione della mission della scuola

Ø      l’attenzione verso le aspettative dell’utenza

Ø      l’apertura alle nuove tecnologie didattiche e dell’informazione

Ø      l’aggiornamento professionale come base per mantenere competenze qualificate

Ø      la capacità di lavorare in gruppo, mettendo in comune sforzi e risultati tra gruppi diversi, e rendendo trasparente e accessibile a tutti il contenuto del proprio lavoro.

 Come si crea una cultura?

Con la comunicazione come strumento per capire l’oggi e veicolare il domani, con messaggi di rinforzo e comportamenti di esempio che orientino quelli degli altri, con nuovi modi e regole di lavoro che facilitino l’assunzione di modi diversi di pensare…

E quanto tempo ci vuole?

Dipende da quanto il singolo contesto scolastico è distante dal sistema di valori della cultura della qualità.

Si può cominciare contando sulla dirigenza e su un gruppo di insegnanti che si facciano portavoce di una mission parzialmente innovativa, di obiettivi chiari e coerenti con essa, di modi e strumenti di lavoro che orientino il cambiamento.

L’aspetto più difficile è rilevare il sistema di valori di partenza, poiché “la cultura è come l’acqua per i pesci” ci si vive immersi senza rendersene conto; è necessario condurre indagini sulle opinioni e sui vissuti degli operatori della scuola, sul clima, sulle aspettative delle persone. E poi è indispensabile rendere i noti i risultati, discuterli per comprendere cosa ostacoli l’assunzione di una nuova mentalità.

 In cosa consiste l’autovalutazione d’istituto?

1.      Una metodologia con cui l’organizzazione verifica periodicamente:

- i risultati che ha raggiunto

- il livello di scostamento dagli obiettivi

- le cause di non raggiungimento degli obiettivi

2.      Un processo  che esamina i percorsi di raggiungimento di mete prestabilite a livello complessivo ma anche a livello di singola persona o azione,

3.      Un insieme di strumenti attendibili di misurazione per descrivere la situazione attuale, la situazione desiderata, i modi del cambiamento.

 Gli ambiti dell’autovalutazione:

1.      la soddisfazione del “cliente” (alunni, genitori, insegnanti)

2.      il processo di insegnamento/apprendimento

3.      le capacità didattiche ed educative dei docenti, le competenze del personale amministrativo

4.      la coerenza del POF con quanto effettuato

5.      la completezza e la circolazione delle informazioni

6.      la managerialità dello staff

7.      la struttura scolastica e i servizi offerti

8.      la dotazione tecnologica e il suo utilizzo

9.      la qualità dei processi di lavoro

10.  tutto ciò che “non va” e che si vuole migliorare.

 In ogni caso oggetto della valutazione è un cambiamento cioè un processo di passaggio da un punto di partenza ad uno di arrivo:

 1.  Cambiamenti di persona,comportano che si parta da un’idea precisa di trasformazione di mentalità e comportamenti che si desidera ottenere; 2.  Cambiamenti di azioni,

comportano di capire se esiste un rapporto diretto fra l’intervento e il risultato raggiunto come “valore raggiunto” allo status quo.

 Le fasi del cambiamento:

1.  Fase iniziale,

in cui si esaminano tutti i fattori che hanno portato alla decisione di cambiare, si definiscono i risultati,  gli indicatori di qualità, gli strumenti da utilizzare,

2.  Fase di implementazione,

in cui si definisce come tradurre in pratica il primo cambiamento da fare (chi, cosa, come quando,…) e lo si attua 

3.  Fase di istituzionalizzazione,

che descrive il modo in cui il cambiamento entra a far parte della pratica quotidiana

4.  Analisi delle conseguenze,

che esamina:

- gli esiti sulla struttura organizzativa, sui processi di lavoro, sugli attori dei processi

- l’impatto sui risultati degli studenti

- il grado di soddisfazione degli utenti.

 Per effettuare un piano di autovalutazione è necessario:

 La problematica definizione degli indicatori, dei relativi descrittori e degli strumenti di indagine.

Per poter misurare la situazione attuale, descrivere quella futura e programmare un percorso di miglioramento a tappe è necessario costruire dei punti oggettivi di riferimento per l’analisi che permettano di confrontare il punto di partenza e il punto di arrivo raggiunto. Servono quindi dei parametri con cui esaminare oggettivamente la realtà: gli indicatori costituiscono i fattori in base ai quali osservare gli aspetti di una data situazione, e i relativi descrittori di livello permettono di definire quanto accade concretamente e servono per parametrare l’oggi e il domani.

Non è semplice individuare gli indicatori validi di cui tener conto per approfondire l’esame razionale di un determinato ambito, e ancor meno declinare descrittori di aspetti oggettivamente osservabili.

E’ consigliabile farsi affiancare da esperti esterni con cui costruire anche gli strumenti di indagine; anche per questi ultimi è indispensabile sapere come progettarli rispetto a cosa si vuole analizzare e agli obiettivi di miglioramento, quali usare (questionari interviste, focus group, …) a seconda della natura dell’indagine.

Molto spesso l’avvio di un percorso di autovalutazione si arena per la scelta di troppi indicatori che rendono complessa la consuntivazione dei dati raccolti e la lettura dei risultati, ma peggio ancora l’individuazione delle soluzioni da adottare.

 I rischi di un percorso di autovalutazione non bene pianificato:

ma soprattutto si inizia un percorso di autovalutazione senza creare prima una cultura pronta a mettersi in discussione e aperta, favorevole ad accettare di evolversi.

 

2.8 Il miglioramento nella scuola 

Alfredo Pierotti

  Tutte le volte che Pierino mangia gli spinaci, riceve in regalo dalla mamma un buon gelato. Secondo voi, da grande:

a)      Pierino amerà o odierà gli spinaci?

b)      Pierino amerà o odierà i gelati?

c)      Pierino amerà o odierà la mamma?

 “Tutte le volte” che formuliamo problemi educativi come questo di Pierino, rischiamo di inciampare in una serie di trappole epistemologiche che conducono ad errori certi o, peggio ancora, ad un metodo che finisce per privilegiare le nostre impostazioni iniziali, le nostre pregiudiziali, le nostre aprioristiche convinzioni. Si cercheranno e si metteranno, infatti, in evidenza soltanto i dati che confermano le nostre iniziali congetture. Le logiche come quelle del brano di Pierino vanno respinte in toto in quanto applicano alle relazioni umane, alla crescita e alla formazione il principio di Causa-Effetto che oggi è fortemente posto in discussione perfino nella fisica e nella matematica, perfino in quelle discipline che una volta venivano dette “scienze esatte”. Occorre uscire da quel tipo di logica rifiutando l’approccio o riformulando la questione in termini diversi.

Nel riferire brevemente dei risultati della ricerca sperimentale “Palo Alto e non solo… ruoli e positività nella scuola” condotta nella Direzione Didattica di Porcari Montecarlo (LU) con il supporto di altri Istituti nell’anno scolastico 2000-2001, occorre precisare che la metodologia di lavoro intorno alla quale si è operato, si riallaccia alle tecniche del Mental Research Institute of Palo Alto (USA) o alle teorie di autori “vicini” a questa scuola.  Il tentativo è stato quello di calare, in modo originale ed inedito, tali tecniche e tali teorie nella realtà scolastica della scuola primaria.

 Questioni di riferimento

Le questioni centrali vengono qui elencate con semplici cenni esplicativi rimandando alla bibliografia di riferimento per eventuali approfondimenti.

 a) L’ottica sistemica: “Operare secondo l’ottica sistemica significa spostare (tendere a…) le problematiche dal singolo ai gruppi di riferimento (sistemi) in una logica di totalità e di funzionalità complessiva superando l’idea di “caso” e di emergenza legata al singolo.”

b) L’importanza del contesto: “Diventa fondamentale e consequenziale agire sul contesto in un’accezione ampia che va dagli ambienti fisici, agli arredi, al clima, ai contenuti della comunicazione, fino, e principalmente, ai modelli relazionali. La funzionalità del sistema classe è legata al contesto e determina il contesto stesso in un fenomeno di tipo circolare-reticolare che non va letto secondo schemi lineari di causa- effetto”.

c) I ruoli nel sistema come specifico momento di lettura-intervento: “Ogni sistema… …tende ad assegnare a ciascun membro uno o più ruoli secondo meccanismi che possono riferirsi a compiti da svolgere o alla semplice componente socio-emotiva. La percezione del ruolo è vissuta da ogni soggetto in modo spesso inconsapevole ma con diverso livello di benessere o di malessere a seconda che il ruolo svolto sia positivo o negativo e sia funzionale o meno rispetto alle capacità – attitudini – motivazioni del soggetto… …Il tentativo sperimentale si è mosso in questa ottica ed ha avuto come momento preliminare l’assegnazione consapevole ed intimamente condivisa di due ruoli positivi a ciascun bambino da parte del team docente.”

d) Positivo e negativo si riproducono: “La nostra società è carica di messaggi e implicazioni negative: questo fenomeno… …si sta ulteriormente rafforzando. Una società che enfatizza la negatività tende a produrre negatività: lo scienziato G. Bateson esprime la convinzione che –le abitudini di pensiero diventano programmate nei circuiti -. Se così è per la negatività, è ipotizzabile che lo stesso fenomeno possa avvenire per la positività per cui pensare, ragionare e progettare in termini di positività, tende ad autoalimentarsi”. Purché non si esageri perché, come ammonisce lo stesso Bateson, si può correre il rischio della tossicità”.

e) Nella valutazione… Un caposaldo essenziale da applicare alla valutazione è quello che distingue tra singolo comportamento e globalità della persona, tra singola prova scolastica e globalità dell’alunno. Quando diciamo ad un bambino –la soluzione del tuo problema è sbagliata- oppure – gettare un oggetto per terra è sbagliato- valutiamo quella prova e quel comportamento e non la totalità del bambino come avviene invece quando si dice ad un bambino “sei un asino” o “sei un maleducato.”

 La ricerca sperimentale

La ricerca sperimentale è stata realizzata nell’anno scolastico 2000-01, ha riguardato 12 classi del secondo ciclo di scuola elementare (6 del gruppo sperimentale + 6 del gruppo di controllo) per un totale di 203 alunni. Numerosità del database: 42372 x 2 = circa 85.000 dati elaborati con il supporto di un esperto della Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa.

L’ipotesi sperimentale tende a dimostrare che:

a)      l’attribuzione intenzionale di ruoli positivi a ciascun bambino del Gruppo Sperimentale innesca un processo virtuoso che tende ad autoalimentarsi;

b)      un percorso programmato da parte degli insegnanti del Gruppo Sperimentale mirato al rafforzamento dei ruoli assegnati, porta al miglioramento della capacità di percezione di se stessi e del sistema classe.

Tra gli obiettivi della ricerca ci sono quelli della creazione di un test generalizzabile e della codificazione di un percorso didattico-pedagogico riproponibile in altre classi della scuola elementare.

Il percorso: ai bambini è stato sottoposto nel mese di ottobre un questionario  con il quale veniva loro chiesto di esprimere un voto da 0 a 5 relativamente a se stessi e a tutti i compagni di classe. Il voto era riferito a 12 categorie (GENEROSO – ALLEGRO – AFFETTUOSO – SVOGLIATO – CREATIVO –STUDIOSO – INTROVERSO – AUTONOMO – ARTISTA – INDISCIPLINATO – BRAVO IN… - EDUCATO) di cui 9 a caratterizzazione positiva e 3 a caratterizzazione negativa. Il questionario oltre al voto riportava i relativi giudizi: 0 = per niente; 1 = pochissimo; 2 = poco; 3 = abbastanza; 4 = molto; 5 = moltissimo.

Lo stesso questionario è stato riproposto a maggio a distanza di oltre sei mesi. Nell’intervallo di tempo, mentre il Gruppo di Controllo non effettuava particolari attività riferibili alla sperimentazione, nel Gruppo Sperimentale si svolgeva un training specifico teso a valorizzare la positività di ciascun bambino, a favorire relazioni efficaci tra bambini e tra insegnanti e bambini, a prendere consapevolezza e vivere la classe e la scuola come sistema complessivo. Tra le modalità di lavoro, oltre all’attribuzione intenzionale di due ruoli positivi a ciascun bambino e alle indicazioni per promuovere per via indiretta tali ruoli, si è privilegiato il lavoro di gruppo adottato in forme e accezioni diverse, l’utilizzo della metafora, il contratto formativo, l’attenzione all’emotività e ai sentimenti. Attività, insomma, che riguardavano sia il singolo che il contesto e che si inserivano all’interno della quotidiana attività didattica..

I risultati e l’analisi dei dati:

- Il questionario si è dimostrato un valido strumento di rilevazione per la lettura della classe e dei fenomeni relazionali implicati e sottesi.

- I punteggi medi riportati dalle nove categorie a caratterizzazione positiva risultano ai primi nove posti sia nel Gruppo Sperimentale che nel Gruppo di Controllo sia nella prima che nella seconda rilevazione. 

- La categoria “ALLEGRO” riceve il punteggio più alto sia nelle autovalutazioni che nelle valutazioni in entrambi i gruppi in entrambe le rilevazioni. Sarebbe interessante coglierne il significato pedagogico come bisogno da parte dei bambini di…

- I punteggi medi delle autovalutazioni (voto a se stessi) sono leggermente superiori alle medie delle valutazioni (voto ai compagni) nelle categorie a caratterizzazione positiva mentre sono leggermente inferiori in quelle a caratterizzazione negativa. C’è mediamente una percezione buona di se stessi tendenzialmente sovrastimata rispetto a quella dei compagni di classe.

Dopo le osservazioni di carattere generale è opportuno analizzare se e quanto i dati confermano l’ipotesi sperimentale.

Il Gruppo di Controllo è rimasto sostanzialmente stabile nei valori medi nelle due rilevazioni sia per quanto riguarda le voci a caratterizzazione positiva sia quelle a caratterizzazione negativa.

Nel Gruppo Sperimentale i valori medi delle voci a caratterizzazione positiva sono rimasti sostanzialmente stabili con un leggerissimo incremento. Nelle voci a caratterizzazione negativa si è notato un abbassamento di un certo rilievo significativo anche all’analisi della varianza.

I risultati sono in linea con l’ipotesi sperimentale con una caratteristica “singolare”: lavorando sulla positività e sul sistema classe è aumentata la percezione positiva ma soprattutto è diminuita la negatività. Questo tipo di logica può risultare utile per prevenire il bullismo – senza lavorare direttamente sul bullismo, termine che nella ricerca sperimentale non viene mai citato, se non nei commenti.

I dati li hanno forniti i bambini stessi valutando se stessi e i compagni; gli adulti hanno creato gli strumenti ed hanno garantito il controllo delle variabili.

Lo stesso percorso è stato ripetuto in quattro classi nell’anno scolastico 2001-02.

Nell’anno scolastico 2002-03 lo stesso percorso viene riproposto in una rete di scuole delle provincia di Lucca e si tenta di estendere, con percorsi differenziati, l’esperienza anche al primo ciclo della scuola elementare e alla scuola dell’infanzia prevedendo anche un coinvolgimento dei genitori.

 Considerazioni finali

La scienza oggi si muove intorno a scenari che considerano superate le logiche meccanicistiche causa-effetto e la conseguente interpretazione lineare dei fenomeni. Oggi si tende a parlare di logiche sistemiche che si attivano all’interno di situazioni dinamiche di tipo circolare e reticolare. E si va oltre ricercando leggi e logiche all’interno del caos o ponendo l’attenzione sui cambiamenti minimi in grado di attivare grandi cambiamenti (il c.d. Effetto Butterfly). Se lo spostamento d’aria creato dal battito d’ala di una farfalla può, in determinate condizioni, cambiare la situazione atmosferica a mille chilometri di distanza, possiamo sperare che ogni piccolo cambiamento introdotto in una classe o in una scuola, come abbiamo tentato di fare nella ricerca, possa determinare un processo di miglioramento in grado di crescere, autoalimentarsi e trasferirsi in altri ambiti.

 Bibliografia essenziale

BATESON G. , Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984.

BATESON G., BATESON M.C., Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano, 1996.

ERICKSON MILTON H., La mia voce ti accompagnerà, Astrolabio, Roma, 1983.

GORDON D.., Metafore terapeutiche, Astrolabio, Roma, 1992.

MILLS JOYCE C., CROWLEY RICHARD J., Metafore terapeutiche per i bambini, Astrolabio, Roma, 1988.

PIEROTTI A., Se Comunicando…, Essedi, Lucca, 1999.

PIEROTTI A., FALASCHI E., PIEROTTI F., Ruoli e positività nella scuola (ricerca sperimentale), Provincia di Lucca, 2002.

ROGERS CARL R., I gruppi di incontro, Astrolabio, Roma, 1976.

WATZLAWICK P., BEAVIN J. H., JACKSON DON D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971.

 

 

2.9 “Star bene a scuola”: ricerca-intervento sul coinvolgimento emotivo degli insegnanti 

Angelo Possemato

 Nell'ultimo periodo si è andata affermando nell'ambito delle professioni a rilevanza sociale la cultura della "Qualità". Tale cultura, sviluppatasi a partire dal mondo dell'industria, ha subito un'evoluzione ed alcuni adeguamenti resi necessari dalla peculiarità dei compiti sociali. Si è passati dalla semplice necessità di "certificare" l'adeguatezza delle strutture, delle competenze e delle procedure al concetto di "Verifica e revisione della qualità" e poi a quello di "Miglioramento continuo della qualità" per arrivare a definire la necessità di una "Analisi partecipata della qualità". Le idee portanti sono quelle di efficacia e appropriatezza degli interventi, di definizione e controllo degli esiti, di riduzione dello scarto fra qualità erogata e qualità percepita dagli utenti. Questo modello, applicato alle professioni che comportano l'interazione fra esseri umani, necessita di notevoli approfondimenti sul versante delle risorse utilizzate, in quanto si tratta in gran parte di risorse "personali" dell'operatore che vanno oltre la pura e semplice "competenza professionale". Richiede altresì uno studio accurato dei fenomeni che avvengono sia nel gruppo degli operatori che nel gruppo degli utenti e dei rapporti fra questi gruppi e l'organizzazione del relativo ambiente.

Il benessere soggettivo di ogni operatore e l'evitamento di disfunzioni e turbolenze nel funzionamento gruppale, non sono da considerarsi in questo caso come "plusvalenze accessorie" rispetto alla produzione di servizi di qualità, ma come il "motore centrale" di tutto il processo.

Questa ricerca, condotta su un campione di 345 insegnanti della Provincia di Benevento, si è posta non solo come strumento di rilevamento trasversale dei livelli di "stress" lavorativo e delle componenti situazionali e personali che lo determinano o al quale reagiscono, ma ha avuto almeno due altre finalità di più ampio respiro: la prima è stata quella di testare un modello generale dello stress non limitandosi alla  misurazione dell'ampiezza di singole componenti, la seconda di mettere in moto un processo di riflessione e di consapevolezza negli insegnanti stessi.

Per quanto attiene alla prima finalità, i risultati hanno confermato l'ipotesi che lo stress sul lavoro sia la risultante di molteplici fattori che interagiscono in modo non lineare. Tale risultato suggerisce l'utilità di approntare  diverse piattaforme di analisi continua e diversi progetti di intervento.

Per quanto attiene alla seconda finalità riteniamo necessario coinvolgere dirigenti e insegnanti nella definizione delle forme istituzionali e pratiche che potrebbero meglio consentire la gestione locale delle piattaforme di rilevamento e la stesura, realizzazione e monitoraggio dei progetti di intervento.

Il livello di risultato raggiunto a Benevento lo si deve anche, e soprattutto, alla non usuale disponibilità, collaborazione e professionalità di tutti i soggetti partecipanti. E’ stato così possibile costruire una ipotesi di lavoro stimolante, innovativa e sulla quale, pensiamo, altri vorranno confrontarsi con noi, su tutto il territorio nazionale e non solo.

 Il burnout

La sindrome del “burnout”, esprimibile in italiano come “sindrome da corto circuito”, si può descrivere come quel fenomeno che colpisce soprattutto chi si prodiga per gli altri, in particolare insegnanti, educatori, psicologi, medici, assistenti sociali, volontari ed altri.

Questi, dopo una fase iniziale di avvio del loro lavoro durante la quale prevalgono l’entusiasmo e le prime soddisfazioni professionali, si “bruciano” e possono manifestare un quadro caratterizzato da stanchezza, depressione, nervosismo, apatia, indifferenza e sentimenti di colpa.

In particolare, gli insegnanti assumono atteggiamenti rigidi e distruttivi per cui non solo rifiutano il proprio lavoro, ma anche la ragione e lo scopo dello stesso. Una vera e propria malattia professionale.

Una volta si parlava genericamente di “esaurimento nervoso”, dovuto a sovraccarico da lavoro e concettualizzato come la condizione in cui si trova un organismo quando, ostacolato nella soddisfazione dei propri bisogni e aspirazioni, in modo permanente o temporaneo, diretto o indiretto, risponde alla situazione con uno stato di tensione emotiva, di esaurimento fisico, stanchezza.

Oggi sappiamo che il burnout é il risultato dell’azione di fattori stressanti che risultano non padroneggiabili da parte delle risorse fisiche, intellettive ed emotive dei soggetti.

Di fronte ad eventi stressanti di notevole entità, qualunque soggetto, anche se dotato di grandi risorse, cade in preda a fenomeni di burnout e un soggetto con bassissime risorse può cadere in burnout di fronte a eventi portatori di una carica stressante oggettivamente piccolissima. Bisogna quindi prendere in considerazione sia fattori oggettivi che fattori soggettivi nella genesi del burnout.

In termini più specifici si può pensare al burnout come ad una sindrome costituita da

 

1.      esaurimento emotivo

2.      depersonalizzazione

3.      ridotta realizzazione personale:

 La ricerca

Il Provveditorato agli Studi di Benevento, con la collaborazione di alcune scuole di tutti i gradi, ha promosso una indagine tra i docenti allo scopo di contribuire all’innalzamento della qualità del Sistema Scuola attraverso il miglioramento della qualità di vita degli insegnanti.

Attraverso questionari scientifici ed interviste – colloquio, sono stati analizzati motivazioni e livelli di affaticamento, definendo gli effetti e facendo ipotesi sulle cause.

I dati raccolti sono stati sottoposti ad analisi multidimensionale e sono state elaborate proposte per la prevenzione e il controllo del fenomeno.

I questionari che sono stati presentati agli Insegnanti, rappresentano una versione ridotta e modificata di due strumenti elaborati per finalita’ più specificamente cliniche, la Scala di Suscettibilità alla Colpa e alla Vergogna (SSCV) di Battacchi, Codispoti e Marano, dell’Università di Bologna e il Locus of  Control Composto (LCC), sviluppato da  Wallston, Wallston, & DeVellis.

Il primo si rivolge ai fattori e alle situazioni che predispongono le persone a provare sentimenti di colpa e/o vergogna e analizza alcuni presupposti e conseguenze di tali sentimenti.

Il secondo studia il processo attraverso il quale gli individui si spiegano le cause degli eventi favorevoli o sfavorevoli cui vanno incontro. Sembra, infatti, che ci siano delle significative correlazioni tra burnout e soggetti a “controllo interno” (che si sentono cioè attivi e direttamente responsabili rispetto a ciò che accade loro) e coloro che hanno un “controllo esterno”, in altre parole che percepiscono gli eventi e i risultati che ottengono come frutto di forze di là del loro controllo.

Alcuni soggetti presentano un tipo di “controllo casuale” cioè non fanno riferimento all’esterno ne’ a sistemi più ampi, come la società o il Sistema Scolastico nel suo insieme, ma a qualcosa di molto più impreciso e instabile, come il destino, il fato, la sfortuna e la fortuna; un aspetto di questo modo di sentire, che ha molto in comune con la cosiddetta “mentalità fatalista”, é la tendenza a rinunciare alla lotta. Quando la sfiducia é totale si cade nei veri e propri casi di “disfattismo”.

Inoltre, è stata preparata una lista di item che spaziano su diverse aree di fronteggiamento:

q       item che riguardano meccanismi che tengano conto del problema lavorativo, lo lasciano in primo piano e tentano di agire direttamente su di esso

q       item che riguardano il problema, ma non per affrontarlo, bensì per evitarlo il più possibile

q       item che riguardano meccanismi di gestione indiretta dello stress

 

I risultati

E’ stato possibile individuare 4 gruppi, in base al profilo di burnout:

 Gruppo A: è costituito dal 30% dei soggetti e si caratterizzano per avere valori medi sia all’esaurimento che alla depersonalizzazione e una buona realizzazione personale.

 Gruppo B: conta il 30% di soggetti che si caratterizzano per la quasi totale assenza di esaurimento e per un senso di alta realizzazione personale.

 Gruppo C: questo gruppo comprende il 20% di soggetti e si caratterizza per la bassa realizzazione personale.

 Gruppo D: è composto dal 10% di soggetti caratterizzati da notevole Esaurimento Emotivo.

 

Considerazioni conclusive

E’ stato rilevato come il benessere dell’insegnante agisca contemporaneamente come fattore che determina la buona qualità del servizio erogato, ma anche come indicatore di esito del funzionamento di tutta la struttura. Ecco quindi che appare utile proporre l’implementazione di strumenti di autodiagnosi che incentivino la trasparenza delle procedure e che siano finalizzati alla descrizione degli effetti relazionali ed emotivi che le principali funzioni didattiche ed organizzative, così come sono di fatto attuate nei vari contesti, producono sugli insegnanti .

Per questo obiettivo si è dotato il modello di un sito informatico, per consentire agli utenti una fruizione rapida (in termini di risposta) e continuativa (in termini di controllo). Nel caso in cui uno o più istituti scolastici volessero conoscere periodicamente la situazione della qualità di vita dei propri insegnanti, ciò sarebbe consentito dall’automatico aggiornamento dei dati complessivi. Alla fine delle singole rilevazioni, potrà avere sempre aggiornata la propria situazione ed il proprio clima organizzativo, salvaguardando sempre, come ovvio, l’anonimato delle risposte individuali.

 

Bibliografia essenziale

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BATTACCHI M.W., CODISPOTI 0., MARANO G., Per la valutazione della suscettibilità alla vergogna e al senso di colpa: la scala SSCV in Bollettino di Psicologia Applicata, 233, 2001, pp. 19‑31

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  3.1 Esperienze di giustizia minorile 

Isabella Mastropasqua

 Collocare l’idea del miglioramento all’interno della Giustizia Minorile richiede una pre-riflessione rivolta alla dimensione organizzativa ed istituzionale, perché è dentro questa dimensione che è possibile generare o meno il miglioramento delle pratiche sociali. “ Le istituzioni sono degli artefatti umani che rendono possibile il riconoscimento della società come un mondo comune. Perciò è importante metterle a tema e farne oggetto di elaborazione e di cura. Dalla loro qualità, spesso mediocre, dipende la convivenza civile, dipende cioè l’intelligenza collettiva impiegata nella elaborazione, nella discussione e nelle scelte su quale società vogliamo e costruiamo ” (O.De Leonardis). Spesso le istituzioni brillano per la loro opacità, per il pensiero corto che blocca la capacità di azioni in prospettiva e non utilizza le esperienze come strumenti per l’apprendimento continuo. Spesso, si connotano per il basso grado di riflessività interna che genera dispositivi poveri per vedere i propri modi di vedere,  non consentendo di riconoscere i destinatari degli interventi, quali attori, soggetti attivi,  degli interventi; cosicché ne costituiscono l’oggetto esterno e non una componente essenziale interna al processo. Queste puntualizzazioni assumono maggior peso se le avviciniamo alla specificità del settore della Giustizia Minorile e se riconosciamo un ruolo di attore agli adolescenti che entrano nel circuito penale. Diventa, infatti, necessario in questo caso effettuare un’azione di spiazzamento cognitivo ed essere disposti a patirne le difficoltà. D’altro canto lavorare con gli adolescenti comporta e richiede operazioni di spiazzamento continuo laddove oggi non si può non riconoscere l’esistenza di una varietà di mondi. Il vecchio universo giovanile è divenuto un pluriverso (P.Donati) al cui interno gli adulti devono ritrovare la  passione educativa che li rivitalizzi come presenza significativa e non connivente,  quale  generazione che insomma la smetta  di rifiutarsi di crescere e di svolgere un ruolo educativo. Ci sono dimensioni della vita sociale che accomunano la fascia d’età 15-45 anni e che fanno parlare di una gioventù espansa, trasversale nei consumi, (tanto per fare un esempio si pensi all’informale della moda, alla tensione smodata all’antinvecchiamento, ecc). Diventare adulti ed educatori implica la necessità di una azione che consenta di vederci riflessi e ci aiuti a comprendere il pluriverso giovanile, ossia i mondi degli adolescenti, frutto delle differenziazioni delle reti sociali che costituiscono il loro mondo di relazioni quotidiane per vedere , a partire da queste relazioni, come conducono la loro vita, fanno le loro scelte, danno consistenza ai loro comportamenti. Com-prendere la realtà giovanile è quindi com-prendere l’insieme dei processi di crescita che si sviluppano a partire dalle relazioni tra mondi giovanili e mondi degli adulti. Comporta il prestare attenzione alla qualità della relazione sociale che si genera dal rapporto con altre generazioni e alla qualità generativa di questi incontri. I giovani devono sentirsi generati e capaci di generare, mentre oggi le relazioni giovani-adulti non sono più automaticamente generative. È a questo punto che ha senso la relazione ragazzi – Giustizia Minorile, quale possibile spazio generativo di processi di miglioramento, capace di aprire nuove prospettive al momento dell’incontro con il sistema penale.

Gli adolescenti oggi hanno perso lo specchio dell’identità e l’orizzonte del progetto. Mentre tace il sé progettuale, si moltiplicano le azioni  (reversibili). Le singole biografie in balia di una forza centrifuga evidenziano un’ipercinesi, un surplus di empiria a risarcimento della fine di una grande narrazione entro cui collocarsi e di  un pensiero grande che non c’è. S’allenta la dimensione morale ed aumenta quella performativa, ha valore il risultato della singola azione su cui si è giudicati, qui ed ora, nel bene e nel male e non per quanto questa azione si avvicini o discosti da un progetto. La relazione migliorativa che l’adolescente incontra all’ingresso nel circuito penale assume il progetto quale snodo essenziale. Recupera inizialmente due concetti tipici dell’adolescenza: il limite ed il rischio e li riconnota come strategie per il miglioramento. Il rischio diventa la capacità di spendere i propri talenti, di misurarsi con le proprie potenzialità, diventa la curiosità positiva che fa crescere ed imparare. Il limite diventa, di contro, lo spazio dove l’altro non è esclusivamente il confine per la mia libertà ma la possibilità di un legame, di un’appartenenza tra liberi.  Il concetto di esperienze di Giustizia Minorile, quale contenitore di questa riflessione richiede, prima di addentrarci nella specificità del lavoro socio-educativo, l’attenzione all’uso del plurale, perché plurali sono le forme di questa relazione tra i ragazzi e la Giustizia e, l’attenzione al sostantivo esperienza che rinvia a processi di lavoro esperti, a pratiche diversificate che si generano nello sperimentarsi dell’incontro. Andando oltre la retorica del territorio sono proprio queste pratiche locali che generano progetti di sviluppo e di miglioramento a partire dalla consapevolezza della complessità dei processi e dell’esistenza di possibili disequilibri territoriali, dentro cui trova spazio il singolo progetto educativo.

Adolescenza e trasgressione sono costitutivamente legate: un ragazzo per crescere deve mettere in discussione le regole che gli adulti gli hanno insegnato e che egli ha interiorizzato durante l’infanzia per poterle fare proprie, per modificarle o rifiutarle. La revisione del rapporto con le norme di comportamento e con i sistemi di valori è parte integrante dei processi di crescita, e comporta una profonda modificazione della relazione con gli adulti, che ne sono i naturali rappresentanti.

E’ quindi di particolare importanza riflettere sulle risposte degli adulti ai comportamenti trasgressivi e sui fattori di rischio e di protezione, che facilitano o impediscono il passaggio da atteggiamenti e comportamenti trasgressivi poco rilevanti a veri e propri atti delinquenziali. Le esigenze attuali di una società frantumata, invitano a considerare la devianza come azione comunicativa, rinviano al bisogno di recuperare il dialogo necessario alla costruzione di quella comunità, di quel senso di cittadinanza che si presenta sempre  più come necessario ed impossibile da realizzare..

L'intervento penale non si connota più come un intervento meramente punitivo  ma è prevalentemente orientato al processo educativo interrotto o deviato, a nuove progettualità, attraverso l’offerta di occasioni educative che possono aiutare a recuperare consapevolezza, responsabilità, intenzionalità.

L’intervento penale si basa, pertanto, sulla diversificazione della risposta, una risposta  adeguata alla gravità del fatto, ma soprattutto alla personalità, alle esigenze educative, per non  trasformare l’impatto con la giustizia  in un’esperienza destrutturante e diseducativa. La norma configura un’azione di risposta alla devianza “a maglie larghe”, da costruirsi nel progetto educativo.

L’elaborazione di un piano educativo consente di strutturare un percorso articolato su più fronti, finalizzato ad obiettivi di crescita e non semplicemente connotato in termini meramente prescrittivi. L’ampliamento degli attori sociali (minore, famiglia, giustizia, istituzioni varie, territorio) coinvolti nel processo penale, la strategia fortemente relazionale richiesta loro come interpreti, mediatori dei diritti e di bisogni del ragazzo e come promotori di processi di responsabilità, vede quali passaggi significativi:

·      centralità della dimensione educativa nell’azione penale;

·      strategia relazionale e reticolare dell’intervento penale per connettere la pluralità di attori sociali coinvolti;

·      necessità di potenziare percorsi di sviluppo diversificati sul piano operativo (potenziare le opportunità territoriali), tecnico (promuovere ed incentivare la professionalità degli operatori, investire in formazione ), organizzativo (sviluppare formule di coordinamento e di integrazione e favorire all’interno della giustizia minorile nuovi assetti organizzativi).

·      esperienze di mediazione penale quale spazio che consente l’incontro tra la vittima e il colpevole, che accoglie  il conflitto e la riflessione tra le parti. “La mediazione è un processo, attraverso il quale un terzo neutrale tenta, tramite l’organizzazione di scambi tra le parti, di permettere loro di confrontare i propri punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone.” L’esperienza della  Mediazione rinvia alla necessità di politiche sociali locali fondate sulla capacità da parte della comunità  della gestione dei conflitti. 

 La dimensione progettuale può evocare l’idea di una costruzione ingegneristica  delle attività che si pongono in essere a favore e con un ragazzo. La generalità del termine in realtà, rimanda  ad una infinita e mutevole possibilità di progetti così come sono infinite e mutevoli tutte le singole storie di vita; quello che si vuole sottolineare insistendo con tale termine è la necessaria intenzionalità di ogni azione socio-educativa all’interno del processo penale. Un’intenzionalità rispetto agli obiettivi da raggiungere, anch’essi infiniti e mutevoli rispetto ai possibili percorsi di autonomia e di crescita di un ragazzo. La dimensione progettuale rimanda altresì alla responsabilità degli operatori rispetto alla definizione del progetto, alla individuazione degli obiettivi raggiungibili, alla presenza di un accompagnamento competente perchè gli obiettivi siano raggiunti ed il progetto realizzato. 

La progettualita educativa ha il suo cuore nel ripristino  delle competenze della famiglia come risorsa primaria; ma il legislatore consapevole della forte distanza tra  tali agenzie e della necessità di promuovere soluzioni sempre più articolate, individua molteplici spazi intermedi d’intervento che prevedono formule di residenzialità diverse come l’affido familiare, il collocamento in comunità aperte e l’offerta di opportunità educative rese possibili anche dall’attivazione della comunità locale come le borse di studio/lavoro, il supporto alle famiglie, le attività di socializzazione ecc.

La dimensione progettuale, si scinde in micro progettualità; il progetto diventa concreto, storia ricca di sentimenti ed emozioni, si centra sul ragazzo e sul problema/obiettivo da risolvere, si basa sull’individuazione di un traguardo e contemporaneamente sullo sviluppo di una relazione, sugli impegni concordati e verso obiettivi più complessivi di sviluppo. La doppia centratura sulla persona e sull’obiettivo educativo serve a bilanciare il processo d’aiuto, per evitare la “radicalizzazione” delle energie intorno esclusivamente al risultato da conseguire a tutti i costi, dimenticando così l’aspetto di relazione che si esplicita nell’accoglienza, ascolto, sostegno ed accettazione.

La concretezza della progettualità socio-educativa è data inoltre dalla territorialità dell’azione come componente necessaria per la realizzazione di progetti educativi strettamente collegati con una dimensione reale di vita. Un progetto educativo non può prescindere dal contesto territoriale e soprattutto deve ripristinare e valorizzare tutti quegli elementi locali che possono costituire una risorsa, in una logica di potenziamento delle reti primarie e secondarie, formali e non, al fine di un riavvicinamento complessivo del penale alla comunità locale. Il disagio minorile non può essere scisso dal complessivo ambiente in cui si esprime, anzi va considerato all’interno della realtà territoriale, dove rappresenta un’appartenenza a culture, storie,  stili di vita e di pensiero, a relazioni economiche, sociali e politiche. La progettualità educativa così come non può essere avulsa dalla storia personale non può prescindere da una sua collocazione all’interno di una storia sociale e collettiva.   

In questo senso l’efficacia di misure in area penale esterna è fortemente condizionata anche dalle risposte che i servizi territoriali e quindi le politiche locali saranno in grado di promuovere. Si richiama l’attenzione alla cultura della tolleranza, della solidarietà e della responsabilità collettiva, nell’ottica di superamento di interventi paternalistici ed assistenziali. La comunità territoriale non può e non deve abbandonare il “ragazzo-penale” a se stesso e non può delegarne totalmente la gestione allo Stato.

L’intervento all’interno del sistema penale minorile è, pertanto, tutto centrato intorno all’idea del passaggio, del movimento, della dinamicità, del cambiamento.

Si tratta di una dimensione operativa che bene si adatta alla condizione psicologica e sociale dell’adolescente, ad una dimensione dell’azione sociale proiettata verso la ricerca di flessibilità operative, di assetti organizzativi nei servizi non cristallizzati in forme standard e strutturate e che soprattutto consenta di andare oltre il sistema penale. L’azione penale così intesa introduce immagini di movimento, evoca la  metafora del viaggio: un punto di partenza, un itinerario, un arrivo: ma soprattutto un  percorso, che richiama l’idea di processo inteso come evoluzione negoziata e ridefinita nel movimento tra le parti coinvolte.

Per andare oltre il processo penale minorile, bisogna costruire le basi per il suo superamento. L’ingresso del minore nel circuito penale rappresenta il punto di partenza. Gli operatori  dei servizi dell'amministrazione svolgono il ruolo di un agenzia viaggi che in base ai desideri, alle potenzialità, alle effettive possibilità ed opportunità formulano ipotesi e proposte rispettando i vincoli oggettivi e soggettivi dovuti alla particolarità del contesto e cercando di trasformarli in risorse, valorizzando le diverse “occasioni” presenti nel tessuto sociale. Obiettivo è far ritornare il desiderio di viaggiare e confrontarsi con l’avventura della propria vita, produrre processi di crescita in grado di potenziare le autonome risorse del soggetto all’interno del suo capitale relazionale e le sue capacità di connettere opportunità al di fuori dell’ambito istituzionale.

L’ampliamento degli attori sociali (minore, famiglia, giustizia, istituzioni varie, privato sociale, territorio) coinvolti nel processo penale, la strategia fortemente relazionale richiesta loro come interpreti, mediatori dei diritti e di bisogni del ragazzo e come promotori di processi di responsabilizzazione reciproci, costituisce un fattore di notevole complessità. La comunità locale consente la costruzione di un modello d’azione capace di aprire nuovi spazi operativi, di ridefinire la categoria interpretativa della devianza nella prospettiva della risposta sociale ed istituzionale ai comportamenti trasgressivi e, quindi capace di avviare processi di ricomposizione della devianza, a partire dalla famiglia per giungere alla possibilità di un progetto “pedagogico” di cittadinanza, dove anche l’adulto che ha perso la sua responsabilità di essere tale, ripristini la sua competenza  relazionale nell’ambiente di vita del ragazzo.

Si tratta di un lavoro con le reti che sollecita all'operatività orientata ai processi ed ai risultati piuttosto che al potenziamento degli apparati e delle strutture. Agevola la presa in carico collettiva tra più soggetti attraverso l'individuazione e la sperimentazione di nuovi assetti non solo metodologici ma organizzativi nell'area penale minorile. Valorizza/razionalizza le risorse/opportunità del minore, del suo contesto territoriale e relazionale, dell'operatore, promuove empowerment.

L’attenzione alle strategie di rete nel sistema penale minorile è in sintonia con le coordinate di politica sociale nel nostro paese sempre più orientato verso welfare locali, basati sulle responsabilità articolate di più soggetti, individuali, collettivi, territoriali, statali. Soggetti in relazione, che ricostruiscono relazioni fiduciarie, scambiano beni relazionali e virtù civiche, che attivano sistemi di relazioni a vari livelli, che costruiscono reti di solidarietà, collaborazione, alleanze su obiettivi verificabili nel tempo. In questo senso nel locale i fattori di rischio trovano risposte pertinenti e congruenti, perché connesse a quel territorio, alla sua storia economica, politica e sociale.

A fronte di un sistema articolato e complesso come quello finora descritto, le istituzioni sono uno dei pochi strumenti che abbiamo concretamente a disposizione per non rinunciare a costruire nuovi mondi attingendo da quelli in cui siamo immersi. Da questo punto di vista la loro cura e manutenzione sono essenziali per il miglioramento. Più  specificatamente si tratta di avere cura delle persone che vi operano e che rappresentano la risorsa essenziale. La formazione degli operatori è allora una delle risorse chiave all’interno delle organizzazioni, la strategia che ben integrata in piani complessivi di sviluppo, può consentire il rinnovamento organizzativo in quanto valorizza il capitale umano, l’intelligenza come risorsa. A ciò si aggiunga il valore ed il senso della ricerca sociale, componente poco attenzionata nell’ambito dei servizi alla persona, quale supporto di conoscenza situata in grado di orientare l’azione, la decisione e soprattutto la direzione del miglioramento.

 

 

  3.2 Raccontare, resistere… processi di miglioramento nelle organizzazioni 

Rosalba Romano

 

Premesse generali

La narrazione, il racconto delle nostre storie personali e professionali, non si limitano ad offrirci uno specchio della nostra condizione, ma come ci indica la scrittrice Guimaraes Rosa (da cui il titolo di questo articolo) ci formano,  ci impegnano, ci guidano verso la responsabilità del presente, ci coinvolgono nella vita. Le nostre storie professionali si intrecciano quindi inscindibilmente alla nostra vita relazionale dentro e fuori l’organizzazione in cui operiamo e ci interrogano sui nostri modi di essere e resistere in un mondo che pur essendo parte dei nostri mondi vitali, spesso non riesce a connotarsi come tale.

L’organizzazione, più che essere fatta di cose è fatta di persone; non potrebbe esistere senza le persone, e le relazioni interpersonali fra i diversi “attori” sono caratterizzate per loro natura da un complesso intreccio di dimensioni razionali e irrazionali, di obiettivi e interessi divergenti, di “giochi” complessi che non sono in realtà soltanto determinati dalle norme e dalle procedure formali.

Questa prospettiva dell’organizzazione come sistema di azioni strategiche, nota in campo sociologico, ma anche psicosociale e psicologico, ha, tra i suoi pregi, quello di avere svelato che dietro l’apparente immutabilità e determinismo dell’organizzazione immaginata, esistono in realtà una mobilità e una serie di spazi vuoti in cui tutti possono giocare le loro carte; anzi la strutturazione “solida” dell’organizzazione (le regole, le procedure, le prescrizioni…) è concepita come la risultante degli intrecci di azioni umane non previste, non sempre programmabili, dotate di intenzionalità, e che hanno la caratteristica di essere parziali, divergenti, unilaterali, talvolta conflittuali. Bisogna prendere atto della possibilità di incidere sulla organizzazione lavorando sull’individuazione degli aspetti nodali e sulla opportunità di produrre miglioramento.

Rispetto agli assetti organizzativi in cui ci si trova ad interagire e sulle modalità di resistenza che i diversi soggetti scelgono di adottare in base alla loro posizione e vissuto personale, mi interessa individuare, facendo ricorso anche all’ironia, un sistema di premesse:   

 Bisogna avere 7 vite come i gatti x sopravvivere in un’organizzazione; l’antico proverbio mette in evidenza l’energia e la fatica di sostenere climi, posizioni e ruoli organizzativi quando i ritmi e le “beghe” dell’organizzazione generano conflitti, demotivazione, burocrazie e tutto quanto concorre alla produzione dei fenomeni di burn out e mobbing che, se parliamo di servizi sociali, si sovrappongono al lavoro con utenze difficili, marginali e poco gratificanti. Nell’attuale realtà dei servizi alla persona il burn out degli operatori non può essere ricondotto esclusivamente alle difficoltà e alle caratteristiche del lavoro sociale, ma va ricongiunto agli “attentati” organizzativi che si verificano nella complessità dei sistemi dei servizi, in cui l’essere persona diventa un valore da difendere e salvaguardare. L’operatore è chiamato a giocarsi continuamente in più ruoli e su più ambiti, riprendendosi da inevitabili delusioni, invidie, gelosie, giochi di potere, astuzie e tranelli e tentando di risalire la china anche nei momenti in cui episodi negativi minano oltre che l’ambito professionale, anche quello personale.

Rimanere, stare; è evidente per chi lavora con la realtà delle odierne adolescenze quanto sia difficile offrire stabilità come dimensione necessaria per l’evoluzione e la crescita identitaria. Una personalità in formazione trova spazi e contesti di riflessione e confronto nella continuità educativa, scolastica, affettiva, genitoriale. L’egemonia degli input massmediali su cui si fonda l’evoluzione della società moderna, propone un modello di uomo in continuo cambiamento, preso dal frenetico vortice dell’avanguardia, dello stare al passo coi tempi, dall’escalation verso l’avanzamento. Ciò si riflette in tutti i campi dell’esistenza, in cui attualmente ci troviamo ad affrontare continue spinte verso cambiamenti tecnologici-pratici, emozionali - affettivi, o di potere. La capacità di rimanere dell’operatore, la sua tenacia di resistenza fatta di motivazione e rimotivazione, di continuo e dinamico equilibrio, è senz’altro una delle premesse più importanti rispetto soprattutto all’ottica di individuazione di possibili aree di investimento in processi di miglioramento.

Gli appigli; Jovanotti in una delle sue canzoni più famose esordiva dicendo che “uno da solo sì, può fare molto, può fischiare, ….ed impazzire ma uno con qualcuno che lo ama e che lo stima e che lo guarda con passione, può anche fare la rivoluzione”. Nelle realtà istituzionali, ad eccezione di poche isole felici, sappiamo che difendersi dalla spersonalizzazione è una delle attività che risucchiano la maggior parte delle energie degli operatori, già impegnati sul fronte della valorizzazione delle risorse personali degli utenti. Trovare spazi di incontro empatico e di condivisione dei vissuti personali e professionali è l’unica via per mantenere l’autenticità di relazione, che, nelle professioni sociali, costituisce anche un habitus eticamente imprescindibile.

I non-luoghi dell’organizzazione; il concetto di non-luogo viene introdotto nel dibattito contemporaneo dall’antropologo francese Marc Augè, che nel contrapporlo al concetto di luogo quale “frazione di spazio lavorata dalla storia, dalla memoria, dall’esperienza vissuta di una collettività”, lo definisce come uno spazio inerte, vuoto di relazioni. “E’ lo spazio degli altri senza la presenza degli altri, dove gli individui, indifferenti l’uno all’altro, si sfiorano e si urtano senza incontrarsi”. Dal mio punto di vista i non- luoghi dell’organizzazione sono quelle aree marginali di vita professionale che, per la loro produzione di senso, riescono ad esprimere valori contrapposti a quelli emergenti dell’immagine e della produzione di potere. Paradossalmente, gli spazi di fatica e complessità lasciati vuoti, si trasformano in risorsa da cui partire per la costruzione di nuovi significati, in luoghi da fecondare e da ritrasformare in spazi di identità, storie, relazioni.

I vivi apparenti/I suicidi viventi; è purtroppo una delle attuali emergenze della condizione adulta, accentuata ancor di più all’interno del mondo istituzionale, ma più ampiamente organizzativo; in quanto sia le istituzioni che le aziende concorrono alla definizione di climi esistenziali complessi, confusivi e generatori di malessere. Malgrado spesso ci troviamo a schernirci dal sintetizzare la nostra realtà di vita nel microcosmo lavorativo, è pur vero che i tempi e ritmi di assorbimento nella vita professionale, e quindi organizzativa, diventano sempre più alti in relazione alla produttività, alla realizzazione personale e al valore che attribuiamo alla nostra immagine sociale costruita sul successo professionale e sulla carriera. Questo processo corrisponde senz’altro alle difficoltà che sperimentiamo nel costruire spazi di relazioni umane, e al senso di solitudine diffusa che permea trasversalmente tutte le dimensioni del sociale. La perdita di contatto tra il mondo personale idealizzato e costruito sul mito di sé, e la propria dimensione di autenticità fatta di limiti da narrare e attraversare nel confronto empatico con sé stessi, gli altri e il mondo, genera ciò che, forse brutalmente, mi piace definire, un mondo di suicidi viventi; di persone che, pur vivendo, hanno rinunciato a se stessi, al fondamento della propria esistenza.

 Le premesse teoriche

Quando si affronta un gruppo si incontra una nuova realtà, sconosciuta tanto al singolo quanto agli altri membri: ciò genera ansia circa il mantenimento della propria identità e la soddisfazione dei bisogni che la colorano. Ciascun membro usa il gruppo come oggetto per la soddisfazione dei propri bisogni e per l’equilibrio delle proprie esigenze, ma i bisogni individuali sono spesso incompatibili, mutuamente escludentisi e talvolta narcisistici. Se ci riferiamo ai contesti organizzativi parliamo di gruppi di lavoro, centrati cioè sui compiti, sui bisogni di sviluppo delle aree organizzative, sulla funzionalità rispetto agli assetti lavorativi.

Il gruppo di lavoro è soggetto diverso dal gruppo. La differenza più consistente risiede nel fatto che, mentre un gruppo è una pluralità in interazione, un gruppo di lavoro è una pluralità in integrazione. Per meglio dire una pluralità che tende progressivamente all’integrazione dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze che si manifestano nel collettivo.

L’integrazione sviluppa la collaborazione, che definisce un’area di lavoro comune, di partecipazione attiva di tutti i membri. Collaborazione fondata su relazioni di fiducia tra i membri, sulla negoziazione continua di obiettivi, metodi, ruoli, leadership e sulla condivisione di decisioni ed esiti. Le relazioni di fiducia si esprimono nella capacità di affidarsi alle idee e alle proposte degli altri come nella sicurezza della bontà delle proprie. E’anche la convinzione che nel gruppo di lavoro non sono in conflitto gli individui, ma si confrontano diverse ipotesi in rapporto ad un obiettivo definito.

Pertanto, da quanto premesso, si evidenzia come anche nel gruppo più secondario, come un gruppo di lavoro c’è molto di primario. C’è molto del mondo vitale delle persone, del loro modo di interagire con la realtà. La teoria dell’artigianato educativo ci offre la possibilità di esperire interventi valutativi  e di riequilibrio della dimensione organizzativa attraverso gli strumenti elaborati in questi anni di studio e ricerca esperiti in varie realtà e contesti organizzativi. La rielaborazione degli studi esperiti nel settore attraverso l’applicazione della  metodologia di lavoro di “Prevenire è possibile”, ha aperto la definizione del ventaglio di personalità collettive di gruppo di lavoro.  Somministrando ad ogni membro un questionario sulla personalità individuale[4] costruito su tre batterie di item relativi alla percezione del soggetto rispetto al sé, rispetto agli altri e rispetto al mondo e sovrapponendo ed incrociando i risultati per costruire la personalità collettiva latente (in quanto nella realtà la conformazione delle relazioni si sposta costantemente conformandosi all’ambiente) del gruppo di lavoro, siamo giunti ad individuare le prevalenti dimensioni della relazionalità dei contesti di analisi[5].

Rispetto alla percezione sul lavoro di gruppo in letteratura ritroviamo utilizzato un questionario elaborato su affermazioni opposte (Varney,1989)[6]i cui item però, nella sperimentazione sono risultati confusivi perché alternati tra la percezione del soggetto rispetto al gruppo come qualcosa di esterno a sé, la percezione del soggetto rispetto al suo stare nel gruppo e la percezione del soggetto rispetto alla figura del coordinatore. Recentemente il test proposto da Varney  è stato rimodulato e rielaborato riproponendolo secondo gli assi del modello interpretativo dell’artigianato educativo in modo da rendere confrontabili i risultati.

 Le speranze di miglioramento per utilizzare al meglio l’organizzazione

A questo punto della nostra riflessione occorre avanzare delle ipotesi rispetto alla possibilità di avvio di processi di miglioramento all’interno di un’organizzazione che sintetizzo nei seguenti spunti:

Il golpe (!?); quello di sovvertire il sistema è sempre un pensiero liberatorio ed è tra le fantasie più frequenti in contesti in cui si sperimenta il senso di impotenza e di frustrazione. La capacità di immaginazione determina sicuramente un margine di energia costruttiva che deve però confrontarsi con le concrete possibilità di azione  e non con le impulsività emozionali.

Produrre autenticità di relazione nelle organizzazioni/istituzioni; in una intervista rilasciata alla rivista “Animazione Sociale”, l’antropologo Marc Augè afferma :“Io non credo che il sociale sia semplicemente fatto da individui che stanno gli uni accanto agli altri.  A fronte del prevalere di un’idea stereotipata e appiattita dell’uomo, bisogna allora ritrovare l’altro. Anche se non è immediatamente evidente come sia possibile farlo”. Lungi da poter suggerire risposte semplicistiche, è certo che la strada dell’empatia tracciata nel suo più alto contenuto ontologico da Edith Stein, ci suggerisce un metodo di approccio che può offrire spazi di costruzione di senso anche nelle nostre attuali realtà organizzative.

Incontrarsi sugli oggetti e sulle difficoltà di lavoro; se pur l’organizzazione per gruppi di lavoro implichi un continuo confronto e scambio professionale strutturato in momenti di incontro e raccordo congrui agli assetti organizzativi e agli oggetti di lavoro, riflettere sull’operato diventa sempre più irraggiungibile in considerazione delle emergenze e dei tempi risucchiati dalle dinamiche complesse che si mettono in moto negli assetti organizzativi. La gestione delle risorse umane in termini di produzione di saperi professionali condivisi diventa quindi un ambito snobbato e poco considerato rispetto ad altri ambiti concorrenti all’emersione di immagine spendibile all’esterno.

 

  4.1 Il miglioramento educativo 

Antonio Viviani

 Il mio contributo è orientato al nuovo metodo del Reflecting ed al raggiungimento di una conoscenza in esperienza attraverso una riflessione che ovvi ad ogni approfondimento orientato od imposto.

Il tema “il miglioramento educativo”, da Reflector, lo intendo come una maturazione personale, che avvii alla consapevolezza di sé.

In quale senso interpretare il termine educativo? Letteralmente educare significa “aiutare l’altro a condur-si fuori, cioè a condurre fuori se stesso”. Ed è in quest’ottica che io lo offro a voi.

Il mio ultimo volume sulla comprensione di se stessi “Reflecting”, pubblicato dalla Casa Editrice Magi di Roma, ben si sintonizza sulla tematica del miglioramento individuale, prodromo di quello relazionale e sociale.

Possiamo affermare che lo stare insieme, dal punto di vista educativo,  deve permettere alla persona:

-          di sentirsi a proprio agio, rispettato e capace di  poter innalzare l’edificio della propria personalità

-         di giungere ad una padronanza di sé, migliorando la situazione esistente.

Molti sono convinti che si possa giungere a ciò esclusivamente attraverso la parola, usata come farmaco. Si utilizzano parole per persuadere o dissuadere, parole di esortazione o consiglio, di rimprovero per mostrare a qualcuno il proprio torto, oppure di raccomandazione. Alcuni giungono a pensare ed a proporsi di guarire l’Altro fino a guarirlo, magari attraverso un bombardamento di domande  e risposte, simili più che altro a catechismi.

Ed ecco allora esperti che insegnano alle persone che cosa fare, quale potrebbe essere la soluzione migliore, essi stessi rassicurano, incoraggiano, svolgono funzioni di guida.

Incontri che assomigliano più alle interviste, accanimenti atti a raccogliere informazioni. Altri chiedono a chi si dimostra in difficoltà quali siano gli obiettivi per migliorare e le questioni ancora da approfondire (incredibile a dirsi! Ci ricorda il medico di Moliere che chiedeva al malato quali fossero le condizioni!).

Tante esortazioni, sostegni che sono sospinti attraverso le parole. Alcuni sono capaci addirittura di interpretare le parole di chi è ascoltato. Altri cercano di convincere, offrono consigli e persuasioni. Progettano le vie da percorrere, con l’intento di far nascere nella mente di chi ascolta determinate idee, sentimenti e pensieri, come se fossero propri!

Esistono poi i dispensatori di elogi che, spesso ripetuti,  non rappresentano tuttavia il vissuto della persona in disagio, la quale può sentirsi addirittura frustrata, vivere con perplessità la relazione.

Sostanzialmente tante modalità tese a far star meglio l’Altro che sottendono però interrogazioni e direttività:

-         “non ti ha dato niente questa esperienza?”

-         “Diresti la verità a tuo padre, vero?”

-         “Come ti sei sentito in quella situazione ?”

-         “Nel risolvere questo problema che obiettivi ti sei posto?”

Tanti quesiti che dovrebbero permettere alla persona di afferrare il vissuto, ma così formulati non la rendono disponibile a dare risposte adeguate e può accadere persino che ella rimanga sfavorevolmente impressionata da uno stile relazionale più simile ad un interrogatorio che a situazioni educative.

Spesso poi, sempre con finalità di raccolta informazioni per capire e poter organizzare un miglioramento all’Altro, ci sono abusi dei “perché” . Tante domanda che irritano, specie se si chiede  di “rispondere onestamente”.

Altri arrivano addirittura a chiedere :

-         “che  cosa posso fare per te?”

-          “quale pensa sia il problema di fondo?”

Atteggiamenti che, ci chiediamo, in quale contesto educativo si orientino!

Le nostre perplessità aumentano quando ci troviamo di fronte a stili esortativi, che divengono addirittura imperativi:

-         “dimmi di più su questo atteggiamento”

Ci troviamo insomma, spesso, di fronte a persone che interpretano, propongono, fornendo spiegazioni, chiarimenti…. abili, a loro parere, ad aiutare al miglioramento, anche a costo di tirare a caso:

-         “mi è venuta in mente un’idea....non potrebbe essere per caso che...?

-         “secondo lei sarebbe possibile in questa situazione pensare...”

oppure:

-         “..proviamo a fare un’ipotesi, anche se non sappiamo se sia vera..”

-         ...ho una sensazione...non so se sia giusta o meno..”

Altre occasioni che alcuni definiscono educative sono i richiami:

-         “perché stai in silenzio ?”

dimenticando quanto esistano anche forme di silenzio che noi, nel Reflecting, chiamiamo conversazionale, utile cioè alla riflessione con se stessi, per se stessi.

E poi gli ammonimenti , con frasi del tipo:

-         “lo ammonii a non agire d’impulso”

le spiegazioni

-         “gli spiegai che questo era il suo modo di comunicare”

Inseguimenti, ricerca di connessioni, implicazioni e significati che tendono a creare situazioni che inficiano, che disturbano la comunicazione con se stessi e con l’altro.

Dobbiamo essere coscienti che le parole possono ferire più di ogni altra cosa e che l’aiuto al miglioramento, se basato esclusivamente su queste, può divenire un labirinto di parole, in cui ci si può sentire bloccati, disorientati.

Non credo, peraltro, che possano esistere panacee, soluzioni precotte e preconfezionate.

Il Reflecting è un metodo che richiama ciò che affermava Galileo “ Non puoi insegnare qualcosa ad un uomo. Puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sè”.

Lo scopo del Reflecting è quello di aiutare, agevolare la persona al riconoscimento di sé come soggetto in grado di fronteggiare ogni situazione, di accrescere la sua capacità nel contrastare i propri disagi, nel prendere decisioni in relazione a scelte di carattere individuale, nell’affrontare problemi o difficoltà particolari che la riguardano direttamente.

Il Reflecting permette al soggetto:

-         di capire se stesso,

-          di conoscersi meglio,

-         di entrare in contatto con le proprie esigenze,

-          di rafforzare la propria consapevolezza individuale in rapporto al mondo relazionale;

-         è un procedimento rivolto a favorire una crescita personale che sviluppi il coraggio di affrontare i rischi e le delusioni esistenziali e che porti ad essere profondamente consapevoli di possedere una volontà capace di condurre azioni in modo libero e responsabile.

Questo metodo propone quindi un’evoluzione positiva dell’individuo, utilizzando prevalentemente le sue risorse personali che possono essere rivolte al raggiungimento di una maggiore maturità, alla disponibilità a proporsi per il superamento degli ostacoli, ovunque questi possano incontrarsi ed infine a migliorare il livello delle prestazioni.

È importante dare l’opportunità all’individuo di migliorarsi. Ciò significa liberarlo dal soggiogo dei consigli e da quanti intendono guidare, offrirsi quali maestri e saggi, novelli Caronte, traghettatori di anime e che si muovono sentendosi come Gesù nel tempio!

Lo scopo del Reflecting è quello di far comprendere che cosa succede nel mondo interiore dell’individuo che diventa, grazie all’intervento del reflector, investigatore di se stesso. Questo metodo è un aiuto che porta la persona a muoversi fra gli anfratti delle fantasie e delle emozioni, ad interpretare la propria mappa ed esplorare le ricchezze non ancora scoperte, a raggiungere il desiderio di espandere la propria consapevolezza, a ricercare le verità più profonde fino ad uscire dal caos attuale e ad arrivare alla felicità personale.

 Per i gruppi di discussione spero che  emergano da questo intervento sollecitazioni utili alla riflessione.

Grazie.

  Bibliografia essenziale

 G.Pesci, S. Pesci, A. Viviani, Reflecting: un metodo per lo sviluppo del Sé, Ed Magi, Roma, 2003. Grazie ancora

 

  4.2 Il “Sol.Co.”: migliorare la disabilità 

Domenico Polisano

 L’obiettivo: . . . un progetto di vita

Intorno alla “disabilità ” si sono costruiti saperi e tecniche avanzate e specialistiche, funzionali all’intervento settoriale, ma, in ragione della loro peculiarità, hanno allontanato dalle possibilità di un saper educativo diffuso.

Il nostro obiettivo  è  la formazione di operatori e volontari che, posti accanto al disabile, siano in grado di fare un percorso dove, l’animazione, l’assistenza e l’educazione possano creare una significativa relazione umana e sociale; in altri termini,  persone capaci di seguire, non un singolo aspetto della vita del disabile, ma che sappiano pianificare un “progetto di vita ” che chiama in causa tutte le competenze e le risorse presenti in un territorio.

In questa direzione vanno gli incontri con il prof. Vincenzo Masini.

L’azione di volontariato svolta dall’associazione “Il Sol.Co.” tende ad unire le famiglie che si trovano ad affrontare il difficile problema  dell’assistenza e dell’educazione di un disabile, famiglie che spesso vivono nell’isolamento più o meno evidente. L’azione di sensibilizzazione dovrebbe portare ad una maggiore apertura e disponibilità nei confronti dei “disabili”.

Dal 1990 al ‘96 si sono svolte attività sporadiche, successivamente si é organizzato un  Centro di aggregazione, trasformato recentemente in “Centro Socioeducativo”, per l’accoglienza dei disabili residenti nell’Agroericino.

 Lo stile: …come nel baglio

I bagli sono nati dove il latifondo è sorto o si è ricostituito, trasformato ed evoluto.

I bagli erano ubicati a rilevante distanza dai centri abitati, frequentati da personale rurale, sorgevano  in prossimità di sorgenti d’acqua ed in posizioni dominanti, hanno un aspetto esteriore di luoghi fortificati.

La giornata lavorativa cominciava all’alba, a lavorare lo stesso terreno vi erano più contadini, il più anziano “sovrastante”  assegnava a ciascuno il suo posto e il suo compito.

Prima di iniziare il lavoro il “sovrastante” toglieva la “coppola” e fattosi il segno della croce diceva “sia ludatu e ringraziatu lu santissimu e divinissimu Sacramentu” e gli altri rispondevano in coro: “ sia ludatu”. La giornata era scandita dalla posizione del sole nel cielo. I pasti, molto semplici e frugali, si consumavano nel campo, seduti in cerchio per terra o su qualche pietra. Tutti bevevano il vino o l acqua dallo stesso “valliri” preoccupandosi ciascuno di pulire il labbro del recipiente con le mani prima di passarlo al compagno vicino. Il lavoro terminava al tramonto; il contadino tornava al baglio dove lo attendeva la moglie. . . Finita la cena il capofamiglia rendeva grazie a Dio. Nelle serate estive i contadini si ritrovavano nel grande atrio e, nelle serate invernali, la vita delle famiglie si svolgeva attorno al focolare. Gli uomini parlavano del lavoro dei campi, facevano progetti, preparavano il lavoro per l’indomani.

I discorsi seri si alternavano a barzellette, scherzi e giochi. Mentre i grandi parlavano, i bambini ascoltavano, ma non era permesso di intromettersi nei discorsi degli adulti. I giocattoli erano “carretti” fatti con “pale” di fico d’India, nelle gare mettevano in palio bottoni, fave, ceci.

Le donne filavano, gli anziani raccontavano ai giovani fiabe e storie dei tempi lontani; se tra gli abitanti del baglio c’era un poeta, lo si invitava a improvvisare dei versi, che venivano sempre applauditi.

In tal modo si passavano le serate serenamente, fino a quando il capofamiglia non avvertiva che era tempo di andare a letto; allora tutti si alzavano e si avviavano al proprio giaciglio,  dopo che i figli avevano ricevuto la benedizione dei genitori. . .

Da compiangere, evidentemente, sfruttamento, stenti, sacrifici della vita nei bagli; da rimpiangere

 la vita comune, la condivisione, il rispetto dei ruoli, la fiducia, la speranza… che ci fanno vedere la vita nel baglio come uno stile da riconquistare!

Nella evoluzione dei tempi, per effetto del frazionamento della proprietà fondiaria, molti bagli hanno subito delle radicali trasformazioni, altri sono abbandonati.

 Il metodo: . . . verso la sobrietà

Da un punto di vista sociale, il mondo è attraversato da squilibri enormi, basti dire che il 20% più ricco gode di una ricchezza che è ottanta volte più elevata del 20% più povero. Anche se l’opulenza è riservata a pochi assistiamo alla considerevole riduzione delle risorse non rinnovabili e abbiamo messo in crisi i processi naturali come il clima.

Nel mondo esistono tre miliardi di poverissimi che hanno bisogno di mangiare di più, di vestirsi di più, di studiare di più, di curarsi di più. In una parola hanno bisogno di produrre di più, ma potranno farlo solo se noi accetteremo di produrre e di consumare meno, di orientarci dunque verso la “sobrietà”.

Per il nostro sistema la “sobrietà” è una rivoluzione che ci impone di rivedere le regole della nostra economia, della nostra tecnologia, della nostra organizzazione sociale. Allora qualcuno deve cominciare a descrivere gli eventi per quello che sono e ad adottare uno stile di vita diverso per dimostrare che questa dimensione di sobrietà è, oltre che possibile, addirittura liberante.

Sobrietà che non vuol dire ritorno al lume di candela o ai tempi in cui si moriva di tetano. A grandi linee possiamo dire che la sobrietà è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali ed i bisogni imposti, che sa ridurre e riduce i consumi perché non butta via niente finché è utilizzabile, perché ripara, perché riutilizza, si orienta verso il risparmio energetico e le energie rinnovabili consumando locale, mangiando meno e biologico.

Se la sperimentiamo ci renderemo conto che non è così brutta come la immaginiamo. Anzi ci farà riscoprire sensazioni che il consumismo ha ucciso. Riscopriremo il gusto della creatività, il gusto della padronanza di sé, della condivisione e della libertà. Perché anche l’opulenza ha il suo prezzo: l’affanno, il superlavoro, la mancanza di tempo per i rapporti umani e per lo spirito.

Cos’altro stiamo aspettando per imboccare la strada della sostenibilità e della felicità?

  

  4.3 Il dolore della scomparsa 

Elisabetta Pfanner

 Nel Medioevo le malattie, le guerre, le carestie rendevano la morte un evento sempre presente; essa faceva parte della normalità delle cose, era un momento condiviso dalla comunità. L’uomo morente nella sua casa era visitato da tutti, ma, soprattutto, sapeva quello che stava accadendo, lasciava le sue ultime volontà. La morte  era gestita insieme. Non era separata dalla vita ma era la sua naturale continuazione.

Nei secoli successivi i due mondi vengono separati: da una parte la vita, dall’altra la morte. La spiritualità, il sacro diventano privilegio del clero mentre le cose materiali rimangono di pertinenza dell’uomo laico. La morte è vista come fine della vita. L’individuo non condivide più con la società i suoi successi o i suoi insuccessi, si attacca sempre di più alla vita terrena e non accetta di essere mortale. Non accetta la morte come elemento naturale, come continuazione della vita, come tappa per la vita eterna. Alla fine del Seicento, la morte comincia ad essere interpretata come esame della vita, come approdo finale al quale giungere dopo aver vissuto in maniera saggia e giusta. Il distacco dalla vita diviene un atto ragionato. Nel Settecento invece la morte è interpretata come un evento eccezionale, crudele. Si vive come separazione, come ferita lacerante. Si teme la morte della persona amata, non si accetta.

Intorno alla fine dell’Ottocento scompare come evento, anzi è qualcosa di cui vergognarsi. La società fa di tutto per guarire.

Dall’industrializzazione fino ai giorni nostri la morte scompare addirittura come evento della comunità. La vita continua senza pausa. La società non può permettersi pause, la morte diviene pertanto un passaggio veloce che non deve intaccare una società in cui il business prevale sull’umanità e sulla spiritualità. La morte si è così trasformata in un evento innaturale, per la scienza è una sconfitta. Il paziente non deve sapere cosa sta accadendo; è gestito dalla famiglia, dagli amici, dai medici, perde i suoi diritti perché è un oggetto da curare, è una strumento da utilizzare per combattere la morte. L’uomo è così privato della sua morte, della sua preparazione, delle sue scelte. La nostra società non ha il tempo di prepararsi alla morte.

La morte è la fine, un fallimento e ad oggi, non viene accettata.

Il dolore accompagna la vita dell’uomo, dalla nascita alla morte. Nel dolore stanno le motivazioni iniziali della medicina. Sarebbe un errore, però ridurlo a biologia soltanto, perché interessa anche la psicologia e la sociologia, la filosofia e la teologia, cioè il pensiero e l’anima.

Dopo aver descritto una breve storia del concetto di morte, dalla mia esperienza, l’ho classificata in modo semplicistico in due tipi:

-         La “buona” morte

-         La “cattiva” morte

La buona morte, si identifica come morire in modo istantaneo e indolore, morire con la speranza di non morire o di rinascere, morire dando un senso alla morte che non neghi il senso della vita o dia alla vita un senso che non ha mai avuto.

La buona morte è morire consapevoli, sereni, preparati, con “stile”, queste persone muoiono in pace.

Nonostante sia molti anni che lavoro nel settore[7], la maggior parte delle persone non è preparata a questo evento, si parla allora di “cattiva morte”. Questa è vissuta con ansia e angoscia, viene privilegiata la durata della vita di un malato rispetto alla qualità della vita di un uomo. Tuttavia il rispetto per il soggetto vivente non consiste soltanto nel rispettare la sua vita impedendogli di morire. Allora, quale senso può avere prolungare di ore o giorni vite a prezzo di una fine penosa, una fine che forse resterà nella memoria dei cari come il ricordo di un grande dolore?

Migliorare la nostra esistenza è dunque comprenderla nella sua completezza che è nascita, crescita e fine. Fintanto che la nostra società continuerà a voler fuggire o impedire la morte, non sarà in grado di rispettare e dar valore alla vita.

 

  4.4 Psicologi e miglioramento 

Rolando Ciofi

 

Voglio iniziare questo mio breve intervento prendendo spunto da un pensiero che mi ha attraversato la mente questa mattina quando, con un taxi che mi portava alla stazione di Firenze dalla quale avrei preso il treno per essere ora qui con voi, sono passato davanti al liceo classico Michelangelo. Sono tempi difficili questi e spirano venti di guerra. Naturale dunque che gli studenti siano in fermento così come che i muri delle scuole più prestigiose di tali studenti rappresentino il pensiero, scritto con bombolette spray. Una scritta tra altre ha colpito la mia attenzione, diceva "+ Kaos" il più scritto con il segno matematico e Caos con la K iniziale. Linguaggio a parte, che comunque trovo sinteticamente poetico, sono andato col pensiero a molti anni fa, trenta o forse più, quando anche allora spiravano venti di guerra ed io ero un giovane studente. Quali erano le nostre parole d'ordine? Ricordo "fate l'amore non fate la guerra" o anche "mettete dei fiori nei vostri cannoni" ed anche qualche "più poesia" (scritto con le giuste lettere dell'alfabeto). Ma cosa hanno in comune quelle parole d'ordine un po' stantie della mia giovinezza con quelle così asciutte di oggi? Ieri ed oggi il contesto è quello della richiesta di pace ("+ Kaos" è "metallico", ed anche così isolato un poco sinistro, ma letto insieme ai molti altri slogan nel quale era inserito significa all'incirca "più movimento contro il pericolo della guerra") e tale richiesta avviene attraverso una idea di destrutturazione di decostruzione. I giovani pensano che si debba cambiare ed individuano nella destrutturazione il modo per cambiare. Che sia il kaos o i cannoni trasformati in fioriere ciò che serve è uscire da una logica "sbagliata", mettere in crisi la logica "sbagliata". E' l'eterno pendolo della condizione umana: costruiamo qualcosa, un pensiero, una casa, un sistema sociale e contenti della nostra opera ci sentiamo bene, protetti, rassicurati. Ma ad un certo punto ciò che ci protegge comincia ad opprimerci, la casa diventa prigione, il pensiero stereotipo, il sistema sociale regime ed avvertiamo la necessità di cambiare. E nel demolire ciò che prima era costruito proviamo un senso di libertà, di rottura di una schiavitù, di speranza per un avvenire migliore. Fino ad un certo punto però perché poi quei pezzi sparsi, quelle schegge che ci ritroviamo per le mani diventano ansiogene, ci sentiamo persi, angosciati, bisognosi di un nuovo ordine che ci tuteli e ci protegga e con fatica iniziamo nuovamente a costruire qualcosa che nuovamente domani ci opprimerà e così via nel flusso perenne che potremmo anche definire come il percorso del cambiamento. Nulla sarà mai più come prima e tutto continuerà a percorrere incessantemente lo stesso identico schema. Ma il meccanismo-cambiamento è neutro, asettico, ne buono né cattivo, vanno in crisi e vengono destrutturate sia le cose buone che quelle cattive, si costruiscono e ricostruiscono sia le cose buone che quelle cattive. Cambiamento non è sinonimo di miglioramento, esiste il cambiamento catastrofico, la guerra, l'impoverimento sul piano individuale che può seguire ad una psicosi, la destrutturazione infelice, la paura per un avvenire buio. Per parlare di miglioramento occorrerà necessariamente inserire nel meccanismo-cambiamento una griglia, una bussola valoriale. Ardua impresa questa nella quale certo oggi non mi cimenterò. Da persona profondamente laica quale ritengo di essere, mi limiterò a dare delle coordinate ad esplicitare i valori, non unici, non universali, non più veri di altri, ai quali, nel mio quotidiano lavoro mi attengo. La mia idea di fondo è che le differenze siano un patrimonio e che dunque non solo debbano essere tollerate ma coltivate nell'unico modo possibile ovvero quello di dedicarsi alla costruzione di contenitori sufficientemente ampi da contenerle tutte evitando o riducendo al minimo la possibilità che esse vengano a confliggere. Differenze e diversità sono a mio avviso il vero motore dello sviluppo umano. Ognuno liberamente farà le sue valutazioni. Ciò che mi preme è esplicitare il punto di vista dal quale io guardo al miglioramento. Cosa è il miglioramento di cui parlo.

Ma non voglio impressionare il pubblico con discorsi che possono apparire di troppo ampia portata. Come dicevo applico questi principi al mi quotidiano e il mio quotidiano è semplicemente quello di dirigere un Network, una rete, sul piano professionale e dunque anche della politica della professione, di psicologia. Sono segretario generale di una associazione che raccoglie 2700 operatori professionali della psicologia nel nostro paese e mi dedico dunque ad intercettare la domanda di psicologia che viene dalla società ed interfacciarla con l'offerta professionale esistente o che contribuisco ad organizzare. E lo strumento per coordinare tutto questo e legare le varie associazioni tra di loro e con i loro settori di intervento è lo strumento tipico della new economy, cioè è internet, è l’informatica, la tecnologia. Dirigo un portale di psicologia, un portale internet che si chiama Vertici, www.vertici.it , un portale che è un insieme di siti attraverso i quali vengono erogati servizi di psicologia. Siccome parlo ad un pubblico di professionisti consentitemi una piccola parentesi sul tema delle nuove tecnologie: noi stiamo passando dalla economia della produzione, dopo aver transitato attraverso l’economia della informazione, alla economia della conoscenza. Ognuno di questi momenti ha avuto ed ha dei protagonisti. Certamente protagonista dell’economia della conoscenza sono i detentori di conoscenza quindi i professionisti. L’economia dell’informazione sta tramontando. Ormai in internet c’è tutta l’informazione possibile di chiunque abbia qualcosa da dire in ogni più sperduta parte del mondo. Il problema non è più quello di avere a disposizione informazione ma quello di organizzare, articolare, gerarchizzare, rendere fruibili e immediate le informazioni necessarie nei vari contesti, nei vari momenti. Questa operazione può farla solo chi ha conoscenza, quindi in questo senso, davanti a tutte le libere professioni si apre un grande spazio. Alle libere professioni il compito di confrontarsi con le nuove tecnologie abbandonando reticenze e timori di fronte ai nuovi mezzi che si sviluppano con rapidità impressionante.

L'amico Masini è stato molto buono nel presentarmi come qualcuno che persegue il miglioramento nel suo settore, mi ha chiamato perchè raccontassi qualcosa di specifico e non solo per fare delle riflessioni generali, e dunque parliamone un poco di questa psicologia professionale.

Ormai è accettata nella società l’idea dello psicologo che sta negli ospedali, nei tribunali, nella scuola e nella formazione, che collabora con gli allenatori delle squadre di calcio o che aiuta un regista a trovare l’ispirazione, che si occupa dell’immagine del politico o del cantante, che tratta la disperazione dei malati terminali o che aiuta le coppie a separarsi senza danneggiare troppo i figli coinvolti e così si potrebbe andare avanti. Ma se nella società chiediamo quale è la differenza tra uno psicologo, uno psichiatra, uno psicoterapeuta, uno psicopedagogista, uno psicoanalista etc.. le idee sono allora molto confuse. Ciò che confusamente si crede è che tutto ciò che comincia con “psi” appartenga alla stessa famiglia, la psicologia appunto. E nella sua genericità non mi pare una idea sbagliata. A mio avviso occorre da una parte dare un adeguato ed unico contenitore a tutti gli “psi” possibili,  d’altra parte, nel mentre creiamo un unico contenitore ideale per tutto ciò che è psicologia occorre anche essere noi per primi ad illustrare, evidenziare e favorire la differenziazione interna che significa poi crescita del contenitore complessivo. Non manco mai di meravigliarmi quando, a fronte dell’esposizione di tale semplice progetto alcuni colleghi sostengono che così si vanificherebbe una identità faticosamente raggiunta. Trovo che sia vero l’esatto contrario. Nessuna disciplina è in grado di affermarsi se non dà vita ad una seria rete di sviluppo inter ed intraprofessionale. Per come io vedo le cose la psicologia costituisce un grande polo attrattore per un’area vastissima che può comprendere scienze dell’educazione, pedagogia, sociologia, filosofia per non dire di tutte le innumerevoli professionalità correlate a tali discipline principali.  Difficile poi contestare il fatto che siamo nell’epoca dell’emergere (o del riemergere?) del paradigma della soggettività. In questo contesto la psicologia (e la psicoterapia), per essere a tale paradigma legata sin dalla sua nascita, può essere il collante che lega e collega molte professionalità diverse nell’ambito delle scienze umane.  E’ in conseguenza dell’attenzione posta alla soggettività che siamo diventati sensibili ai temi psicologici. Il diritto si psicologizza, l’economia si psicologizza, la medicina si psicologizza, e tutto ciò accade perché è sintonico con la voglia di star meglio dei singoli individui che chiedono più attenzione al loro specifico problema, e in questo senso, le nuove professioni si muovono. Non è più prevalente il discorso sui problemi della grande massa, o meglio la grande massa sta maturando l'idea che il bene del singolo sia un patrimonio comune, e sta dunque diventando sempre più prevalente, con l’affermazione del paradigma della soggettività, l’attenzione ai problemi individuali. Ed ecco nascere su queste tracce, una serie di iniziative da noi assunte negli ultimi anni, la proposta di legge sulla psicoterapia convenzionata, per rendere la psicoterapia più accessibile a tutti i cittadini, il collegamento con il mondo delle assicurazioni per far sì che il benessere psichico sia assicurabile come quello fisico, lo studio delle comunità virtuali che si sviluppano in internet tra gli adolescenti a partire dalla evoluzione dei videogiochi, nella consapevolezza che le nuove tendenze sono risorse da conoscere e valorizzare, la rete nazionale di psicologia dell'emergenza, la rete nazionale di mediazione familiare e così via.

So che non è questo il luogo ed il contesto per entrare nel dettaglio di tali iniziative e per questo rimando gli interessati alla visita del sito www.vertici.com

Grazie per la vostra attenzione

 

   TAVOLA ROTONDA SUL MIGLIORAMENTO SPIRITUALE

  4.5 Il Miglioramento nella filosofia o una filosofia del miglioramento? 

Giuseppe Bertini

 Possiamo definire il miglioramento come un processo di avvicinamento ad un obiettivo intermedio o finale dato, che viene ritenuto il punto di massima esplicazione di una qualità ( perfezione).

 Dobbiamo quindi spostare il problema sul concetto di perfezione, distinguendo tra  perfezione tecnica e perfezione morale.

Possiamo definire la perfezione tecnica come ciò che prova, secondo una quantità misurabile, l'accrescimento di un'abilità o come ciò che soddisfa completamente un bisogno.

Possiamo definire la perfezione morale come la caratteristica che costituisce il punto di riferimento globale per la valutazione delle proprie scelte nell'economia dell'intera esistenza.

Naturalmente a noi importa soprattutto questa seconda  definizione, che  identifica, nella storia della filosofia, il contenuto del "bene".

 Nell'antichità il concetto di bene ha avuto il carattere di assolutezza e di guida eterna e predefinita alle scelte concrete dell'uomo, anche se in alcuni periodi, rappresentati ad esempio dalla sofistica e dallo scetticismo greco e romano, questa impostazione viene contestata.

A partire dalla fine del secolo XIX° il carattere del "bene" entra in una profonda e duratura crisi, proprio come reazione alla cultura positivista, che ha rappresentato l'ultimo e forse più ambizioso tentativo di concepire una oggettività del bene, fondato sull'accordo progressivo tra uomo e natura e tra individuo e società.

Come esempi di questa crisi, delle nuove impostazioni etiche e della parzialità delle soluzioni proposte dalla filosofia contemporanea, possiamo citare il soggettivismo creativo e superomista di Nietzsche per cui niente può limitare la creatività istintiva dell'individuo (ma con quale criterio affrontare il problema della relazione con gli altri?), l'intuizionismo etico di Moore per cui ciò che è buono in sé può essere solo frutto di intuizione e quindi indefinibile, possiamo solo descrivere le situazioni a cui di fatto attribuiamo generalmente questa qualità: (ne ricaviamo una utile analisi ma perché dobbiamo adeguare il nostro comportamento ai risultati dell'analisi?), l'umanesimo sociale di Gramsci per cui il bene morale è il dominio dell'uomo sulla natura e il caso e conseguentemente il miglioramento  è misurabile (ma come trattare la problematica personale e ,comunque, il dominio sulla natura è sempre buono?), l'umanesimo esistenzialista di Sartre per cui il bene morale consiste nell’assunzione autentica della inalienabile responsabilità della propria libera scelta (ma che senso ha l'uso autentico della libertà se questa è, come è per l’esistenzialismo, destinata al fallimento?),

l'organicismo naturalista di Dewey per cui il bene morale consiste nel favorire lo sforzo dell’organismo umano proteso a salvaguardare la propria sopravvivenza  nell’adattamento ai continui cambiamenti ambientali: la indubbia naturalità dell'esistenza dell'uomo ne descrive veramente tutti gli orizzonti pratici?

 COME MIGLIORARCI

Condizioni teoriche

Se è vero che gli interrogativi sopra accennati descrivono l'insoddisfazione delle esigenze etiche di fronte alle filosofie più recenti, è vero anche che qualsiasi ricerca del bene non può non tenere conto di alcune condizioni teoriche che esse hanno posto e che sono difficilmente evitabili.

Queste condizioni mi sembrano essere le seguenti.

1) Il riconoscimento della instabilità del concetto di bene: la stessa teoria scientifica (fisica della indeterminazione, fisica quantistica) ha ormai messo in serio dubbio la possibilità di una conoscenza oggettiva della realtà e, di conseguenza, non si vede come si possa salvare da questa critica il bene stesso, a meno di ricorrere ad espedienti logici poco conciliabili con il rigore del ragionamento filosofico.

2) Il riconoscimento dell'assenza di una natura umana: già Pico della Mirandola, in epoca umanistica, raccontava che Dio, dopo avere creato tutti gli esseri, ciascuno con una determinata forma, alla fine volle creare un ultimo essere che conferisse un tocco finale alla perfezione dell'universo e così creò l'uomo. Ma non avendo più forme a disposizione, gli dette la  facoltà di scegliersi la propria tra tutte le altre già create. Gli esistenzialisti svilupparono e approfondirono il concetto affermando che l'uomo è quell'unico essere per il quale l'esistenza precede l'essenza. In realtà le vicende storiche e culturali degli ultimi due secoli ci dimostrano che la natura umana non può essere ragionevolmente concepita come un punto di partenza del confronto tra individui e civiltà, ma, al contrario, come un difficile punto di arrivo di complicate esperienze e di impegnative ricerche di accordo e di convivenza.

3) Il riconoscimento dell'assenza di un ordine dell'universo: Aristotele aveva concepito la realtà come una ordinata gerarchia di esseri, nella quale potesse manifestarsi l'unità  e potessero giustificarsi le differenze. Porfirio, qualche secolo dopo, cercò di concretizzare l'idea aristotelica costruendo un albero degli esseri, ma fallì perché, a seconda delle differenze che voleva giustificare e ricondurre ad unità, era costretto ad invertire nella loro posizione i diversi rami dell'albero. Umberto Eco ha così concluso che la conoscenza umana può più efficacemente valersi di una struttura mobile come una rete, i cui fili possano essere legati e slegati a seconda delle specifiche esigenze, che non da una struttura rigida e gerarchica come quelle di Aristotele e di Porfirio. La duttilità delle stesse scienze "esatte" nel costruire e nell'adoperare modelli per la ricerca di soluzione ai diversi problemi sembra sostenere l'idea di Eco.

4) Il riconoscimento della problematicità dell'organizzazione dei valori: ogni epoca,  probabilmente, non crea valori completamente nuovi, ma li organizza diversamente attorno ad uno o più valori fondamentali; ogni civiltà ha proposto una propria scala in cima alla quale sono collocati alcuni valori, che spesso erano stati repressi dalle civiltà precedenti. Le rivoluzioni sono esempi evidenti e violenti di imposizioni di valori rimasti soffocati nella struttura gerarchica dei sistemi a cui si reagiva.

 Condizioni pratiche

Se non possiamo individuare un traguardo (il bene morale) che abbia il carattere della certezza e della universalità, possiamo definire alcune condizioni comuni alla ricerca e alla approssimazione di esso.

Lo possiamo fare reinterpretando, sulla base delle analisi e delle problematiche della cultura contemporanea, un concetto proprio della filosofia antica e cioè il concetto di armonia.

Qualsiasi sia l'idea di bene che ciascun individuo o ciascuna comunità matura dentro di sé, difficilmente riesce a sopportare la complessità dei fattori di carattere emotivo, culturale, sociale che lo determinano senza trovare un punto di equilibrio tra essi che svolga la funzione di quel freno morale e di quel criterio selettivo che una volta era costituito dalla superiore norma morale.

 La sensibilità culturale contemporanea esige che priviamo il concetto antico della sua staticità e del suo egocentrismo, per conferirgli dinamicità e policentrismo. Cioè dobbiamo concepire l'armonia come un dato sempre ricostruibile nella relazione dei suoi componenti e come un ordine non più centrato sui tradizionali valori spirituali dell'individuo, ma avente punti di riferimento diversi, capaci di modificare la problematica individuale in rapporto alla presenza degli altri, della società  e della natura.

 Più in particolare parlerei di questi tipi di armonia:

Armonia interiore: Migliora chi riesce ad essere più coerente, chi sa ricomporre il più possibile tensioni e aspirazioni diverse e ricondurle  ad un nucleo fondamentale  di significati personali che costituiscono il nostro originale approccio globale al mondo sia in base ad elementi caratteriali sia in base alla storia delle proprie esperienze e delle proprie scelte.

 Armonia sociale: Migliora chi riesce a comunicare più efficacemente, chi non si abbandona al conformismo, ma si impegna nella comunicazione interpersonale con conseguente accettazione delle regole ad essa sottese. Anche il progresso scientifico, comunque interpretato, ha bisogno di essa.

 Armonia naturale: Migliora chi è più realista, chi sa che non esiste una verità oggettiva, ma esistono comunque dei fatti accertabili con cui dobbiamo misurarci.

In questa regola rientra non solo il rispetto ecologico ,ma anche la considerazione del limite del proprio progettarsi nel mondo nel rispetto del dato naturale: l'entità di  un piacere è diversamente valutabile, ma la sua realizzabilità, cioè la sua possibilità di manifestarsi entro una dimensione naturale, è superiore alla sua semplice pensabilità.

 Armonia valoriale: Migliora chi più si storicizza, chi sa riconoscere la priorità storica di un valore, con la coscienza della necessaria complementarietà di  tutti i valori che stanno a fondamento delle aspirazioni individuali e sociali: senza questa coscienza cadiamo inevitabilmente nel fanatismo.

Quando si  rischia la rottura della complementarietà dei valori, si finisce sempre in tragedia. Per esempio il fanatico della giustizia finisce per costringere in modo ossessivo a comportamenti determinati, per cui la libertà repressa troverà strade contorte ed insolite per prendersi la  rivincita sulla stessa giustizia mediante la corruzione, l'inganno, la finzione. Non a caso la storia, anche recente, ha portato esempi di fanatici che hanno ribaltato clamorosamente la propria posizione.

 Il concreto della situazione storica dà il limite della compatibilità dei valori: attenzione alla rigidità di questo limite e della gerarchia che lo ispira! bisogna capire la dimensione contingente, storica della propria azione senza assolutizzazioni.

 La funzione della ragione

La ragione non costruisce il materiale della nostra esistenza, ma ne cuce i pezzi, garantendo un equilibrio che li renda sopportabili.

Se noi non facciamo lavorare incessantemente questo filo, tenendo conto che i singoli pezzi si dilatano o si restringono, si scaldano o si raffreddano, l'equilibrio si rompe: è la crisi, alla ragione subentrano gli eccessi delle passioni o delle ideologie: talora questa crisi è necessaria e salutare , ma alla lunga non è sopportabile.

  Fragilità degli equilibri e sopportabilità dell'esistenza

Se la costruzione di questi tipi di armonia sia sufficiente a realizzare le nostre più profonde aspirazioni, quello che chiamiamo "il bene", è molto incerto e comunque valutabile solo personalmente.

E' probabile invece che, più modestamente, riusciamo ad avanzare lungo il percorso, che renda più sopportabile il nostro cammino.

E' questo comunque il contributo originale che può offrire la ragione allo svolgimento di quel complicato, variegato e, se volete, misterioso processo che è l'esistenza umana. 



[1] La metodologia a cui si fa riferimento è espressa in V. Masini, La qualità educativa, relazionale e dell’apprendimento, Prevenire è Possibile, Isernia, 2001.

 [2] Per l’approfondimento di questi concetti si rimanda a V. Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire è Possibile, Isernia, 2000.

 [3] La ricerca-azione è consultabile in internet,  www.prepos.it

[4] Cfr.,V.Masini, Dalle emozioni ai sentimenti, ed. Prevenire è Possibile, Isernia, 2001.

[5] Per l’approfondimento di questa metodologia vedi V. Masini, op.cit., 2001

[6] cfr.,Becciu-Colasanti, La leadership autorevole, ed.Nis

[7] Elisabetta Pfanner è oncologo medico (ndr.)

 

 

 

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