GLI ARCHETIPI RELAZIONALI

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Le acquisizioni relazionali non sono stabili, ad eccezione di quelle archetipiche che si sono consolidate come simboli negli archetipi collettivi presenti nella mente degli uomini.

Anch’esse però sono spurie: accanto all’archetipo positivo dell’amor paterno, c’è il padre padrone; accanto all’amor fraterno, c’è il mito di Caino; accanto all’onore per la difesa dei cuccioli e delle femmine, c’è la prepotenza e la sopraffazione; accanto all’attaccamento materno, c’è la simbiosi parassitante…

Le relazioni evolute sono quelle che perseguono l’obiettivo di purificazione degli archetipi e di invenzione di nuovi modelli di intersoggettività.  

Gli archetipi nell’inconscio collettivo, relativi a queste figure, sono erosi solo parzialmente dalla postmodernità e provocano attese e proiezioni in linea con i significati di senso comune a cui i vocaboli tradizionalmente attingono.

Espressioni quali: “È stato come un padre per me!” “È un vero amico!” “È proprio una suocera!” “Siamo colleghi leali!” “Più che una vicina di casa mi sembra una mia parente!” sono ancora percepibili per il senso della relazione a cui alludono.

In verità è all’interno delle categorie di questi rapporti che si sono codificate le modulazioni delle tipologie, delle distanze e dei cicli di durata relazionali. L’antropologia umana descrive queste figure e la loro varianza nella storia e nelle culture senza entrare nel merito della qualità relazionale assunta da ciascuna figurazione nell’occupare lo spazio relazionale di sua pertinenza.

Le figurazioni interiorizzate negli archetipi hanno caratteristiche stereotipate positive ma anche degenerazioni primitive: l'archetipo materno per il figlio maschio vige nelle sue articolazioni di affettività indubitabile, attaccamento sicuro, ma anche di supermamma, madre simbiotica, madre complice, madre incestuosa, madre iperprotettiva, madre anaffettiva e distaccata, iperprotettività ecc. con tutte le conseguenti ombre prodotte dalla figura materna nei rapporti che instaurerà con le donne. Per la figlia l’archetipo materno è quello del riconoscimento della femminilità con la consegna dei compiti della riproduzione e della cura. La consegna passa di madre in figlia mediante il trasferimento biologico dei mitocondri ma anche della visione matriarcale di matrioske contenute una nell’altra. L’archetipo del contenimento è vettore della rivalità femminile e della competizione tra femmine sia nel possesso del maschio che nel miglior esercizio del potere domestico.

L’archetipo paterno per il figlio maschio implica la protezione, la guida, il modello, la decisione, l’affettività paterna ma anche la rivalità, la successione, la conquista e/o la consegna delle chiavi del mondo. Per la figlia femmina l’archetipo implica l’idealizzazione proiettiva sul maschio, l’ammirazione, la sicurezza, il riconoscimento della femminilità, ma anche l'incesto affettivo, il timore della differenza, la distanza paterna, il desiderio di esclusività relazionale ed il bisogno di sentirsi la preferita.

Anche nella relazione matrimoniale intervengono gli archetipi: il marito padre, il marito madre, la moglie madre, la moglie figlia, la moglie padre, la coppia di fratelli, i complici nella sessualità, l’unione tra riproduttori, la coalizione dei produttori di cibo, di cura, di attrezzi, di servizi,…

Per questo motivo la ricerca ha affrontato, separatamente ed in successione, il bilancio delle relazioni positive ed attive e l’analisi delle tipologie relazionali oppositive e primitive.

Mi hanno sempre lasciato interdetto le visioni oscure ed umbratili delle dimensioni archetipiche; probabilmente la cultura psicoanalitica si è così dedicata alla ricognizione del male oscuro dell’uomo, da dimenticare la funzione positiva degli archetipi per la strutturazione delle relazioni. E’ assolutamente vero che l’implicito punitivo presente nelle mitologie costituisce un valido deterrente all’esercizio della violenza relazionale così come il “timor di Dio” ha contenuto l’arroganza dei potenti ed il dilagare della sopraffazione primitiva. Ma è anche vero che negli archetipi esistono valenze culturali estremamente positive a cui è sempre possibile far riferimento assecondando le inclinazioni affettive che risalgono dall’inconscio fino alla percezione positiva di tali influenze nella coscienza.

Hillman descrive gli archetipi come "i modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell'anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi ed il mondo. Essi sono le immagini assiomatiche a cui ritornano continuamente sia la vita psichica che le teorie che formuliamo su di essa"[1].

Dirà anche, nella sua famosa teoria della ghianda, che gli archetipi rappresentano una “superstizione parentale” che induce ad attribuire la “colpa” del malessere esistenziale alle deprivazioni che abbiamo subito da nostra madre o all’assenza del padre: “..noi siamo vittime non tanto dei nostri genitori, quanto dell’ideologia del genitore; non tanto del potere fatale della Madre, quanto della teoria che le attribuisce quel potere fatale”.

Mi piace applicare il concetto di superstizione al lato oscuro degli archetipi ma mi piace ancor più vedere il riferimento luminoso che emanano nei mondi della vita. Se queste riemersioni vengono purificate dalle rappresentazioni simboliche terrificanti attraverso la consapevolezza relazionale, sarà fatto un passo verso le relazioni evolute.

 



[1] Hillman J., The essential James Hillman: a blue fire, Routledge, 1990